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29.6.07

E due

27.6.07

Hostel

Hostel (USA, 2005)
di Eli Roth
con Jay Hernandez, Derek Richardson, Eythor Gudjohnsson


Paxton e Josh sono due studenti di college californiani in vacanza in giro per l'Europa. Uno è il classico bravo ragazzo, l'altro è l'amico smaliziato e sgamato con le donne. Li accompagna Oli, un islandese tamarro, buffonissimo e alla costante ricerca di patata. Uniti per vincere, i nostri eroi vagano fra un paese e l'altro, mettendo in scena una sorta di versione leggermente tirata a lucido, un filo più credibile e meglio scritta, dei vari Eurotrip, Road Trip e Sarcazzo Trip che hanno infestato i cinema qualche anno fa. Mentre si trovano ad Amsterdam, i tre pirla incontrano un ragazzo che li convince a cambiare la loro ultima meta: niente più Barcellona, via verso Bratislava, alla ricerca di belle donne e sesso facile. Troveranno entrambe le cose, ma non solo...

Sincero omaggio all'horror italico che fu, insaporito con una spruzzata di citazioni dal Sol Levante, Hostel è un divertente carrozzone, che prova a stordire lo spettatore con un artificio narrativo non del tutto dissimile da quello di Audition (e di chissà quanti altri film che non ho visto o non mi vengono in mente). Dopo una prima parte di totale relax, divertimento e ammosciamento delle antenne, scatta il delirio di crudeltà insensata e strabordante, che a dirla tutta risulta molto meno insistita di quanto il battage pubblicitario potrebbe far pensare, ma colpisce abbastanza nel segno.

Roth punta al grezzo e al basso, con una regia da tordo e uno sviluppo della trama da minimo sindacale. Non si nega una bella dose di autoironia e in generale viaggia continuamente in bilico fra l'incapacità registica e il citazionismo voluto, fra il ridicolo involontario e l'autoperculamento intelligente. Inutile chiedersi da che parte stia la verità, meglio piuttosto godersi un horror esile e robusto, violento e all'acqua di rose, divertente ma, a causa soprattutto di una scrittura dei personaggi poco profonda, dal limitato coinvolgimento emotivo. Si può comunque dare di più.

26.6.07

Battlestar Galactica - La miniserie

Battlestar Galactica - The Miniseries (USA, 2003)
creato da Ronald D. Moore
con Edward James Olmos, Mary McDonnell, Katee Sackhoff, Jamie Bamber, James Callis, Tricia Helfer


Pur senza essere mai riuscito a seguirlo per davvero, da bambino adoravo Battlestar Galactica. Mi sembrava - e in effetti probabilmente sotto molti punti di vista lo era - la versione televisiva di Guerre Stellari. C'era il film, che "Chissà quand'è che l'han dato al cinema?", e c'era la serie TV, di chissà quante puntate, e della quale, a star larghi, ne avrò viste tre o quattro in vita mia. Però c'era Sberla dell'A-Team, e poi, caspita, me la ricordo ancora, c'era quella puntata spettacolare in cui il pilota figaccione (sarà stato proprio Sberla? E chi se lo ricorda?) rimaneva da solo, sul suo caccia interstellare, senza carburante, senza motore per l'iperspazio, senza un cazzo, insomma. Era lì in attesa, abbandonato a se stesso, e rischiava pure di finire l'ossigeno. Però a fine puntata lo trovavano e lo salvavano. O qualcosa del genere, insomma.

Ecco, il nuovo Battlestar Galactica, con tutto questo, non c'entra praticamente nulla, al punto che pare il creatore della serie originale l'abbia più o meno disconosciuto. Certo, l'idea di fondo (un'umanità ridotta ai minimi termini, costretta alla fuga a bordo della Galactica e alla ricerca di una nuova, mitologica, patria chiamata Terra) rimane la stessa, i nomi di alcuni personaggi pure, e ci sono perfino delle belle citazioni sparse qua e la. Però i cattivi di turno non sono più i tremendi alieni Cylon, ma i tremendi robot Cylon, creati dall'umanità e ad essa ribellatisi. E l'atmosfera non è più quella di una space opera solare, quanto piuttosto di un cupo serial militaroide. Che del resto è pure normale, se consideriamo che il grosso dell'azione è ambientato a bordo di una nave da guerra, coinvolta in un conflitto su scala interplanetaria, nell'avvio del quale l'umanità è stata ridotta ai minimi termini.

Partorito dalla fervida mente di Ronald D.Moore (autore di alcuni fra gli episodi più memorabili dello Star Trek anni Novanta), Battlestar Galactica si fonda innanzitutto su una caratterizzazione eccellente di protagonisti forse un po' stereotipati, ma sicuramente efficaci. Come in ogni buon telefilm moderno, il motore primo della vicenda è dato dai personaggi e dalle relazioni fra di loro. Poi vengono le intuizioni geniali (la natura stessa dei Cylon "nuovo modello" offre non pochi spunti narrativi) e una realizzazione tecnica di grande impatto. Le scala delle battaglie e la maestria con cui sono realizzate lasciano di stucco, vista la natura televisiva del racconto.

La miniserie, che fa da prologo alla serie vera e propria, è davvero un gioiello che, se visto tutto d'un fiato, travolge e lascia a bocca aperta per tutte e tre le sue ore di durata. Un crescendo di eventi tragico, emozionante, appassionante, capace di buttare al fuoco una quantità pazzesca di carne, ma anche di essere allo stesso tempo un ottimo racconto autoconclusivo. Televisione di gran livello, ben più cinematografica di tanta immondizia che passa sul grande schermo. E adesso vediamo come va avanti...

25.6.07

Su gentile richiesta, pubblico

Cinisello Balsamo, 22 giugno 2007

COMUNICATO SINDACALE

L’assemblea dei lavoratori dell’area informatica di VNU BPI (di proprietà del fondo di private equity 3i), riunita ieri, ha discusso dei problemi riguardanti la cessione dell’area stessa come ramo d’azienda alla società Hera Edizioni.

Secondo le dichiarazioni di Richard Halpenny (a.d.) e Marco Levi (direttore finanziario), la cessione ad Hera Edizioni si configurerebbe come una buona soluzione per le testate (PC Magazine, Computer Idea, Foto Idea e Linux) e i lavoratori (10 giornalisti e 9 grafici editoriali).

In base alle informazioni raccolte l’assemblea dei lavoratori ritiene, invece, che l’acquirente non abbia i requisiti sufficienti a garantire un assetto aziendale attendibile per assicurare un futuro lavorativo e professionale ai colleghi interessati dalla cessione del presunto ramo d’azienda.

L’assemblea dei lavoratori all’unanimità si dichiara contraria alla vendita del ramo d’azienda così come configurato; pertanto stabilisce, oltre allo sciopero di 4 ore già effettuato nella giornata di ieri, di mantenere lo stato di agitazione e di mettere in campo tutte le iniziative, sindacali e legali, per opporsi a questa operazione.

