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30.11.06

Walker Texas Ranger


Ovviamente, come al solito, mercoledì mattina ho già gli occhi spalancati all'alba. Poco male, così ho il tempo per farmi una doccia, far colazione e sbattere già un po' di roba in valigia, per non dover fare troppo all'ultimo momento. A colazione incontro il tipo francese e la PR inglese, così ho occasione di salutare ancora una volta entrambi. Alle nove in punto si presenta in albergo la simpatica signora dell'Avis, pronta a portarmi fino alla loro sede, dove recupero la macchina che userò per tutta la giornata.

Lungo il tragitto si chiacchiera piacevolmente, le spiego per quale motivo mi trovo lì, mi fa notare che è quasi criminale passare per il texas senza provare il barbeque di cui vanno tanto orgogliosi e si arriva con calma a destinazione. Una volta sbrigate le pratiche, mi metto in viaggio lungo la Interstate 35, che mi porta direttamente verso San Antonio. Contrariamente alle previsioni, il traffico si rivela abbastanza tranquillo: certo, di macchine in viaggio ce ne sono parecchie, ma è tutto molto scorrevole e incappo in un rallentamento solo in corrispondenza di uno svincolo particolarmente "pesante".

Durante il viaggio resto ancora una volta affascinato da queste enormi strade americane. Quattro o cinque corsie per senso di marcia, disperse in mezzo al nulla completo. Ogni tanto un centro abitato, con queste giga-uscite dove trovi di tutto, dal benzinaio, al McDonald's, all'albergo, alla Steakhouse. L'America dei film e dei telefilm, insomma, avvolgente e tremendamente ipnotica da osservare.

Nel giro di un'ora o poco più arrivo a San Antonio. Seguendo le indicazioni stampate da Mapquest e i cartelli in giro raggiungo subito la zona dell'Alamo e vado a mollare la macchina in un parcheggio del centro commerciale. Una volta uscito - e una volta superata una momentanea fase di panico modello "oddio ho perso il bigliettino del parcheggio" - comincio a vagare guardandomi attorno, gironzolando per Alamo Plaza e raggiungendo il centro informazioni turistiche, dove raccatto un bell'assortimento di mappe e volantini.

Recupero una bottiglietta d'acqua e mi metto in marcia verso sud, in direzione dell'Hemisfair Park. Lungo il tragitto mi imbatto in una scala che scende verso il basso e porta alla River Walk, una sorta di lunga passeggiata che costeggia il San Antonio River (anche l'immagine in apertura del post è presa da lì). Il fiume taglia in due la città e si chiude in una specie di anello nella parte centrale. Sulle due rive si trovano altrettanti "camminatoi", fatti apposta per gironzolare in tranquillità. Nella parte più centrale c'è un discreto assembramento di folla, vuoi perché è pieno di baretti e ristoranti, vuoi per il passaggio di imbarcazioni turistiche. Ma se ci si allontana un po' dal centro, la passeggiata diventa davvero silenziosa (i rumori del traffico sono smorzati dal fatto di trovarsi più in basso) e rilassante.

Ad ogni modo, per il momento, sfrutto la River Walk solo per raggiungere il parco. Qui spunto fuori e comincio a gironzolare, fermandomi a un chiosco per mangiare qualcosa (per la precisione un'insalata di pollo). Dopo aver consumato, salutato e augurato buon Thanksgiving, mi rimetto in marcia e procedo verso sud, passo di fianco alla Federal Courthouse e taglio poi verso est, prendendo la direzione dell'Alamodome, la vecchia casa dei San Antonio Spurs. Per raggiungerlo si cammina lungo un ampio passaggio pedonale, che passa sotto la Interstate 37. Il transito è per certi versi inquietante, con questo "soffitto" bassissimo che lancia vibrazioni fortissime per ogni macchina che passa.

Arrivato davanti all'Alamodome mi fermo a zuzzurellare un po' nel piazzale, guardandomi attorno, sbirciando in giro, pensando alle immagini viste negli anni in TV durante le tante dirette di partite NBA. Intanto il sole splende alto nel cielo: la giornata è bellissima, senza una nuvola. C'è un bel caldo e infatti sto in maniche corte, anche se con sopra la giacchetta per proteggermi da un bel venticello fresco. Soddisfatto dalla breve visita, mi rimetto in cammino verso il parco, intenzionato a visitare la Tower of the Americas.

Trattasi di torre alta circa 230 metri, con un capiente ascensore utilizzabile per raggiungerne la vetta. Qui si trovano un ristorante e un osservatorio, organizzato in una sezione interna, protetta da una bella vetrata, e una sezione esterna, con una passatoia esposta al vento. Il bello della sezione interna è che ci sono tutta una serie di pannelli con cenni storici e indicazioni utili per riconoscere questo o quel palazzo. Il bello della sezione esterna, beh, è che è esterna!

La vista è davvero notevole e gironzolare per la passerella cazzeggiando, guardandomi intorno e chiacchierando coi passanti è un piacere. Dopo un po' mi metto a scrutare l'orizzonte per cercare di individuare luoghi precisi. Per esempio l'Alamo, l'Alamodome, l'AT&T Center (ex SBC Center, attuale casa dei San Antonio Spurs). Quando mi rendo conto che sto facendo foto stupide a cartelli e ombre, decido che è giunta l'ora di tornare a terra, spendere qualche soldo al negozio di souvenir e uscire dalla torre.

A questo punto decido di dirigermi verso l'Alamo, allungando il cammino per visitare una parte del parco che ancora mi manca. Mi ritrovo infatti in questa via, sui cui lati sorgono ancora delle vecchie case risalenti non ricordo più a quale epoca e conservate ancora oggi. Qui mi fermo a ciondolare su una panchina e a farmi quattro risate osservando gli scoiattoli. Mentre riprendo il cammino, incontro un simpatico signore di mezz'età che attacca bottone chiacchierando dei bei tempi, del bel tempo, della cognata di origini italiane che vive a San Marino e che lui è andato a trovare e bla bla bla. Dopo averlo scaricato, punto dritto all'Alamo.

Il giretto nella vecchia missione e in quel poco o nulla che resta della fortificazione è interessante, anche se obiettivamente non c'è moltissimo da vedere e più che altro si percepisce il fascino di stare in un posto dalle vicissitudini tanto "cariche". Anche se poi si tratta di un evento tutto sommato geograficamente distante, poco vicino e vissuto, almeno per me. Certo è che i dettagli, le scritte e i segni sui muri, le armi e i resti, qualche brivido addosso te lo mettono. Termino la visita firmando il guest book, leggiucchiando i cenni storici, passando nel negozio di souvenir e, ovviamente, cazzeggiando un po' nel parchetto.

Una volta uscito, mi faccio il giro delle vetrine di Alamo Plaza e dintorni, più che altro perché si tratta di quei folli musei americanissimi, roba sullo stile de "Il gomitolo di lana più grande del mondo". Ci sono per esempio il museo del Guinnes dei primati, quello del Ripley's Believe it or not e quello, allucinante ma vero, delle corna. Sì, le corna, quelle degli animali. Non ho però la forza di entrare in nessuno di questi posti e mi dirigo allora di nuovo verso la River Walk, con lo scopo di girarmela più a fondo.

Si rivela una scelta vincente: complice anche il bel tempo (non mi capita spesso di girare in maglietta a novembre inoltrato), la passeggiata è piacevolissima. Procedendo verso nord oltrepasso tutta la zona dedicata a ristoranti e ristorantelli (c'è anche un Johnny Rockets che mi tenta, ma per fortuna è sull'altra riva) e procedo, cazzeggiando fra panchine, paperelle e scoiattoli. A un certo punto mi rendo conto di stare andando troppo in là e sbircio la mappetta. Scopro di essere più o meno all'altezza di un posto che volevo visitare e salgo alla prima scala.