Cdr e Rsu

Cannes 2007

Edizione in formato estremamente ridotto per gli Addams, complici il fatto che potevamo frequentare solo gli spettacoli serali, l'improvvida scelta di andare all'Heineken Jammin' Festival e lo scazzo che mi ha portato a pisciare gli spettacoli pomeridiani anche di domenica. Comunque, questi sono gli otto film che ho visto:

Concorso
4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (4 luni, 3 saptamani si 2 zile) (Romania)
di Cristian Mungiu
con Laura Vasiliu, Anamaria Marinca, Vlad Ivanov, Alexandru Potoceanu
Palma d'oro

4 mesi, 3 settimane e 2 giorni è il primo episodio del progetto Ricordi dell'età dell'oro, che mira a raccontare il comunismo in Romania tramite le (più o meno) leggende urbane e le persone comuni che le vivevano da protagonisti. In questo caso si parla di aborto clandestino, e lo si fa con un taglio estremamente verace, terra terra, tutto puntato alla visione in prima persona della protagonista (la compagna di stanza di una ragazza che si sottopone ad aborto). Mungiu segue il personaggio "selezionato" e ci racconta una storia cruda, crudele, angosciante, dal suo solo punto di vista. Lo spettatore si trova così a seguirla nella sua triste e insopportabile giornata, vivendo con lei l'angoscia di non sapere cosa succede alla sua amica. Il film è ben raccontato, soprattutto grazie a dialoghi molto credibili nella loro sciatta banalità, ma - esattamente come il cinema dei Dardenne a cui molti l'han paragonato - non è proprio il mio genere. Detto questo, vado forse un po' controcorrente, ma dico che preferisco di gran lunga questo a L'enfant (Palma d'oro a Cannes 2005).

Un Certain Régard
Il viaggio del palloncino rosso (Le voyage du ballon rouge) (Francia/Taiwan)
di Hou Hsiao Haien
con Juliette Binoche, Simon Iteanu, Fang Song

Ok, lo ammetto, ho capito come buttava nel giro di dieci minuti, ho appoggiato la testa sulla spalla della Rumi e mi sono addormentato. Quando ho riaperto gli occhi era passata quasi un'ora, eppure nel film doveva ancora succedere qualcosa. Non ci posso fare niente, a me non interessa guardare due ore di gente che si fa i cazzi suoi, in casa, senza che accada non dico qualcosa di interessante, ma anche solo qualcosa. E Juliette Binoche non sta invecchiando bene. Eppure 'sto film su imdb ha già una media bella alta (certo, su nemmeno venti votanti). Bah...

Quinzaine des Réalisateurs
Smiley Face (USA)
di Gregg Araki
con Anna Faris, Danny Masterson, Adam Brody

Tre anni dopo lo splendido Mysterious Skin, Gregg Araki torna alla ribalta con un filmetto divertente, una scemenzuola che racconta la giornata di una ragazza fatta, strafatta e fattissima e le mille disavventure che le possono capitare se, per sbaglio, finisce per essere mostruosamente più fatta del solito. La mano di Araki c'è, nell'uso dei colori, nella capacità di mettere assieme immagini evocative anche mentre racconta una fesseria del genere, ma il film è davvero poco più che un divertissement. Esilarante per una buona mezzora, alla lunga mostra un po' la corda, anche se fino all'ultimo secondo riesce a tirare fuori qualche trovata davvero gustosa. E, mi dicono, sotto certi aspetti è davvero realistico.

Concorso
Lo scafandro e il papillon (Le scaphandre et le papillon) (Francia/USA)
di Julian Schnabel
con Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner
Premio per la miglior regia

Sette anni dopo l'interessante Prima che sia notte (Venezia 2000), Schnabel ritorna con una bella prova di regia, davvero giustamente premiata. Lo scafandro e il papillon racconta della malattia di Jean-Dominique Bauby, editor di successo della rivista francese Elle, che a quarantacinque anni subisce gli effetti di un improvviso e devastante attacco, capace di punirlo con una paralisi quasi totale. Da quel giorno in poi, Bauby potrà muovere solo l'occhio sinistro, che imparerà a usare per comunicare col mondo e, addirittura, scrivere un libro che racconti la sua esperienza (e da cui è tratto il film). Schnabel racconta una discreta fetta di storia in prima persona, mostrandoci gli eventi tramite lo sguardo del protagonista, con un risultato straniante, certo imperfetto per i limiti del mezzo, ma incredibilmente efficace. E anche nel momento in cui decide di abbandonare l'esercizio di stile, confeziona un film notevole per asciuttezza, coinvolgimento, capacità di colpire dritto al bersaglio senza scivolare nel patetismo.

Concorso
We Own the Night (USA)
di James Gray
con Joaquin Phoenix, Mark Wahlberg, Eva Mendes, Robert Duvall

James Gray "nasce" registicamente nel 1994 con Little Odessa, un film sulla mafia russa che non ho mai visto, ma che ricordo molto celebrato. Passano sei anni e dirige The Yards, con Mark Wahlberg e Joaquin Phoenix, anche quello mai visto dal sottoscritto. Passano altri sei anni (facciamo sette) e dirige un film sulla mafia russa con Mark Wahlberg e Joaquin Phoenix. Un regista versatile, attivissimo e pieno di idee, insomma. Comunque, We Own the Night sembra un film scritto dal fratello scemo di Martin Scorsese (un po' come gli ultimi di Martin Scorsese) e diretto dal cugino stordito di Martin Scorsese (e questo, via, non si può proprio dire neanche degli ultimi, di Martin Scorsese). Un'epica (ma dove?), commovente (ma quando?), emozionante (certo, come no) e avvincente (ma per favore) storia di mafia, polizia, infiltrati, tradimenti, controtradimenti, amori, droga, amicizie, famiglia. Una regia a tratti imbarazzante e a tratti, per esempio con l'inseguimento in macchina, inspiegabilmente splendida. E nient'altro, al di là di Joaquin Phoenix che infila la mano nelle mutande di Eva Mendes.

Concorso
Persépolis (Francia)
di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud
con le voci di Chiara Mastroianni, Catherine Deneuve, Danielle Darrieux, Simon Abkarian
Premio della giuria

Tratto dallo splendido e omonimo fumetto, Persépolis racconta in prima persona la vita dell'autrice Marjane Satrapi, divisa fra Francia e Iran, desideri e speranze da adolescente qualunque e difficile realtà della vita in un paese in guerra, affetto per la propria famiglia e ricerca dell'amore. Un racconto delizioso, ironico, graffiante, molto fantasioso e allo stesso tempo tremendamente ancorato alla realtà. L'edizione animata è fedelissima al fumetto per tratto, atmosfere e spirito, pur concedendo ovviamente qualcosa sul piano narrativo nel passaggio dalle centinaia di pagine alla novantina di minuti.