Dopo una breve camminata, mi ritrovo in una piazza dove sorgono un monumento per i caduti della guerra in Corea e uno per quelli del Vietnam. Gironzolo un po' nei dintorni e poi mi dirigo nuovamente verso Alamo Plaza, deciso a recuperare la macchina: comincio ad essere stanco di camminare e, soprattutto, prima di andare a vedere la partita voglio fare visita a una fumetteria di cui ho pescato l'indirizzo su Internet.

Trattasi di Dragon's Lair (e già il nome mi aveva convinto), presente fra l'altro anche ad Austin. Per raggiungerla, mi servo del cumulo di mappe della città e delle indicazioni stampate con Mapquest riportanti il tragitto da Alamo Plaza all'indirizzo esatto della fumetteria. In pratica, affronto qualche viuzza ( prendendo, temo, anche un rosso... speriamo non arrivi la multa) e imboco poi la Interstate 10, che seguo verso nordovest per poco più di sei miglia, fino a Balcones Heights. Qui esco e mi immetto in Fredericksburg Road, al cui numero 7959 pesco la fumetteria.

Il posto è molto simile a quello dispersissimo in cui si trovava il negozio di wargame visitato per esigenza di Paglianti durante il viaggio all'E3 dello scorso maggio. Questi stradoni lunghi e larghi, delle sorta di Viale Coni Zugna ampi il doppio e lunghi dieci volte tanto, con agglomerati di negozi ogni tot miglia. Ovviamente Dragon's Lair si trova nel senso di marcia opposto a quello in cui ho imboccato la via, ma poco importa, perché appena me ne accorgo gestisco la manovra sfruttando un benzinaio e mi rimetto in carreggiata.

La fumetteria è ottima. Niente di strabordante, ma è un bel negozio, ampio, ordinato e con grande attenzione per i volumi, che poi è ciò che speravo di trovare. Mi cade subito l'occhio sulla ristampa in paperback delle due miniserie-revival della Justice League di Giffen/DeMatteis/Maguire: me ne aveva parlato Montag anni fa e da allora le bramavo. Afferro al volo e già così sarei soddisfatto, ma la vera illuminazione arriverà un paio di espositori dopo: la One Volume Edition di Bone, il Santo Graal delle mie spedizioni fumettistiche in giro per fiere e negozi negli ultimi due anni. Essa. La afferro sbavando con estrema bramosia e comincio a guardarmi attorno con fare circospetto, temendo che qualcuno voglia fregarmela. In queste condizioni perlustro il resto del negozio, ma so benissimo che non raccoglierò altro, perché già così spenderò abbastanza e perché, diciamocelo, sono più che soddisfatto.

Una volta posato l'obolo alla cassa, esco e torno in macchina. Mi rilasso un attimo, sfoglio la roba comprata, mi accascio un po' e poi decido di ripartire: destinazione NBA. Mentre mi immetto nuovamente in Fredericksburg Road, direzione sud, noto in lontananza la silhouette della Tower of Americas e in generale la skyline del centro. Mi rendo insomma conto che per tornare in città non c'è bisogno di infilarsi nuovamente nella highway, che fra l'altro è un po' intasata di lavori in corso, e decido così - confortato da quel che vedo sulla mappa - di tirare semplicemente dritto per la strada in cui mi trovo.

Dopo un po' mi fermo a un passaggio a livello. Sta transitando un treno merci. Che transita. Transita. Transita. Transita. Transita. ("Ma quanto cazzo è lungo?") Transita. Transita. Transita. Si ferma. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Alcune macchine fanno inversione e se ne vanno. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Mi metto a leggiucchiare la Justice League. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Finalmente riparte, dopo una decina di minuti da quando mi ero fermato. Vabbé, alla fine è stato quasi divertente.

Mi riavvio e, senza manco guardare la mappa, mi oriento a memoria e controllando costantemente la posizione della Tower of Americas, manco fosse la Stella Polare. Beh, magari anche un po' a culo, ma così facendo finisco proprio per incrociare quel che cerco, vale a dire Houston Street, la via su cui si affaccia l'AT&T Center. La imbocco tutto tronfio e la percorro per un bel po', tanto da temere di averla presa nel senso sbagliato ("Ma no, è giusto, devo andare verso est"), fino a che non vedo spuntare all'orizzonte il palazzetto.

Mi immetto nella stradona e vado a piazzare la macchina nel parcheggio ufficiale, pagando il relativo obolo, ma ritrovandomi in sostanza a due passi dalla destinazione (la foto purtroppo è venuta un po' una merda). Il momento si fa emozionante: per la terza volta vado a vedere del basket dal vivo. Nel 2002 fu l'All Star Game di Philadelphia, nel 2004 furono le semifinali e le finali del torneo di basket olimpico ad Atene e adesso, per la prima volta, una partita NBA vera (per quanto di regular season autunnale). Emozioni diverse, per motivi diversi e in momenti diversi.

Comunque, mi incammino verso il palazzetto, vado a ritirare il mio biglietto, supero i controlli (vedendomi fra l'altro consegnare quei meravigliosi "stecconi" gonfiabili, da schiantare l'uno contro l'altro per far casino e da agitare davanti agli ospiti quando tirano i liberi) e comincio a gironzolare. Manca poco meno di un'ora, quindi me la prendo comoda, visito tutto il posto, osservo le cheerleader, gironzolo per i negozietti, mi mangio una terrificante Pepperoni da Pizza Hut e, con calma, vado a sedermi al mio posto, nella sezione 226.

Sono abbastanza in alto, ma mi trovo sul lato lungo e la visuale è ottima. Il palazzetto mi sembra più piccolo rispetto ai due in cui sono stato in passato, ma non ho certezze al riguardo. Comunque, trascorro un po' di tempo osservando il luogo, facendo qualche foto, scrutando i giocatori che fanno riscaldamento e divertendomi con gli spettacolini. Quando è quasi ora di iniziare, Matt Bonner fa gli auguri per il Thanksgiving e lascia poi spazio tre tizi che si esibiscono in una versione "a cappella" dell'inno americano. Tutti in piedi, mani sui cuori, gente che si gasa. Bello.

La partita è divertente, dal risultato abbastanza scontato (Miami, priva di Shaq, regge per i primi due quarti e viene poi travolta), ma piacevolissima da seguire, un po' perché il tifo è spettacolare, un po' perché gente tipo Duncan, Wade, Ginobili e Parker, vista dal vivo, è davvero incredibile, da lasciare ipnotizzati. Poi, vabbé, non posso fare a meno di notare come il tifo, al di là dei "buuuu", sia vigoroso, passionale, ma estremamente corretto e mai offensivo nei confronti delle sacche di tifosi ospiti. Negli ultimi tre anni ho frequentato parecchio San Siro e francamente non ricordo una singola sera in cui non mi siano volate attorno tonnellate di insulti (quando ci si limita a far volare quelli).

Comunque, una volta finita la partita, mi gusto ancora un po' l'atmosfera e poi mi alzo e mi allontano trotterellando con un bel sorriso stampato in faccia. Una volta arrivato al parcheggio, vengo per brevi attimi colto da un accenno di panico: dove cazzo ho messo la macchina? Per fortuna, una rapida combo di tasti sul telecomandino la fa illuminare in stile Incontri ravvicinati e mi mostra la via. Salgo a bordo, studio velocemente le mappe e mi metto in viaggio. E, beh, non è che voglia per forza fare quello che "certo che lì è troppo meglio che da noi", ma l'uscita dal parcheggio è quasi inquietante: tutti sono ordinati e precisi, nessuno vuole prevaricare, ci si muove uno alla volta e si è incanalati e distribuiti lungo tante corsie. In due minuti sono fuori dal parcheggione attaccato al palazzetto e strapieno di macchine. In Italia ci avrei messo minimo mezzora. Per non parlare del fatto che cinque minuti dopo sono già sulla Interstate.