Un Certain Régard
Mio fratello è figlio unico (Italia)
di Daniele Luchetti
con Elio Germano, Riccardo Scamarcio, Diane Fleri

Di Luchetti in passato ho visto solo La scuola e, dopo una dozzina d'anni, devo dire che ne conservo ancora un buon ricordo. Così come penso conserverò un buon ricordo di questo ennesimo racconto di formazione, che esplora la vita di un ragazzo tirato dentro il caos ideologico, politico, sociale degli anni sessanta e settanta. Il rapporto col fratello attivista di sinistra e con la famiglia tutta, la scoperta dell'amore, l'indecisione ideologica e tutti i soliti argomenti trattati da questo genere di film. Nulla di nuovo e, soprattutto, nulla di particolarmente coraggioso, senza particolari idee o prese di posizione. Ma un film piacevole, divertente, che scorre via e merita la visione anche solo per le belle prove di Angela Finocchiaro e di uno strepitoso Elio Germano (che, diciamocelo, caga in testa al pur efficace Scamarcio).

Concorso
Paranoid Park (Francia/USA)
di Gus Van Sant
con Gabe Nevins, Daniel Liu, Taylor Momsen
Premio speciale per il 60° anniversario a Gus Van Sant

Gus Van Sant, c'è poco da fare, non è proprio nelle mie corde. E la cosa è tanto più evidente se penso che l'unico suo film (dei pochi che ho visto, va detto) ad avermi davvero soddisfatto è Good Will Hunting, quello probabilmente meno "suo" e più marchettaro. Comunque, con Paranoid Park siamo anni luce sopra a quella roba insopportabile di Last Days, vista sempre a Cannes due anni fa. Perlomeno c'è un personaggio con un minimo accenno di spessore, c'è una vicenda vagamente interessante, ci sono delle trovate di regia che sembrano avere senso. Epperò c'è anche la solita, insopportabile, sensazione che se ne potesse tirar fuori un mediometraggio, invece di un'ora e mezza che pesa come quattro. E poi, c'era davvero bisogno di menarsela con l'ennesimo film dalla scansione temporale scombinata, per raccontare di questo ragazzino sminchiato e sminchiatello, primattore in una tragedia da bassa periferia americana? No, perché cosa sia realmente accaduto lo si capisce dopo cinque minuti, e a quel punto il racconto incasinato serve solo a rompere i coglioni.

22.6.07

Tutto fa un po' male

Non si esce vivi dagli anni ottanta e si sta arrancando pure nei duemila (o zero, o quel che sono), ma ce la caveremo, ne sono convinto. Carichi di sushi e tonkatsu fino a scoppiare (a proposito, quello del Kotobuki non è paragonabile a quello del Maisen ad Harajuku, ma perlomeno ci prova, è quel genere di roba, e soprattutto non ha quell'aria da cotoletta dell'Autogrill che ho trovato nel ristorantaccio di viale Monza dove mi han portato i miei ex colleghi qualche mese fa). Con ancora nelle orecchie gli Afterhours che aprono il concerto su Male di miele, tirano fuori un'inattesa Elymania e buttano sul piatto, tanto per gradire, una splendida Cortez the Killer e perfino una Hit Me Baby One More Time. Qualche lento di troppo, forse, ma in due ottime (e abbondanti) ore di concerto, che non è che ci vadano avanti in molti, per oltre due ore. E allora si sopporta perfino Non è per sempre, che non la reggo davvero più, ma mi fa venire in mente i primi raduni di it.fan.studio-vit, una macchina piena di gente (anche se in effetti ricordo solo Flx) nell'estate del 1999, il rulladuno coi passaggi alla discoteca di Acquatica e, soprattutto, "Hai vinto bene".

21.6.07

Afa

Dopo un mese e mezzo in cui ho sfornato materiale a ritmo piacevolmente costante, in questi giorni mi sono arenato. Il problema è che ogni volta che apro la finestrella di Blogger vengo colto da un blocco fisico e mentale. Fa troppo caldo, sudo come un idiota e tutto questo mi leva le poche forze residue dopo una giornata di duro lavoro (ehm). Roba di cui parlare ne ho, una manciata di post sono in canna, e oltretutto c'è sempre il vago desiderio di riprendere in mano, in qualche modo, il diario di viaggio sul Giappone. Magari nel fine settimana trovo il tempo e la voglia. Intanto, stasera, vado a sudare per una causa più nobile.

19.6.07

X-Files - Stagione 7

The X-Files - Season 7 (USA, 1999/2000)
creato da Chris Carter
con David Duchovny, Gillian Anderson


La settima stagione di X-Files si apre esattamente come si era chiusa la sesta: nel bel mezzo di un colossale tuffo nella merda. Concluse praticamente tutte le questioni di trama lasciate in sospeso, Chris Carter e compagni si ritrovano senza praticamente più nulla da raccontare, ci ammorbano con un episodio triplo a cavallo fra le due annate lento, sfiancante, e che sembra davvero non avere nulla da dire e sembrano proprio tirare avanti solo per forza d'inerzia.

La totale assenza di spunti narrativi legati alla mitologia è frutto dell'aver giustamente voluto tirare le fila dei vari discorsi nell'annata precedente, ma si paga con un'altrettanto totale mancanza d'idee, che finisce per generare trovate a effetto francamente abbastanza gratuite. E così ci si ritrova con un doppio episodio (Sein Und Zeit/Closure) che racconta "finalmente" i segreti dietro alla sparizione della sorella di Fox Mulder, forse unico vero discorso ancora parzialmente lasciato in sospeso, tirando fuori dal nulla una spiegazione che nega tutto quanto detto fino a quel momento e puzza di artificioso e ridicolo.

Attorno alla pochezza con cui (non) viene portato avanti il discorso legato alla minaccia aliena, si dipanano una serie di episodi piatti, banali, autocompiaciuti, ben lontani dall'inventiva e dall'originalità che hanno reso famosa la serie. Certo, ci sono buoni momenti, che mai come in questo caso si legano soprattutto alle puntate capaci di non prendersi troppo sul serio e di scherzare con lo spettatore (The Goldberg Variation, The Amazing Maleeni, X-Cops, Hollywood A.D., Je Souhaite). E lascia tutto sommato perplessi che, al di là dell'ottimo - ma isolato - episodio En Ami, una serie nata e diventata famosa per le sue atmosfere misteriose e tenebrose finisca per dare il suo meglio solo quando smette di prendersi sul serio.

Ma d'altra parte l'impressione è che a furia di abusarne il giocattolo abbia finito per rompersi. Col senno di poi, mettendo assieme gli episodi riusciti di sesta e settima stagione si sarebbe ottenuto un singolo anno di buona qualità, degno seguito degli strepitosi quarto e quinto. Tanto più che l'episodio finale, seppur eccessivamente frettoloso, mette sul piatto una serie di novità interessanti, che sanno un po' di ultima spiaggia, ma avrebbero tutto sommato potuto dar vita a un anno conclusivo dalle buone premesse.