Il viaggio di ritorno non è proprio una passeggiata, perché la stanchezza, unita ai soliti problemi di jet-lag, comincia a farsi sentire di brutto. Combatto le palpebre pesanti alzando a palla il volume della radio (sintonizzata su uno splendido canale rock scoperto in mattinata) e cercando di concentrarmi: non sono nemmeno le dieci, ma mi sento come se fosse notte fonda. Arrivo comunque all'albergo (22:30 circa) sano e salvo e mi fiondo in camera, dove ovviamente sono abbastanza pirla da non mettermi subito a dormire, ma anzi mi piazzo a letto davanti a ESPN.

La mattina dopo mi sveglio ancora più all'alba del solito e mi fiondo a far colazione. L'intenzione è chiara: voglio mangiare pancake, a costo di pagarli. Ma - piacevolissima sorpresa - il cameriere mi spiega che non c'è il buffet, ma posso comunque utilizzare il buono-buffet lasciatomi da Midway per ordinare qualcosa dal menu. E via di pancake, allora, conditi con banane, frutti di bosco e, ovviamente, litri di sciroppo. Il tutto, come al solito, accompagnato da the caldo e succo d'arancia. Dopo aver consumato, vado a recuperare i bagagli, gestisco il check-out e mi fiondo in macchina. L'aereoporto è vicino, circa un quarto d'ora, ma devo comunque sbrigarmi, perché se tardo sull'ora di consegna all'autonoleggio mi toccherà pagare un giorno in più.

Si gestisce comunque tutto in tranquillità. Il viaggio di ritorno va via abbastanza liscio. Ad Austin ammazzo il tempo connettendomi tramite un Internet spot a pagamento e zuzzurellando un po'. A Chicago, dove peraltro noto tristemente un volo Alitalia in partenza diretto a Milano, mangio un panino al tacchino (alè, il Ringraziamento) e seguo sui monitor la partita fra Cowboys e Buccaneers. Il volo intercontinentale di ritorno è gestito come al solito: leggo (Justice League) fino all'inizio dei primo film. Mi guardo - purtroppo - fino in fondo il mediocrissimo Uomini e donne e mi abbandono quindi al gentile abbraccio di Morfeo, per ridestarmi solo a un'oretta dall'atterraggio. Meglio di così potrebbe andare solo se fossi già arrivato a Milano. Già, perché invece sono a Londra e mi aspetta ancora un volo. Il rimpianto vero, comunque, è un altro: arrivare a casa e scoprire che il giorno della mia partenza si è giocata a una spettacolare San Antonio/Dallas, vinta dai Mavericks di due punti. E vabbé, non si può avere tutto...

27.11.06

Pubblica utilità


Un postariello veloce veloce per segnalare a chi non se ne fosse accorto l'inserimento di un nuovo - e differente - servizio di feed, reperibile nella colonnina qui a destra. Lo consiglio a tutti, soprattutto a chi era iscritto a quello vecchio, se non altro perché sembra non commettere l'insopportabile errore di rispedire il feed dei vecchi post ogni volta che vado a modificarli per qualche motivo. Almeno credo.

26.11.06

Tex Mex


Partenza col turbo, Malpensa Express in orario perfetto, check-in tranquillo, trolley affidato (in preda al terrore) al nastro trasportatore, compro la gazzetta per poi scoprire che la smollavano gratis all'imbarco, mi spaparanzo al mio posto e trascorro il tragitto fino a Londra leggiucchiando. Giunto a Heathrow, prendo il bus per spostarmi al terminal 4. Nell'attesa dell'imbarco mi accaparro la prima di tante cioccolate calde da Starbucks e il tempo scorre in fretta. Il volo verso Chicago è tranquillo e comodo, perché l'aereo è semivuoto e di spazio ce n'è in abbondanza. Oltre a leggermi quasi per intero il numero di Empire comprato a Londra, mi ciuccio un po' di fumetti, mi guardo il divertente Talladega Nights e sonnecchio un po'.

L'immigrazione, il ritiro della valigia e il check-in presso la American Airlines vengono gestiti sorprendentemente in fretta, tanto che, dopo essermi spostato al terminal giusto col trenino, ho tutto il tempo per cominciare ad americanizzarmi con un bel quarter pounder value meal da McDonald's. Non faccio neanche in tempo a stupirmi di quanto facciano vomitare le patatine, che è già ora di salire sul terzo e ultimo aereo. In fase di decollo la stanchezza invade le mie membra, le palpebre si afflosciano e improvvisamente, come per magia, mi ritrovo in fase di atterraggio. Oltretutto l'aereo si presenta ad Austin con mezz'ora d'anticipo. Meglio di così non potrebbe andare!

Zompo sul primo taxi, peraltro gestito da un texano con la voce roca, l'accento marcatissimo e, probabilmente, un machete nelle mutande, e scopro che l'albergo (anzi, il buco con l'albergo intorno), situato ai margini del centro, è a un quarto d'ora dall'aereoporto. A mezzanotte sono in camera, pronto alla morte. Ma siccome sono stronzo, prima di svenire sul letto decido di perdere un altro po' di sonno installando la mia roba in cassetti e cassettini e attaccandomi un po' a Internet per controllare la posta e altre fesserie.

Martedì, dopo essermi ovviamente svegliato all'alba, consumo la classica colazione "prendo tutto quello che trovo nel buffet" a base di salsicce, uova strapazzate, dolci vari, the, succo d'arancia e una strana poltiglia che mi portano in un bicchierino. Gestite le presentazioni coi vari colleghi europei presenti e con le PR, ci si dirige verso gli studi Midway, un filo fuori porta, per una mattinata di piacevole lavoro. Al di là del gioco, sul quale ovviamente non mi soffermo, è sempre ottimo gironzolare per gli uffici in cui vengono partoriti i videogiochi, chiacchierare con chi ci lavora e sbirciare nei vari anfratti di questi enormi open space. Da notare che i tizi ci accolgono con una serie di pacchetti provenienti da un non meglio identificato "Taco Deli" e contenenti una serie di - credo - burrito con dentro uova, formaggio, carne e/o altro. Deliziosi.

Dopo la mattinata lavorativa e un pranzo alla messicana, giunge il tempo di tornare all'albergo. Alcuni han da lavorare, altri vanno a farsi un giro al mall, io decido di restarmene per i cazzi miei e visitare quel poco o nulla che c'è da vedere ad Austin. Prima, però, faccio mente locale "internettara" su cosa ci sia in effetti da vedere e, soprattutto, mi fermo dalla consierge, tramite la quale prenoto due cose fondamentali per la giornata di mercoledì, che sarà totalmente libera e in solitaria: una macchina a noleggio e un biglietto per la partita fra Miami Heat e San Antonio Spurs. Gestire la seconda cosa non sarà facile e richiederà l'esplorazione di qualche sito web e una lunga e incomprensibile telefonata con un'operatrice di Ticketmaster. Ma andrà tutto a buon fine.

Il giretto a piedi per la downtown di Austin è piacevole e interessante. Vicino all'albergo scorre un ramo del Colorado River, traversabile su svariati ponti e ponticelli e sulla cui riva si trovano passeggiatine immerse nel verde. Scopro leggiucchiando un volantino che nel periodo autunnale (ma solo fino a fine ottobre) il tramonto sul fiume è caratterizzato da stormi di pipistrelli che se ne escono da sotto il ponte e volano via. Purtroppo sono arrivato qualche giorno troppo tardi per godere di tale vista. Dopo una breve passeggiata arrivo nella zona del campidoglietto di Austin e trascorro un'oretta gironzolando per il parco, curiosando fra le statue (meravigliosa l'iscrizione modello "Le Termopili all'Alamo gli fanno una sega") e rilassandomi sulle panchine. Obiettivamente non è che ci sia molto altro da vedere e, in più, si sta avvicinando l'ora di andare a cena. Mi dirigo quindi verso l'albergo, cambiando strada e ciondolando per vie diverse da quelle dell'andata.

Mentre vago fra i vicoli uno scoiattolo attraversa la strada, mi passa davanti e si arrampica su una scala antincendio arrivando fino al tetto. Non lo fotografo perché non ho la macchinetta sotto mano e sono troppo ipnotizzato dai suoi caratteristici movimenti isterici. Mentre mi avvicino all'albergo noto interi stormi di uccelli che si levano non so bene da dove e vanno ad appollaiarsi sugli alberi. E cantano. Come disperati. Ininterrottamente. A migliaia. Una roba impressionante, davvero. Comunque, proseguo, passeggio un po' lungo il fiume e torno all'albergo, passando da un altro ponte.

La cena, in compagnia dei vari giornalisti europei e dei vari/varie PR, si tiene in un ristorante specializzato in granchi. "Crab qualchecosa", si chiama. E io non posso fare a meno di ridacchiare sotto i baffi pensando al Crab Man di My Name is Earl (Gamberone nell'edizione italiana). Dopo un antipasto misto a base di ostriche, gamberetti e mille altre sfiziosità marine, mi prendo del tonno ai ferri (quello bello cotto all'esterno e crudino all'interno... mamma mia che spettacolo). Ovviamente, alla richiesta del cameriere "lo vuoi accompagnato da una coda d'aragosta?" non posso che rispondere positivamente e mangiare così, credo per la prima volta in vita mia, dell'aragosta (ma in effetti mi è piaciuto di più il tonno). Notando che il piatto più economico costa venti dollari, chiudo con un'enorme fetta di cheesecake. Ah, chiaramente il tutto è innaffiato da abbondante vino.

Per il resto, trascorro la maggior parte del tempo chiacchierando con un giornalista francese di cui, come mio solito, non ricordo il nome. Al suo primo press tour "intercontinentale" (ma non è l'unico "novellino", c'è anche un belga che addirittura sta facendo uno stage per l'università presso un editore), il francese - che per inciso lavora pure lui per Future - si rivela simpaticissimo e un'ottima chiacchiera. Si parla del più, del meno, del passatopresentefuturo delle riviste, di altri press tour e del cha cha cha. Fra l'altro nel chiacchiericcio scopro di aver avuto un culo pazzesco, perché la PR inglese e un paio di giornalisti si sono visti smarrire il bagaglio nel volo interno americano (che era però gestito da una compagnia diversa dalla mia). D'altra parte, siamo nella settimana del Thanksgiving, figurati il caos di traffico...

Lo scenario "chiacchieroso" si manifesta anche una volta tornati in albergo, al baretto del piano terra, ma io vengo sopraffatto abbastanza in fretta dalla stanchezza e dal jet-lag e me ne torno in camera a collassare. Anche perché il giorno dopo si prospetta come quantomeno faticoso, se vogliamo anche per il rischio di trovare chissà che traffico: in fondo è lecito presumere che alla vigilia del Ringraziamento l'intera popolazione degli Stati Uniti sia in viaggio.

Continua...

25.11.06

I figli degli uomini


The Children of Men (USA, 2006)
di Alfonso Cuarón
con Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine, Chiwetel Ejiofor, Claire-Hope Ashitey, Pam Ferris, Peter Mullan

I figli degli uomini è un'affascinante, appassionante e difettosa parabola fantascientifica, ambientata in un mondo diventato improvvisamente sterile e che ricorda - per atmosfere e idea di partenza - lo splendido serial a fumetti Y: L'ultimo uomo. Affascinante, perché un mondo postapocalittico in cui l'intera umanità si è ritrovata sterile da un giorno all'altro e ne sta piano piano pagando le conseguenze non può che affascinare, specie se è ben studiato e rappresentato come in questo film.

Appassionante, perché Cuarón, che continua a cambiare registri e stili da un film all'altro senza mai perdere in freschezza e bravura, riesce davvero a dare un bel taglio alle sue scene madri. Lunghi piani sequenza - poco importa se "veri" o meno - dall'impatto incredibile, sia quando mostrano un agghiacciante e splendido assalto alla diligenza, sia quando ritraggono un roboante scenario di guerra urbana. E anche perché alcune immagini, come quella del'innocenza infantile, del timoroso rispetto e della riscoperta e ritrovata speranza che fermano d'improvviso - e solo per pochi istanti - il caos della battaglia, sono davvero belle, evocative, efficaci.

E difettoso, perché strutturato a singhiozzi, con accelerate virtuose di un regista che non riesce a dare un ritmo coeso al suo film, ma fa procedere la storia a strappi, trascinandosi un po' stancamente da un climax all'altro. E perché sui personaggi quasi non c'è scrittura, ma solo un tagliare con l'accetta stereotipi usati come pedine per raccontare l'odissea di Theodore e il suo tentativo di dare nuova speranza al mondo. E allora dà quasi fastidio, che un interprete sempre meraviglioso come Michael Caine sia tutto sommato sprecato nel dare incredibile vita a una puerile macchietta, utile giusto per fare da congiunzione narrativa.

Sono troppo severo con quella che, tutto sommato, rimane una bella storia di fantascienza, piuttosto originale, importante per i temi che sfiora e curata nella realizzazione? Forse, ma comincio ad essere un po' stufo, di film che sembrano avere tutte le carte in regola per piacermi tantissimo e finiscono invece per lasciarmi ampiamente insoddisfatto ed esplodere nel nulla, come e peggio di una bolla di sapone. E sa Dio se ne sto vedendo in questi mesi.

24.11.06

Il Giappone a colpo d'occhio


Japan at a Glance (Italia/Giappone, 2001)
a cura dell'International Internship Program

Il Giappone a colpo d'occhio è un testo messo assieme sfruttando, cito dall'introduzione, "l'esperienza di più di diecimila giapponesi che hanno partecipato a programmi di internship internazionale in diversi paesi." In pratica si tratta di un bigino del Giappone, che racconta l'arcipelago nipponico in maniera trasversale, spiegandone tradizioni, usi, costumi, fatti e stereotipi. Oltre duecento pagine letteralmente strabordanti di informazioni su cultura, geografia, politica e altro, a formare un "riassunto veloce" di un popolo che per un occidentale rischia davvero di risultare incomprensibile.

Pensato per affascinare il gaijin tanto quanto il lettore dagli occhi a mandorla (la maggior parte del testo è presentata in entrambe le lingue), il volume portato in Italia da Kappa Edizioni si presenta non come un noioso, pedante e interminabile elenco, ma con una veste grafica e una struttura accattivanti e dalla grande leggibilità. Semplici disegni stilizzati, piccoli schemi esplicativi, confronti fra caratteri occidentali e ideogrammi... la composizione della pagina si rivela estremamente agile e variegata, rendendo di fatto la lettura molto piacevole e intrigante. Un libro perfetto, insomma, per essere letto da cima a fondo, ma anche solo sfogliato alla ricerca di questo o quell'argomento, per rispondere a chissà quale atroce dubbio.

Il dubbio vero, però, sta nella sua reale utilità. Perché l'impressione è che finisca per essere una semplice via di mezzo, che sorvola sui vari argomenti limitandosi a sfiorarli, senza riuscire a fornirne una conoscenza approfondita. Forse, nonostante una struttura non agilissima, può essere sfruttato come guida pratica, da consultare e utilizzare alla bisogna (ma su questo aspetto potrò magari tornare fra un mese abbondante, dopo averlo provato sul campo).