E invece ci siamo sorbiti una lunga serie di episodi senz'arte ne parte, col dubbio vantaggio di aver visto una superflua appendice per Millennium (bello dare a Frank Black la possibilità di tornare in azione sul cambio di millennio, ma la puntata lascia abbastanza a desiderare) e la certa tristezza di aver dato modo a Gillian Anderson di scrivere e dirigere il suo primo, inguardabile, episodio. Senza contare le successive due stagioni, che non ho ancora visto, ma che mi fanno un po' paura.

18.6.07

Heineken Jammin' Festival 2007

Abbiamo gironzolato attorno all'idea per qualche mese, ma solo un paio di settimane fa, chiacchierando con Cardo davanti alla lista dei gruppi presenti, ci si è decisi: sarebbe stato Heineken Jammin' Festival 2007, nelle giornate di venerdì e sabato. Con l'avvicinarsi della data, il gasamento prende a salire, un po' perché non vado a un concerto da ottobre, un po' perché questo genere di giornate immerse nella musica e nel dolce far niente in compagnia mi son sempre piaciute molto, un po' perché comunque non frequento un festival musicale dal Flippaut del 2003 (e a un Jammin' non ci andavo da quello del 1999) e un po' perché mettendomi ad ascoltarli in 'sti giorni ho scoperto di apprezzare parecchio i The Killers, che fino a una settimana fa, pur conoscendone i vari singoli, manco sapevo chi fossero. E così venerdì mattina ci siamo messi in viaggio, io, la Rumi e Cardo, in macchina verso Venezia, d'accordo per incontrarci sul posto col Dottore (in compagnia del Sassa e della sua ragazza) e con Zave e consorte. La notte sarebbe stata poi trascorsa nella casa veneziana di questi ultimi e non, come inizialmente previsto, nella più scomoda da raggiungere magione padovana di Flx.

Dopo un viaggio abbastanza tranquillo, tagliato in due da una pausa pranzo all'Autogrill Bauli vicino a Verona (caspita, un polipo in umido davvero buono!), giungiamo a destinazione senza incontrare particolare traffico, al di là di un fisiologico rallentamento negli svincoli. Arrivati davanti all'ingresso del parco, avvistiamo la biglietteria, ma proseguiamo alla ricerca del parcheggio, imbattendoci in una coda allucinante, generata dalla mossa geniale dei vigili di mettersi a rimuovere le macchine parcheggiate alle selvaggia, finendo col bloccare quasi per intero la strada con i carri attrezzi. Comunque, in qualche modo arriviamo al parcheggio e ci avviamo poi a piedi. Le 15:00 sono passate da poco e lungo il tragitto ci arrivano le note dei gruppuscoli che aprono la giornata.

Arrivati in cassa, ci sentiamo dire che la tessera da due giorni esiste solo per l'accoppiata sabato/domenica (ma chi cazzo è che va a vedere Vasco e la roba di sabato? Bah!). Ci fidiamo, che tocca fare, e acquistiamo il biglietto solo per il venerdì. Dopodiché si entra, in quest'area veramente spettacolare, enorme, interminabile e piena di bancarelle, baretti ed elementi sfiziosi. Ci avviciniamo a un palchetto ("Sarà quello secondario") dove si esibiscono avventori volenterosi di mettersi in mostra. "Ah, no, il palco secondario è quello là in fondo, di fronte al palco grosso. Minchia, ma quanto cazzo sono lontani?" Molto. Per fortuna, l'area dedicata all'evento è davvero enorme. Per fortuna davvero.

Dopo aver cazzeggiato un po' in zona e dopo aver mollato l'obolo per una bella maglietta dei Pearl Jam (ascoltando fra l'altro un ragazzo che chiedeva se fosse possibile eliminare il nome di Vasco dalle magliette del festival), ci avviamo verso la zona dei concerti, vagando vicino alle varie bancarelle, da quella di XL a quella di Guitar Hero II, passando per baretti, paninari e cessi chimici assortiti. Raggiungiamo la zona del palco principale mentre stanno zompando fuori i Le Mani. Durante la loro esibizione, francamente abbastanza triste, ci concediamo di curiosare dalle parti del palco secondario, osservando fra le altre cose un tizio che vomita in ginocchio e altre sciccherie. Dopo un veloce passaggio al bagno, ci si siede nei pressi del palco principale, sul lato destro, dalle parti dei cessi chimici, poco più a lato rispetto alla più esterna delle torri metalliche che sostengono le casse aggiuntive, i teloni pubblicitari e i maxischermi.

L'esibizione dei Le mani prosegue nella tristezza, col cantante che incita la folla ("Su le mani!", "Alzate 'ste cazzo di mani!", "Siete me-ra-vi-glio-si!") e - come al solito, in questi casi - ottiene una qualche reazione solo con "questo è l'ultimo pezzo." Mentre l'esibizione si sta esaurendo, ricevo una telefonata dal Doc, ma non riusciamo a capirci molto bene e mi limito a indicargli più o meno dove può trovarci. La canzone termina, iniziano i lavori di preparazione del palco per i My Chemical Romance, e su uno schermo gigante appaiono le immagini del video di Read My Mind dei The Killers. Sarà l'ultima canzone che ascolteremo all'Heineken Jammin' Festival 2007.

Mentre siam lì seduti a cazzeggiare, comincia a cadere qualche goccia di pioggia, poca roba. Fa niente, siamo attrezzati, del resto ce lo aspettavamo. Ci alziamo da terra e cominciamo a bardarci. Cardo infila il suo impermeabilino, io e la Rumi ci mettiamo addosso i poncho modello Unbreakable che lei stessa è andata a comprare il giorno prima. E così sono lì, ricoperto con il poncho, il cappellino dei Sixers sotto il cappuccio, il portafogli e il cellulare chiusi in un sacchetto dentro il marsupio. Ok, ho fatto la cazzata di mettermi le scarpe di tela e i pantaloncini corti, ma sopravviverò. Niente può fermarmi. Credo.

Estraggo il telefonino per provare a mettermi di nuovo in contatto col Doc, e nel frattempo la pioggia aumenta non poco. Mi allontano dagli altri verso una specie di enorme aiuola rotonda, subito alle spalle dei cessi, e da lì cerco di capirmi col Dottore, ma il segnale probabilmente è debole, e non sento quasi per niente la sua voce. E la situazione atmosferica non sta migliorando. "Dottore, io non sento un cazzo di quello che dici e qua mi sta grandinando addosso, ciao." Metto giu e, con la pioggia che appunto ha cominciato a trasformarsi in grandine, mi dirigo dagli altri due. Il Doc mi dirà poi che in quel momento dove si trovava lui (a pochi metri di distanza, probabilmente), in quel momento ancora non grandinava.