Rimane comunque una piacevolissima lettura, consigliata a chiunque si interessi al Giappone e ne sia in qualche modo affascinato. Soprattutto può rappresentare un buon punto di partenza, un'infarinata generale dalla quale trarre spunti per approfondire determinati aspetti, magari con un bel viaggetto.

21.11.06

Superman - Secret Identity


Superman: Secret Identity (USA, 2004)
di Kurt Busiek e Stuart Immonen
Edizione italiana a cura di Play Press

Kurt Busiek si è rivelato al mondo con Marvels, un'opera che ha segnato, nel bene e nel male, la storia del fumetto di supereroi nella seconda metà degli anni Novanta. Oltre a un'idea fulminante - raccontare alcuni episodi fondamentali dell'universo Marvel attraverso lo sguardo di un uomo comune - Marvels aveva dalla sua un'incredibile capacità di toccare e commuovere il lettore grazie al puro e incontaminato senso di meraviglia. Merito certo delle incredibili tavole di Alex Ross, anch'esso lanciato da quella miniserie, ma anche, forse soprattutto, del talento di Busiek.

Se lo sceneggiatore bostoniano ha una singola dote, infatti, è proprio quella di saper toccare le corde più sopite di chi legge, di dare alle sue storie un tono evocativo e genuinamente emozionante, allo stesso tempo onirico e credibile, ancorato alla realtà ma fantasioso ed estroso. Busiek rende realistico l'impossibile e straordinario il quotidiano. Per quanto banale e stereotipato possa essere dirlo, fa letteralmente volare sulle ali della fantasia.

Superman: Secret Identity, è esattamente questo, una storia credibile, emozionante e ricca d'inventiva, che cala il supereroe per eccellenza in un contesto realistico e lo racconta per mezzo di bei personaggi, veri e affascinanti. Racconta di un mondo senza supereroi, del nostro mondo, per la precisione, dove la gente che vola in calzamaglia si vede solo nei fumetti e al cinema. In questo mondo vivono David e Laura Kent, una simpatica coppia dotata di senso dell'umorismo, che decide di chiamare il proprio figlio Clark.

Clarkettino paga tutte le conseguenze della cosa sotto forma di infiniti scherzi e continue prese in giro da parte dei compagni di scuola e non solo, dando vita a situazioni e atmosfere che richiamano per forza alla memoria l'Uomo Ragno dei bei tempi. Un giorno, però, Clark scopre di avere dei poteri, non proprio uguali, ma decisamente simili a quelli del personaggio a fumetti suo omonimo. Come reagisce una persona normale, in un mondo normale, a una situazione di questo tipo? Quali conseguenze porta un avvenimento del genere nella vita sua e di chi gli sta attorno?

Busiek si interroga e ci dà le sue risposte, con un racconto solido, coerente, appassionante e dalle emozioni forti, che narra le vicende del suo protagonista fino alla vecchiaia. Gioca con i paralleli fra vita e fumetto, ma non si limita a divertirsi. Racconta di persone e sentimenti, dell'amore per una donna, del senso di responsabilità, del rapporto con la propria famiglia, del crescere i propri figli. E le splendide tavole di uno Stuart Immonen incredibilmente maturato sono un perfetto complemento, che stupisce per potenza evocativa e realismo, senza rinunciare alla fluidità della narrazione.

Secret Identity è un fumetto adulto e consapevole, che sfrutta il tema dei supereroi per raccontare le difficoltà, le gioie e i dolori della vita. Se Bryan Singer, invece di mettere assieme un colossale soffocone per Richard Donner, avesse girato una storia del genere, magari proprio questa storia, ci saremmo ritrovati fra le mani un film decisamente migliore. Certo, non sarebbe stato proprio proprio Superman...

20.11.06

Texas Hold'em


Si riparte, destinazione Texas. Decollo a mezzogiorno in punto e mi sparo una vera e propria odissea volante (Milano-Londra, Londra-Chicago, Chicago-Austin). Arriverò lì nientemeno che alle 23:35, ovvero, grazie alle meraviglie del fuso orario, le vostre 06:35 di domattina. Cristoddio, diciotto ore e mezza di viaggio, e ci sarà ancora da prendere il taxi per l'albergo. Vabbuò, mi fermo fino a giovedì, quando il primo dei tre decolli è fissato, again, intorno a mezzogiorno. Se ho capito bene, mercoledì dovrebbe essere giornata totalmente libera e, ovviamente se sarà possibile farlo, mi sa che la dedicherò a una gitarella in direzione San Antonio (dove fra l'altro in serata si presentano i Miami Heat, vedi mai che si trovino i biglietti). Comunque, gestiremo. Il portatile della Rumi me lo porto dietro, ma come al solito non so dire se avrò tempo e/o voglia di postare qualcosa. In ogni caso, detto che ho uno o due post scritti in un impeto di grafomania e pronti quindi ad essere pubblicati nelle occasioni in cui mi connetterò dal Texas, male che vada ci si risentirà nel fine settimana.

19.11.06

La disgrazia raccontata per immagini


Qui potete ammirarmi mentre incasso il rigore tirato a lato da quel maledetto di Oddo. Fra l'altro, guardando l'immagine, noto che la cosa fu - ovviamente - più drammatica di come la ricordavo, dato che il laziale demmerda ha sbagliato non il quarto, ma il quinto e decisivissimo rigore. Vabbé, correggo il racconto.



Qui, invece, mi dispero perché quel pezzo di merda di De Rossi tira centrale, invece che a lato come avrei voluto, il sesto e quindi ultimo rigore.

Ringrazio il gentilissimo Kazu per avermi mandato queste e altre foto. Ci vediamo presto.

Anzi, va: arigato, Kazuhisa!

18.11.06

Dead Rising

Dead Rising (Capcom, 2006)
sviluppato da Capcom Production Studio 1 - Keiji Inafune


Resident Evil 4, quello vero. O, ancora meglio, Tutto quello che avreste voluto vedere in Resident Evil 3, ma la PS1 proprio non ce la faceva. Ebbene sì, Capcom ha finalmente tolto il palo dal culo dei suoi protagonisti e ha trovato il modo di raccontare i veri zombie, quelli che invadono le città, avanzano claudicanti e rincoglioniti, ti sommergono col numero e la loro inesorabile lentezza, ti agghiacciano con la loro ridicola e strafottente pericolosità. E l'ha fatto con un capolavoro assoluto, magari non perfetto, magari pieno di difetti, ma importante per le sue prese di posizione coraggiose, delizioso per la cura nei dettagli e l'attenzione alle piccole cose, splendido nella sua imperfezione. E il pubblico, che ogni tanto sa quello che fa, ha giustamente applaudito e premiato.

Dead Rising, pur nascondendo la cosa dietro un dito, si ispira palesemente a Dawn of the Dead e racconta di una cittadina americana assalita dagli zombie, ma soprattutto del mall (dicesi "centro commerciale") che si trova in quella cittadina e viene ovviamente anch'esso invaso dai morti viventi. Frank West, un fotoreporter d'assalto, si avventura in zona alla ricerca di uno scoop e si ritrova asserragliato nel mall assieme a una cinquantina abbondante di sopravvissuti al casotto iniziale. Da qui si dipana una storia che affonda a piene mani in tutti gli stereotipi possibili e immaginabili legati al "genere" dei film di zombie e non solo. La sceneggiatura pulsa di idee e regala momenti di grande impatto, sia esso comico, drammatico, avventuroso. E una tale varietà tematica si riflette anche nell'incredibilmente sfaccettata struttura di gioco.

Dead Rising può essere affrontato come meglio si crede, e qualunque sia la via scelta si giungerà sempre e comunque a una fine. Vuoi cazzeggiare in giro per il mall massacrando zombie, esplorando la miriade di possibilità infilate dietro ogni angolo e, perché no, abusando dei sopravvissuti che trovi in giro? Accomodati. Vuoi provare a salvare più persone possibile? Buona fortuna. Vuoi portare avanti l'indagine e seguire la trama fino alla sua naturale e "giusta" conclusione? Preparati a un bel film horror-trash. Vuoi fare tutte queste cose assieme, magari alla prima partita? Non hai davvero capito un cazzo.

Un bel gioco dura poco, ma se è bello per davvero, ci rigiochi una, due, dieci, cento, mille volte. Ecco, magari Dead Rising mille volte no, ma se è il primo titolo dai tempi di Ocarina of Time capace di spingermi alla ricerca di ogni minima fesseria, di farsi giocare e rigiocare dall'inizio alla fine più volte di seguito, beh, qualcosa di speciale dovrà pur averlo. E il bello è che ogni "giro" è diverso dagli altri, non solo per i tanti modi in cui è possibile affrontare l'odissea di Frank, ma anche per la natura evolutiva del gioco. Già, perché il protagonista cresce nel tempo, guadagna capacità, armi e abilità, aprendo piano piano nuove vie per affrontare l'avventura in maniera totalmente diversa.

Il Frank con cui si inizia una nuova partita non sarà mai lo stesso della prima volta, perché conserverà la crescita compiuta al precedente "giro" e permetterà di vivere le vicende secondo una differente prospettiva. E a questo si aggiunge, ovviamente, la maggiore padronanza dell'ambiente di gioco da parte di chi Frank lo controlla con un pad e che può sfruttare la conoscenza di ogni singolo anfratto e ogni minimo pertugio. E così ci si ritrova a giocare e rigiocare Dead Rising, nella speranza - tutt'altro che vana - di scoprire ogni volta una nuova esperienza, un nuovo gustoso e piccolo dettaglio inserito dagli sviluppatori. Per non parlare poi della sfida agli Obiettivi, davvero piacevoli, intriganti e gustosi da affrontare e conquistare, come di rado si vede nelle varie produzioni per Xbox 360.

Se critiche possono essere fatte a Dead Rising, vanno indirizzate prevalentemente a un'intelligenza artificiale talvolta deficitaria per quanto riguarda gli esseri umani, siano essi vittime da salvare o psicopatici da eliminare. Difficile trattenere le imprecazioni di fronte a certi, impagabili inceppi, ma è pur vero che si tratta di problemi (tali e innegabili) su cui diventa facile sorvolare con un minimo di esperienza alle spalle. Più fastidiosa la scelta di non concedere un sistema di salvataggio per l'Infinite Mode.

La modalità segreta, del tutto priva di qualsiasi trama, che chiede al giocatore, semplicemente, di sopravvivere per più giorni possibile, recuperando cibo e sfuggendo agli assalti di zombie ed esseri umani, non prevede infatti la possibilità di interrompere la partita. Diventa così, in sostanza, un'elitaria sezione a uso e consumo dei "power user" con parecchio tempo da buttare. Ed è un peccato, perché a non affrontarla ci si perde quasi un altro gioco nel gioco, piacevole, appassionante e per certi versi unico reale interprete della "mitologia zombesca". E sì che sarebbe bastato introdurre un sistema di salvataggio che non permettesse di caricare più di una volta la stessa "posizione", per mantenerne l'attuale struttura senza eccedere con l'intransigenza.

Peccato, e peccato anche che certa gente, obnubilata da sistemi di gioco sempre più permissivi e accondiscendenti, abbia criticato un sistema di salvataggio che nella modalità principale solo così poteva esistere. Un meccanismo che funziona alla perfezione, che richiede solo un minimo di attenzione e prudenza e mantiene una necessaria e dovuta coerenza col sistema di gioco, cui qualsiasi altro metodo di salvataggio avrebbe tolto potenza, efficacia e violenza narrativa.




Dead Rising , oltre a tutto quanto detto fino a qui, è un gioco estremamente importante, perché fa qualcosa che Grand Theft Auto e i suoi cinquemila cloni non hanno il coraggio di fare. Qualcosa che, paradossalmente, venne tentato nei primi due GTA e poi abbandonato nei successivi, probabilmente in nome di una maggiore accessibilità. Qualcosa che ha il coraggio di proseguire il cammino e alzare il tiro nella ricerca della libertà di gioco, della coerenza interna di un mondo virtuale che prova a simulare le meccaniche di quello reale. Qualcosa che è difficile da ottenere, ma che è giusto cercare. Dead Rising offre ciò che manca a tutti questi mondi di plastica forzati e insopportabili che infestano i videogiochi. Offre l'unica vera libertà, la libertà di sbagliare. E di pagarne le conseguenze.

Frank ha un appuntamento con un elicottero, che dopo tre giorni tornerà a salvarlo. Il tempo scorre, inesorabilmente, indipendentemente dalle azioni di Frank. A lui, quindi al giocatore, sta la responsabilità di decidere cosa fare di quei tre giorni. Se vuole, può trascorrerli anche tutti sul tetto ad aspettare l'elicottero, perché no? Chi glie lo impedisce? Nessuno. Oppure può immergersi nelle meraviglie offerte da Willamette. Ma se prova ad affrontare una missione e fallisce, non c'è nessun deus ex machina che glie la ripropone, riavviata con una specie di rewind mistico, obbligandolo a riprovarci. Hai causato la morte di qualcuno? Fattene una ragione. Hai mandato a puttane l'indagine sulle cause dell'epidemia, bloccando l'evolversi della trama? Poco male, l'importante è sopravvivere.

Oppure, se vuoi, puoi "uscire" dal mondo virtuale, tornare in quello reale, caricare il salvataggio e riprovarci. Nessuno te lo impedisce, nessuno ti obbliga a farlo. Questa è la vera libertà, il resto sono cazzate. Certo, non è facile offrirla. Puoi farlo rinunciando a una sceneggiatura appassionante, come appunto accadeva nei primi due GTA. Ma non è il caso di Dead Rising. Puoi farlo rinunciando alla vastità degli ambienti, e questo in parte Dead Rising lo fa. Ma siamo seri, quanti sono i cloni di GTA in grado di offrire entrambe le cose? Anzi, ce ne sono in grado di offrire anche solo una delle due?

E allora ringraziamo il cielo per Dead Rising, che mostra come sia possibile inserirsi in questo filone dando vita a un'opera innovativa e dotata di una forte identità personale. Ma il primo vero grande titolo per Xbox 360 stupisce per maturità e complessità anche sotto altri punti di vista. Per esempio la raffinatezza di una sceneggiatura consapevole e curata come raramente si è visto. Difficile ricordare un "action adventure" dai dialoghi così riusciti, credibili e ben scritti. Ed è se vogliamo paradossale, che uno script tanto ironico, satireggiante, a tratti perfino demenziale, vanti a conti fatti dialoghi più "umani" rispetto a opere ricercate e profonde come - esempio banale - i vari Metal Gear Solid.

E non solo. Di Dead Rising colpisce anche un motore grafico che non ha l'impatto barocco, ipertrofico e stravolgente di un Gears of War, ma che riesce a stupire con le piccole cose, i dettagli e la cura amorevole per gli stessi. I personaggi recitano i loro dialoghi con il proprio corpo, gesticolano in maniera armoniosa e caratterizzante, sviluppano una loro identità grazie alla gestualità e risultano vivi come raramente si è visto e come probabilmente era impossibile vedere sulle macchine del passato. Penso a Frank che agita la fotocamera davanti al naso di Brad e fatico a ricordare qualcosa di simile. Per assurdo che possa sembrare, mi viene in mente solo Gabriel Knight che, mentre aspetta Malia in salotto, si alza, passeggia, ciondola le mani e scorre i titoli dei libri. Son passati tredici anni, ma non cambia nulla, ci vogliono idee e attributi, altrimenti tutto il resto non serve a niente.