Raggiungo la Rumi, che mi indica un tizio pensando che sia il Doc. Al che lo inseguiamo fino a raggiungerlo, per scoprire che non era lui. Nel fare questo, siamo finiti nei pressi della torre metallica più esterna. Una di quelle laterali, non le giganti coi megaschermi che stanno al centro. La grandine sta aumentando e comincia pure a fare un po' male alle gambe (tant'è che ho ancora un segno rosso poco sotto al ginocchio provocato da un chicco particolarmente tosto). Allora ci dirigiamo sull'altro lato della torre, teoricamente abbastanza coperto dal vento e, quindi, almeno in parte, anche dalla grandine.

Su questo lato si trova ovviamente già un botto di gente, a cui mi avvicino per coprirmi ulteriormente dal casino che mi sta piombando in testa. Nel farlo comincio a sparare qualche stronzata (tipo "Ecco, è la punizione divina per i satanisti del rock!"), che perlomeno fa ridere chi mi sta davanti e sdrammatizza un filo. Del resto, la grandine aumenta in quantità e forza, si comincia a non vedere davvere più un cazzo che non sia il muro bianco e le cose che ti stanno a brevissima distanza. L'impressione, insomma, è che stia semplicemente grandinando molto, ma non ci si rende e non ci si renderà davvero conto fino in fondo del caos che si sta per scatenare, a meno di subirne gli effetti in prima persona.

Mi avvicino sempre più alla gente, cercando riparo sotto qualche ombrello o anche semplicemente nella vicinanza. Provo anche a chinarmi, ma serve a poco. A un certo punto salta fuori un telone, non si capisce bene da dove (probabilmente da un qualche capannello promozionale crollato). Comunque, viene tirato su e lo usiamo per coprirci. Tenuto su con le mani, ci ripara un po' dal caos. La grandine, però, picchia fortissimo, tanto da far male alle mani con cui si tiene su il telone, colpendole attraverso il telone stesso. Mi viene pure un attimo di sconforto, al pensiero della grandinata "spacca macchine" raccontata anni fa da ZX. Al che comincio a urlare "A me i Linkin Park fanno pure cacareeeee!!!" e mi accorgo di avere davanti, sghignazzante, lo stesso tipo che rideva prima. Già, tutto sommato ancora si ride, perché ancora sembra che stia "solo" grandinando. Non abbiamo idea, per esempio, del fatto che le torri metalliche stanno crollando. Torri metalliche come quella che ci sta di fianco, per capirci.

Improvvisamente succedono, in contemporanea, tre cose: mi rendo conto che, forse, per quanto possa essere bello stare al riparo dalla grandine, mettersi sotto quel telone non è stata una grande idea; ristabilisco il contatto visivo con Elena e Cardo; vedo un tizio dello staff passarmi davanti urlando "VIA, TUTTI VIA!"

E allora via, tutti via. Via da sotto il tendone, di nuovo sotto la grandine. Elena corre davanti a me, Cardo dietro di me. Non si vede un cazzo, andiamo dritti, schivando fra l'altro persone rinchiuse in delle specie di microtende impermeabili griffate Heineken, che venivano vendute ai vari stand per ripararsi da sole e pioggia. Chissà se li han riparati bene dalla grandine. Chissà se qualcuno rinchiuso in una di quelle tende si è sentito piombare addosso una torre metallica.

Dopo una decina (?) di metri, ci fermiamo. La grandine sta improvvisamente smettendo di cadere. Vedo la Rumi davanti a me, che guarda verso di me e mi dice "Sono rimasti sotto!" Ma sotto che? Mi giro, e solo a questo punto mi rendo conto che le torri metalliche sono collassate praticamente tutte (otto su dieci, se non sbaglio). Assieme a Cardo corro verso la torre più grossa fra quelle cadute, dove c'è un gruppo di persone che sta cercando di tirarla su per estrarre qualcuno immobilizzato sotto. Ma non so bene che fare (anche perché di gente che spinge mi pare ce ne sia pure troppa) e, fra l'altro, la presenza di cavi elettrici non mi fa venire una gran voglia di dare una mano.

Chiamo Cardo e mi dirigo verso Elena, che è rimasta di poco dietro. Nel frattempo è tutto finito, non cade più una goccia d'acqua, praticamente sta spuntando il sole. E tutto è durato non più di cinque minuti. Cerchiamo di raccapezzarci, contattiamo il Dottore tramite il telefono e, pur con un po' di fatica, riusciamo a beccarci. Nel frattempo Cardo mi racconta di aver visto, durante la fuga, un tizio venire colpito alle gambe da un cavo e ribaltarsi, sbattendo la testa per terra. Quella visione più di tutte, probabilmente, lo ha scosso parecchio, e i segni stanno tutti nel suo sguardo.

Il Dottore e i suoi compari ci raccontano poi di essere arrivati nella zona del palco mentre i Le mani stavano concludendo l'esibizione e - una volta iniziato il casino - di essersi riparati dietro i bagni chimici. Un riparo a quanto pare abbastanza sicuro e funzionale. Mentre si chiacchiera e si assiste all'intervento dei soccorsi, scatta il giro di telefonate per tranquillizzare chi - a casa - ha saputo del casino, anticipando sul tempo anche chi ancora non sapeva nulla. In tutto questo riusciamo a sentire Zave, che non sa bene cosa è successo ed è in cammino sul ponte bloccato al traffico (nel punto in cui il ponte passa dalle parti del parco, ci sono fior di alberi sradicati dal terreno). Gli spieghiamo l'accaduto e gli comunichiamo che difficilmente ci sarà ancora qualcosa da vedere.

Piano piano i soccorsi fanno il loro dovere e, nel giro di un'oretta, la folla viene invitata a disperdersi (e il tutto avviene abbastanza tranquillamente). Mentre ci si muove, rovesciando per terra l'acqua accumulata fra le pieghe dei vestiti, scatta l'inevitabile chiacchiera. Il miocuggino, il "Ci sono diecicentomille feriti", i "Ma ci ridanno i soldi dei biglietti?" e gli ovvi "Certo che solo in Italia... ma come si fa a costruire della roba che crolla così facilmente?" Eccetera.

Tutte le bancarelle spaziano fra il devastato, il volato via e il mezzo crollato. Le prime ancora in piedi si avvistano praticamente all'uscita, e sono assalite da gente che vuole comprarsi da mangiare. Un gruppo di stranieri sta svuotando una scatola di coni gelato che, vai a sapere, magari è piovuta loro in mano dal cielo. Pare comunque ci siano solo feriti, nessuno grave. Il deflusso e la chiacchiera procedono abbastanza tranquilli, anche se qualche cristone vola all'indirizzo degli organizzatori e dello staff al punto informazioni.