16.11.06

Infernal Affairs - La trilogia


Infernal Affairs
Mou gaan dou (Hong Kong, 2002)
di Andrew Lau e Alan Mak
con Andy Lau, Tony Leung, Anthony Wong, Eric Tsang, Kelly Chen, Sammi Cheng, Chapman To

Il primo Infernal Affairs nasce, a quanto leggo, come una specie di mega progetto "all stars", cui partecipano alcuni fra i più famosi attori di Hong Kong. E in effetti guardandolo ho riconosciuto parecchie facce, fra l'altro una più bella dell'altra. Andy Lau, Tony Leung, Anthony Wong, Eric Tsang, meravigliosi volti che rappresentano un po' tutti gli stereotipi possibili della "cinesitudine" e si infilano alla grande in questo splendido poliziesco, cupo, teso, emozionante e disperato. Inoltre, per il piacere di chi guardava il film assieme a me, almeno un paio sono anche dei gran bei manzi.

Infernal Affairs, grazie a Scorsese ormai lo sanno anche i sassi, racconta di due uomini che da anni vivono la vita dell'infiltrato, uno nella mafia di Hong Kong, l'altro nella polizia. Il primo, Yan, spedito a mimetizzarsi fra mafiosi e teppisti dall'adorabile sovrintendente Wong, vive il dramma di ritrovarsi sempre più trascinato in un delirio di violenza e crudeltà, non proprio lo scenario che si immaginava al momento di entrare in accademia. Il secondo, Lau, mafiosetto spedito dal gangster Sam a far la talpa nel distretto di polizia, sta pian piano sviluppando il desiderio di ripulirsi la coscienza e rifarsi una vita abbracciando fino in fondo la carriera di tutore dell'ordine.

Ovviamente le loro strade si incrociano, nella maniera più devastante e drammatica che sia possibile immaginare. Dopo una serie di piccoli ed evocativi prologhi incrociati, il film esplode letteralmente su una sequenza strepitosa, che vede la polizia impegnata nel tentativo di bloccare un'operazione di narcotraffico. Mentre Yan, presente sul luogo della transazione, comunica alla polizia gli estremi dell'operazione tramite codice morse, Lau, che fa parte della squadra impegnata sul caso, sabota i suoi compagni poliziotti inviando di nascosto messaggi al cellulare del capomafia Sam. Un incrocio convulso e coinvolgente, orchestrato in maniera meravigliosa e che fa subito salire la tensione alle stelle.

Da qui il film procede sui classici binari ipermelodrammatici di un certo cinema di genere orientale, senza però uscire praticamente mai dal seminato, senza raggiungere quegli eccessi stilistici e iper-moralistici che caratterizzano molti suoi "colleghi". Anzi, al contrario, Infernal Affairs si rivela estramente misurato in tutte le sue componenti, capace di cambiare registro e alternare dramma, umorismo, thrilling, romance in maniera assolutamente fluida, senza allentare la tensione neanche per un attimo.

La sceneggiatura stupisce con stravolgimenti improvvisi e appassiona per la maestria con cui costruisce la tensione, lavorando soprattutto su personaggi caratterizzati benissimo (a parte forse la psicologa, un po' tirata via) e graziati da interpreti a dir poco favolosi. La regia, pur affascinante ed evocativa, rinuncia a quei virtuosismi per i quali il cinema di Hong Kong, perlomeno quello più sdoganato in Occidente, è diventato famoso e anzi si limita a un crudo e freddo realismo. Insomma, tutto funziona a meraviglia e stupisce per come un'idea tutto sommato semplice semplice riesca a risultare tanto efficace.

Quel confronto finale sul tetto, poi, freddo, asciutto, quasi minimalista, ma allo stesso tempo dalla stordente potenza evocativa, chiude tutto come meglio non si potrebbe. Tira meravigliosamente le fila di una storia drammatica, amara, triste e a modo suo ironica, che lascia in bocca un gusto amarognolo difficile da lavare via. Infernal Affairs magari non sarà un capolavoro, ma è cinema davvero potente.



Infernal Affairs II
Mou gaan dou II (Hong Kong/Cina, 2003)
di Andrew Lau e Alan Mak
con Edison Chen, Shawn Yue, Anthony Wong, Eric Tsang, Francis Ng, Carina Lau, Chapman To

Nel dare un seguito al clamoroso successo del primo film, Lau e Mak scelgono di girare due pellicole che si integrino con la precedente, creando un unico grande affresco narrativo, capace di raccontare l'inferno infinito vissuto dai suoi personaggi. Infernal Affairs II racconta un lungo antefatto agli eventi del primo film, mette in scena la gioventù di Yan e Lau, la vecchia amicizia fra Wong e Sam e tutta una serie di avvenimenti che porteranno poi ai fatti già noti e getteranno nuova luce sui vari protagonisti.

Si tratta di un film molto diverso, che abbandona quasi del tutto i toni tesi ed esasperati del precedente e racconta un lancinante melodramma, fatto di amicizie destinate alla distruzione, di amori impossibili e desideri inconfessabili, di persone alla ricerca di una redenzione e una purificazione che non potranno mai ottenere. Ma soprattutto è un film letteralmente strabordante di informazioni, avvenimenti, dettagli, tanto che i primi minuti, vuoi anche per certe "distanze" culturali, sono un po' complessi da seguire.

D'altra parte Lau e Mak non solo raccontano una storia complicata, ma la sfruttano per ampliare gli orizzonti del primo film, donando ai vari personaggi tratti inattesi, regalando loro un passato complesso e drammatico, che permette di osservare sotto una luce diversa e ancor più affascinante le relazioni che li legano. I veri protagonisti, comunque, non sono le talpe Yan e Lau, le cui figure escono comunque approfondite e dotate di tratti e caratteristiche insospettabili, ma un fantastico tris di attori, due dei quali "ereditati".

Anthony Wong, Eric Tsang e il "nuovo" Francis Ng regalano delle prove incredibili, dominano la scena con la loro sola presenza e interpretano in maniera eccellente e credibile personaggi cui, obiettivamente, sarebbe bastato davvero poco per scivolare nel ridicolo. Il ruolo interpretato da Francis Ng, fra l'altro, richiama inevitabilmente alla memoria il Michael Corleone de Il padrino, amato e rispettato da collaboratori e familiari, oltre che intenzionato a ripulirsi dalle sue attività criminali. E il parallelo con l'opera di Coppola, realmente limpido - e immagino voluto - anche nella messa in scena di certe sequenze e, a tratti, perfino nelle musiche, non appesantisce particolarmente un film che sì omaggia, ma riesce anche a mantenere una sua forte e precisa identità.

Seguito atipico sia per la collocazione temporale, sia per la sua natura quasi sprezzantemente distante dall'originale, Infernal Affairs II rende francamente complesso e superfluo un confronto fra i due. Articolato, stratificato, fatica un po' a ingranare e trovare un suo ritmo e dà il suo meglio nella seconda parte, quando tira piano piano le fila di tutti i discorsi e illustra memorabili confronti fra i suoi protagonisti. Splendidamente realizzato e interessantissimo tassello di una saga affascinante, perde la violenta irruenza del primo episodio e non raggiunge forse quei livelli di sintesi, ma rimane un gran film.




Infernal Affairs III
Mou gaan dou III
(Hong Kong/Cina, 2003)
di Andrew Lau e Alan Mak

con Andy Lau, Tony Leung, Leon Lai, Kelly Chen, Daoming Chen, Eric Tsang, Anthony Wong, Chapman To

Col terzo episodio della saga Lau e Mak rimescolano ancora le carte e, pur mantenendosi ovviamente sui binari del poliziesco, tirano fuori un intenso dramma psicologico, abilmente giocato sulle storie parallele, speculari e distaccate nel tempo di Yan e Lau. Del primo racconta la "simulata" carriera criminale, la drammatica discesa verso una separazione d'identità quasi schizofrenica, l'inevitabile avvicinarsi di un terrificante destino. Del secondo mette in scena l'agonizzante senso di colpa, la disperata voglia di redenzione e riscatto, l'isterica lotta nel tentativo di fuggire dalla propria coscienza.

Per fare questo i due registi sfruttano una scansione temporale spezzettata, muovendosi continuamente prima e dopo gli eventi narrati in Infernal Affairs, costruendovi attorno un nuovo affascinante intreccio poliziesco e dipingendo un melodramma dai toni questa volta davvero lacinanti. Approfondirne gli sviluppi sarebbe necessario per descriverne le qualità, ma criminale nei confronti di chi legge e non l'ha ancora visto. Basti sapere che ne esce un film notevolissimo, tutto giocato sul dramma umano dei suoi personaggi, ancora una volta tratteggiati e caratterizzati come meglio non si potrebbe, oltre che interpretati da attori di livello assoluto.

Il continuo utilizzo dei flashback è spettacolare e azzeccatissimo, i salti temporali funzionano a meraviglia e tracciano alla perfezione il parallelo fra i personaggi, impreziosendo entrambe le storie raccontante e giungendo a un culmine dalle emozioni fortissime. E, ancora una volta, quell'immagine finale così amara, dolce e malinconica, lascia addosso un fastidioso senso di malessere.

14.11.06

Due scemenze veloci veloci


La prima, fondamentale: mi scuso con chi segue il blog sfruttando il feed atom. Lo scarico pure io e ho notato che sta reinviando quasi tutti i post che correggo per adattarli al nuovo formato. Non so come evitarlo, finirà relativamente in fretta.

La seconda, secondaria (ehm): prometto che nei prossimi giorni riprenderò a postare con frequenza. Ho ricominciato a trovare argomenti, voglia e tempo per scrivere, presto torneremo a regime. Spero. (E cacaci il cazzo)

Ah, bevete tanto latte, che fa bene alle ossa.

13.11.06

Buon non compleanno!


Il compleanno di questo blog cade il 16 dicembre, ma io lo festeggio adesso con un bel restyling. Nulla di clamoroso, per carità, a conti fatti da un punto di vista estetico ho solo cambiato il colore del template, ma ci sono tante piccole differenze, sostanzialmente derivanti dal fatto di essere finalmente passato a Blogger Beta. Ci ho messo un po', perché la parola "beta" mi intimoriva, ma alla fine ho deciso di fare il grande salto. Non è stato facile, perché le tante modifiche che avevo fatto alla struttura del blog ho dovuto infilarle in qualche modo nella nuova interfaccia, ma alla fine ce l'ho fatta.

La novità principale è il sistema di categorie per i post. Finalmente blogger ce le ha e funzionano decentemente, anche se per fargli gestire una mole di post come quella del mio blog ho dovuto abbandonare l'interfaccia classica e spostarmi completamente sul nuovo blogger, con tutti i problemi del caso per adattare le varie "hackerate" al codice html. Abbandono quindi del.icio.us e non aggiornerò più quell'elenco (anzi, se trovo il modo di farlo lo elimino proprio). Un consiglio, comunque: se volete cercare un post o un argomento in particolare appartenente a categorie "abbondanti" tipo Recensioni o Cinema, usate il motore di ricerca che sta qua sopra. Lì nell'angolino a sinistra, dove c'è scritto "Cerca nel blog". Funziona e si fa decisamente prima, ve l'assicuro.

Già che c'ero - ma se siete arrivati a leggere fino a qui probabilmente ve ne sarete accorti - ho cambiato il sistema di gestione dei post "ridotti" in homepage. Adesso, cliccando su "Leggi tutto l'articolo" non si apre una pagina a parte, ma si "allarga" il post, visualizzandolo per intero. E appare pure il link "Visualizza solo l'introduzione". Figo, no? Comunque, se per qualche motivo volete lo stesso il link al post, basta cliccare sull'orario di pubblicazione o sul titolo del post.

Le altre modifiche non sono visibili per i lettori del blog, ma sono ottime per me che lo pubblico. La nuova interfaccia è estremamente comoda e pratica sotto parecchi punti di vista e nel complesso mi sento di dire a chiunque sia ancora indeciso che il gioco vale la candela. Anche se indubbiamente, nel caso di blog grossi e con parecchi interventi sull'html come il mio, il transito è tutt'altro che veloce e semplice. E infatti non è ancora completo: la maggior parte dei post vecchi devono ancora essere corretti per quanto riguarda la "riduzione" del testo e contengono i riferimenti a entrambe le divisioni per categorie. Ma non c'è fretta.

10.11.06

WipEout Pure

WipEout Pure (SCE, 2005)
sviluppato da Sony Studio Liverpool


Sono probabilmente la milionesima persona che scrive queste parole, ma vabbé, meglio tardi che mai: Pure è il primo WipEout degno di nota nell'arco di quasi un decennio. Svanito lo splendore di WipEout 2097, ho dovuto vedermi passare davanti agli occhi l'inutilità di due seguiti sbiaditi e di una lunga serie di epigoni, prima che arrivasse un nuovo episodio della serie in grado di destare il mio interesse.

Interesse che, inutile negarlo, nasce in primis dalla meraviglia di tecnica, programmazione, ricerca stilistica e arte visiva incarnata da questo gioiellino, capace di mostrare fin dal lancio della console le notevoli doti di PSP. Spettacolare, velocissimo ricco e fantasioso nel design dei circuiti, avvolgente come e più di sempre nell'accompagnamento musicale... prima che un signor gioco, Pure è anche (soprattutto?) uno spettacolo per gli occhi e per le orecchie.

Ma il bello è che dietro c'è anche una perla di divertimento, appassionante, coinvolgente, impegnativo ed esigente come solo i primi due episodi della serie avevano saputo essere. WipEout, quello vero, che ti rapisce e non ti molla più, ti uccide di rabbia per quanto sa essere frustrante, ma ti concede sempre quel piccolo margine di miglioramento e si rivela infallibile nel lasciarti addosso la voglia di provarci un'altra volta.

Pure ritrova alla grande il quid di cui mi ero innamorato nell'anno del signore 2097 e lo impreziosisce con alcune piccole, ma deliziose trovate. Su tutte svettano il delirante Zone Mode e la geniale scelta di eliminare i pit-stop in corsa, costringendo a scegliere di volta in volta fra l'utilizzo di un'arma e la conversione della stessa in preziosa energia per gli scudi. La montagna di circuiti e competizioni, per di più incrementata dal materiabile reso disponibile nel tempo per il download, chiude il discorso e sancisce il capolavoro.

9.11.06

Sono vivo!


Siccome, incredibile ma vero, ho ricevuto lamentele per lo stato comatoso del blog, tranquillizzo tutti: torno presto. Il periodo è un po' così, da una parte sono indaffaratissimo (chiusura del numero di PSM, trasferta a Lucca Comics & Games, radunino di it.fan.studio-vit, gestione delle mie prime vacanze invernali in almeno un decennio e altre sciccherie), dall'altra sono stato preso da robe abbastanza esigenti in termini di tempo (su tutte Xbox Live con le sue malefiche conseguenze e Dead Rising), dall'altra ancora ho ricevuto pochi stimoli su argomenti di cui chiacchierare.

Ma gli stimoli e il tempo stanno lentamente riemergendo, quindi a breve, magari domani stesso, potrei ricominciare a tediare il mondo coi miei scritti. Saludos.

 
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