Ci si dirige alla cassa, che ovviamente è chiusa e deserta. Solo la cassa accrediti è aperta, ma chi ci sta dentro non sa ovviamente nulla e risponde come può agli assalti verbali. Arrivano dei poliziotti, ma la cosa non scivola nella violenza, perlomeno fino a che noi siamo lì. (Al di là di un tizio muscoloso e pelosissimo, addobbato con un gilerino di pelle, che apostrofa i poliziotti con "Noi siamo in trentamila e voi in otto, se ci incazziamo che fate?"). Diventa comunque chiaro abbastanza in fretta che per il momento non si può ottenere nulla, quindi ci avviamo mogi verso la macchina.

Camminiamo lungo il marciapiede insieme a una fiumana di gente. A un certo punto vedo due ragazzi vicini, uno ha lo sguardo fisso nel vuoto, quello di fianco a lui ride e piange assieme. Poco più in là c'è una band, di ragazzini, a occhio nemmeno maggiorenni. Forse facevano parte dei gruppi vincitori dei concorsi. Stanno trascinandosi dietro la strumentazione, ma stanno anche spiegando a un tizio dello staff che da soli non ce la fanno. Sull'erba ci sono gli abusivi che vendono le magliette, e dietro di loro c'è il campeggio, in condizioni perfette. "Ma che minchia è, cascano le torri e alle tende non succede nulla?" Scopriremo poi che, molto semplicemente, di qui il casino maco ci era passato.

Mentre si cammina, e si riflette sulla faccia che devono fare quelli che, dopo tutto questo, tornano alla macchina e scoprono che è stata rimossa, pensiamo anche a cosa sarebbe potuto succedere se tutto questo fosse avvenuto qualche ora dopo. Perché, bisogna pure dirlo, ci si trovava nell'intervallo fra l'esibizione di un gruppo poco noto e quella della prima band vagamente di nome. La gente era sparsa in giro per un'area davvero enorme, fra bancarelle e cazzate. E al primo accenno di pioggia fitta, molti si sono dispersi. Ma se fosse stato in corso un concerto di quelli a venire, beh, saremmo stati in trentamila, tutti ammassati nello stesso punto, con nessuno che accenna a muoversi sulle prime gocce di pioggia. All'inizio della grandinata sarebbe scoppiato il caos e, considerando che da quel momento al disastro son passati pochi secondi, beh, meglio non pensarci...

Arrivati alla macchina, salutiamo il gruppo del Doc (che ci affida i loro biglietti per il rimborso) e ci diamo alla toeletta. Ci si cambia, ci si ripiglia un po' e ci si mette in moto (in coda), ascoltando la radio per farsi un'idea un po' pù seria. Fra quello e i quotidiani il giorno dopo, verremo per esempio a sapere che le strutture crollate erano pensate per resistere a 90kmh di vento, ma non a una tromba d'aria da 120, e che i feriti sono dieci, no, sono trenta, no, sono dieci, no, sono trenta, ma nessuno grave, no, un paio sono gravi, ma nessun morto. Sentiamo un tizio di XL raccontare che loro sono stati salvati dalle pile di giornali. Pile di giornali sulle quali si è schiantato un cesso chimico, levatosi in volo e finito dalle loro parti. E allora forse il riparo scelto dal Dottore poi così sicuro non era. Ma del resto chi sono io per parlare, che stavo acquattato di fianco a un torre metallica in crollo e manco me ne sono accorto?

Decidiamo di non provare nemmeno a immetterci nel traffico in uscita e andiamo verso il centro di Mestre, seguendo una strada tutto sommato poco trafficata. Molliamo la macchina in un parcheggio, prendiamo un treno in arrivo subito dopo di noi (notando comunque che ci sono convogli con ritardi da tre ore) e, dopo esserci imbarcati anche sul vaporetto, arriviamo a destinazione, stanchi morti, affamati come bestie e pronti a raccontare tutto a chi ci ospiterà.

E, sostanzialmente, finisce così. L'intera manifestazione verrà poi annullata, un po' per impraticabilità di campo, un po' per le indagini, un po' perché magari, pur non essendoci scappato il morto e pur essendo improbabile che si verifichi di nuovo il disastro, sarebbe il caso di fare attenzione. Certo è che il sabato di sole mortale fa proprio rabbia, specie mentre andiamo inutilmente a chiedere il rimborso alle casse. "I rimborsi sono stati dati stamattina, guardate sul sito le informazioni per ottenere i soldi indietro." Si torna quindi a casa, con nelle orecchie solo l'esibizione dei Le mani e il rumore della grandine. Con la serenità di essere stati a un passo dal disastro vero. Con l'amarezza per i concerti persi (fra l'altro, cazzo, quasi tutti i gruppi li avevo già visti, alcuni più volte, altri anche di recente, o li volevo vedere solo per curiosità, ma ai The Killers, che praticamente conosco da una settimana, avevo finito per tenerci davvero). Bah, almeno ho (intra)visto Venezia, che non ci passavo da quando ero piccolino...

15.6.07

Game Over

Nel corso degli ultimi sei anni e mezzo ho vissuto la mia prima esperienza di lavoro d'ufficio, da otto ore al giorno, con ferie pagate, giorni di malattia e menate varie garantite. Il mio primo lavoro "vero", intrapreso dopo tre anni nei quali mi ero barcamenato fra un mezzo impiego in edicola, i dieci mesi di servizio civile e i primi passi da pseudogiornalista freelance. In questi sei anni e mezzo ho vissuto la vera vita di redazione, quella che un ragazzino appassionato lettore di Zzap, TGM, Kappa, C+VG e compagnia bella manco si preoccupava di immaginare come potesse essere. Ho ottenuto accesso gratuito (anzi, pagato!) a un sacco di giochi che altrimenti non avrei magari avuto nemmeno il tempo di provare e sono stato pagato per scrivere, giocare e gestire cose e persone, in un ambiente rilassato, amichevole, elastico. Per lavoro ho viaggiato un sacco, soprattutto negli ultimi tre anni. Sono stato a Grindelwald, San Francisco, Montreal, Los Angeles, Nizza, Porto Cervo, Dublino, Las Vegas, Vancouver, Austin, Stoccolma, Helsinki, Parigi, Miami e forse da qualche altra parte che mi sfugge. In alcuni di questi posti, addirittura, ci sono pure tornato. Durante tutti questi viaggi ho avuto a che fare con personaggi di ogni tipo. Inglesi, tedeschi, francesi, italiani, spagnoli, olandesi, americani, giapponesi, finlandesi... quasi tutta gente simpatica e di ottima compagnia, che probabilmente finirò per non rivedere più e che sicuramente un po' mi mancherà. Ho partecipato cinque volte agli europei di PES riservati alla stampa. Tre volte ho perso ai rigori, contro tre francesi diversi. Una volta ho perso in rimonta, contro un inglese simpaticissimo, tale Sefton. Una volta ho trionfato, a Nizza. E già soffro all'idea che non ci sarà la sesta. Ho pure giocato a calcetto, in squadra con quel gran bevitore di Seabass Takatsuka. Lui l'ho intervistato fino alla nausea, ormai ha imparato a temermi. Ma di gente ne ho intervistata pure altra, tanta, sempre adorando quest'aspetto "esplorativo" del mio lavoro. Ho chiacchierato con Dave Perry, lui e i suoi giochini di piattaforme. E pure con Fabio Caressa, anche se più che altro l'hanno intervistato alegalli e Ualone. Ho giocato a PES, tanto, tantissimo, pure troppo, anche da regista oscuro dei tornei fra le redazioni. Ma ho pure organizzato decinaia di calcetti infrasettimanali e ho portato la fascia nella fuga verso la vittoria allo SmadernaV 2004 (segnando il mio primo e ultimo gol decisivo in un torneo e giocando la finale su un piede solo). E pure verso una sconfitta, l'anno dopo, in finale, giunta solo dopo aver purgato ancora i consolari, ai rigori. E ancora rimpiango di non essere riuscito a vedere in campo la coppia d'attacco dei sogni. Ho giocato a Singstar con Babich, cantando Rocket Man davanti a una folla in delirio (vabbé, più o meno), e ho visto l'intera redazione di TGM gorgheggiare su Si può dare di più. E smetto subito di citare persone e personaggi, perché alla cosa di Singstar ci tenevo, ma non mi sembra il caso di andare avanti, facendo torto ad alcuni e facendo sentire troppo importanti altri. Mettiamola così: in questi sei anni e mezzo ho conosciuto e frequentato un po' di persone davvero belle, per le quali probabilmente, nel tempo, come mio solito, non sono stato in grado di esternare a dovere l'affetto e la stima che si meritano. E lo dico anche con un filo di amarezza, perché mi conosco e so bene che molti di loro finirò per perderli di vista. Perché il calcio è così. Perché questo è il calcio. Perché il calcio è così.

Ieri, ché magari si è capito ma in effetti ancora non l'ho scritto, è stato il mio ultimo giorno di lavoro in Sprea Media Italy.

Da oggi, tutta questa roba, e chissà quanta altra ancora che sul momento mi sfugge o mi faccio volontariamente sfuggire, me la lascio alle spalle. E mi fa davvero tanto male, farlo. Ma non importa, perché alla fin fine ci ho messo pure troppo, a decidermi, proprio perché a questa roba, e chissà quanta altra ancora che sul momento mi sfugge o mi faccio volontariamente sfuggire, non volevo rinunciare. Ma a un certo punto, quando ti rendi conto di non avere più soddisfazioni, stimoli, motivazioni, quella piacevole sensazione di orgoglio per quel che stai facendo, quando capisci che per trovarli devi guardare parecchio indietro, quando addirittura ti rendi conto che pure se guardi parecchio indietro, alla fin fine, non è che ce ne sia st'abbondanza, beh, allora, forse è proprio ora di voltar pagina. Consapevole del fatto che si sta comunque lasciando qualcosa di importante, nel bene e nel male. Determinato a non ripetere certi errori, proprio no. Sicuro di non dimenticare quel che non va dimenticato (ma manco per il cazzo, fra l'altro).

Adesso mi aspetta un fine settimana lungo di cazzeggio, con due giorni allo Jamme e una domenica di totale cinefilia Cannesca. E poi lunedì si comincia in Binari Sonori, con qualcosa che, grazie al cielo, ho proprio voglia di provare a fare. Al mio posto in Sprea ci va una di quelle persone citate là sopra, quelle meritevoli di stima. Uno di quei tre o quattro che pensavo se lo meritassero, e che mi dispiace anzi non possano essere premiati tutti assieme. Mi fa molto piacere che sia uno di loro e non - con tutto il rispetto - l'ennesimo ultimo arrivato.

Un bacio e un ringraziamento a loro e a tutti quelli che se li meritano.
Fate i bravi.

14.6.07

Final Fantasy

Final Fantasy (Square, 1987)
sviluppato da Square - Hironobu Sakaguchi


In che modo giudicare un pezzo d'antiquariato come il primo Final Fantasy, non sufficientemente rudimentale da godere del buonismo con cui si guarda a un Pong qualsiasi, ma abbastanza decrepito da non poter essere valutato con parametri odierni? Non lo si giudica, punto e fine. Anche perché, se è pur vero che il "restauro" effettuato da Square lo rende quantomeno guardabile, seppur solo nel contesto di una console portatile anch'essa ormai appartenente al passato, la struttura di gioco rimane comunque vecchia, affaticata e faticosa, con la sua strabordante marea di incontri casuali e le sue tremendamente semplici meccaniche.

Giocare a questo primissimo episodio rappresenta poco più che lo sfizio di scoprire come, tutto sommato (e ferma restando una revisione strutturale che l'ha reso più moderno e più adatto a una console portatile), fossero già presenti tanti punti fermi che avrebbero poi caratterizzato il genere. E si aggiunge la curiosità di trovare una visione del fantasy tremendamente occidentale, narrata con uno stile nipponico, ma ben lontana dalle meraviglie a modo loro esotiche che si sarebbero viste nei successivi episodi della serie.

Il tutto viene ahimè raccontato con una "sceneggiatura" che, nonostante un lodevole lavoro di ampliamento e approfondimento del canovaccio originale, si limita a mettere in fila tenui pretesti per mostrare in sequenza tutti i possibili stereotipi del fantasy. E il risultato non è davvero altro che uno sfizio per appassionati (cosa che fra l'altro io non sono più di tanto, ma non importa), comunque per certi versi intrigante e a modo suo piacevole, grazie anche alla capacità dei "restauratori" di regalare, sfruttando temi musicali stranoti e atmosfere sognanti, un'esperienza sempre molto particolare e caratteristica.

Smiley

Mi è successo stamattina, mentre ero seduto in metropolitana, nel tratto fra Cernusco e Villa Fiorita, e ascoltavo When You Were Young dei The Killers. Improvvisamente sul mio volto è apparso un sorriso. E non riuscivo a levarmelo, proprio. Sorridevo come un cretino, ma talmente come un cretino, che quando sono sceso dalla metro ho pure cominciato a ridere. E ho continuato fino a che non sono arrivato in redazione. Hahahahah, ma ridevo come un idiota, eh, una roba senza senso. Sveglia, che la vita è bella!

13.6.07

Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo

Pirates of the Caribbean - At World's End (USA, 2007)
di Gore Verbinski
con Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley, Geoffrey Rush, Chow Yun-Fat, Bill Nighy, Naomie Harris


Ai confini del mondo è decisamente un degno e riuscito capitolo conclusivo per una trilogia che, pur con tutti i suoi difetti, ha saputo mettere assieme un colossale e divertente minestrone piratesco, rendendolo godibile e adatto a un pubblico ggiovane e moderno. In questo terzo episodio si confermano pregi e difetti dei precedenti, con un Verbinski che si rivela ancora una volta regista capace e, nel suo piccolo, anche piuttosto dotato. Il terzo Pirati dei Caraibi vanta una messa in scena sontuosa e spettacolare, con effetti speciali capaci di ridicolizzare qualsiasi altra produzione, e mette in mostra una discreta voglia di stupire e osare, magari anche andando un po' fuori dagli schemi del "blockbusterone", con trovate visionarie e affascinanti, personaggi dal destino tutto sommato non troppo prevedibile e un certo retrogusto amarognolo nel raccontare di stanchi pirati al tramonto e di amori destinati alla tragedia.

Si conferma la logorrea narrativa del secondo episodio, con una durata di quasi tre ore, snellite dal notevole senso del ritmo, ma forse comunque un po' eccessive. Specie se si pensa che, nonostante la lunghezza, alcuni passaggi sanno comunque di tirato via, con una sceneggiatura che paga i limiti della serialità senza saperne sfruttare a fondo i pregi. E così vediamo personaggi importanti dei precedenti episodi ridotti ad esili e inconsistenti macchiette, mentre spuntano fuori dal nulla fior di elementi narrativi ai quali in passato non si era concesso nemmeno un accenno. Ne viene così fuori una saga nel complesso stilisticamente omogenea, ma forse un po' troppo schizofrenica sul piano narrativo.

Nel complesso, comunque, Ai confini del mondo convince, grazie al carisma dei personaggi (ottimo davvero Sao Feng, purtroppo risibile il cattivone, specie se paragonato al Barbossa del primo film), alla saggezza di dare un po' meno spazio al sempre ottimo Jack Sparrow, che nel secondo episodio rubava forse troppo la scena, alla già citata capacità di affascinare con trovate visionarie e alla spettacolare baracconaggine dell'azione. E poi, via, stiamo parlando di un film in cui si mettono a consultare una mappa identica all'aggeggio per superare la protezione anticopia di Monkey Island. Come non amarlo?

12.6.07

Grim Fandango

Grim Fandango (LucasArts, 1998)
sviluppato da LucasArts - Tim Schafer


Con un ritardo davvero ingiustificabile (quasi dieci anni, mamma mia), mi sono finalmente giocato Grim Fandango, ultima grande avventura grafica LucasArts, nonché capolavoro del geniaccio Tim Schafer, autore anche di Full Throttle e del successivo Psychonauts (nonché parte fondamentale dell'associazione a delinquere che ha generato pietre miliari del calibro di Day of the Tentacle e dei primi due Monkey Island). E ho scoperto, per l'appunto, un capolavoro assoluto, un gioco che mostra i suoi anni sul piano estetico (oggi non sarebbe certo un problema realizzarlo interamente con la qualità che si vede nei filmati d'intermezzo), che indubbiamente continua a pagare i danni di un sistema di controllo impacciato ora come all'uscita, ma che nonostante questo rimane davvero impareggiato e impareggiabile per qualità della scrittura, originalità, visionarietà e puro divertimento.

Grim Fandango è uno splendido e delirante noir, che racconta le vicende di Manny Calavera, il più classico degli uomini comuni coinvolti in vicende più grandi di loro. Comuni per modo di dire, ovviamente, dato che Manny è morto e lavora come impiegato presso un'agenzia che si occupa di organizzare il viaggio delle anime defunte verso la loro destinazione nell'oltretomba. Proprio sul posto di lavoro, Manny s'innamora di Mercedes Colomar, un'anima persa finita nei guai anche a causa di un errore del protagonista. Vittima della passione, ignara pedina in un colossale gioco di potere, Manny finirà per vivere in compagnia dell'esuberante Glottis un'avventura lunga quattro anni, che lo porterà a visitare i più assurdi luoghi dell'oltretomba tradizionale messicano e a viaggiare fra le mille pieghe del genere noir.

Le avventure di Manny oscillano fra il poliziesco e il melodramma, raccontando con toni seriosi fino all'eccesso una storia che ha il coraggio di essere intensa e drammatica senza prendersi quasi mai sul serio. Grim Fandango diverte giocando con se stesso, infilando sempre una battuta, una caratterizzazione sopra le righe, una trovata visiva geniale, anche nei momenti più drammatici. E proprio per questo finisce per creare un mondo e un'atmosfera tremendamente intensi e coerenti, capaci di risultare per assurdo molto più credibili e coinvolgenti di chi ama prendersi troppo sul serio.

Grim Fandango è, insomma, un racconto vivo e pulsante, che si ciba di una sceneggiatura perfetta in ogni minimo dettaglio e si appoggia su una carica visionaria travolgente, fatta di scenari, ambientazioni e personaggi che rielaborano in maniera splendida l'immaginario fantastico messicano. Ciliegina sulla torta, il doppiaggio, ben realizzato nell'edizione italiana, ma semplicemente irresistibile in una versione originale che - a prescindere dalla divertente cadenza messicana impossibile da rendere a dovere nel nostro idioma - davvero non teme confronti per bravura, bellezza e intensità delle voci.

E tutto questo si poggia su un'avventura grafica estremamente solida, fatta di enigmi talvolta complessi e articolati, ma mai in grado di portare a eccessiva frustrazione, a patto di saper entrare nella logica perversa del gioco e di calarsi nella rude e adulta atmosfera di Grim Fandango. Un'avventura che, nonostante un sistema di controllo modello PlayStation zoppa, rimane piacevolmente ancorata ai suoi schemi più classici, che richiedono l'utilizzo di oggetti assurdi nei modi più incredibili, un occhio aguzzo e sempre attento ai minimi dettagli e la capacità di cogliere ogni minimo indizio fornito tramite il dialogo. Grim Fandango, insomma, è un vero capolavoro, certamente una delle migliori avventure grafiche di sempre. Forse, come molti sostengono, la migliore in assoluto.

9.6.07

La cura del gorilla

La cura del gorilla (Italia, 2006)
di Carlo Sigon
con Claudio Bisio, Stefania Rocca, Ernest Borgnine, Antonio Catania, Bebo Storti, Gigio Alberti

Gorilla è una specie di detective controvoglia, un personaggio stanco e logoro, che vaga fra le maglie del noir alla ricerca di uno scopo nella vita. Lui e Socio sono due facce della stessa medaglia, i due aspetti di una doppia personalità che alterna il lato buono e quello bastardo della stessa persona. A interpretare entrambi troviamo un Claudio Bisio fisicamente ed esteticamente perfetto (del resto il ruolo è stato scritto pensando a lui), ma dalle doti di attore molto limitate e del tutto inadatto a condurre la storia con una voce narrante dall'intonazione sempre sballata e fuori luogo.

Ma è un po' tutto il cast di La cura del gorilla, a lasciare perplessi, a partire dall'ormai proverbiale monoespressività di Stefania Rocca, per arrivare a Ernest Borgnine che, poverino, fa il suo dovere, ma interpreta un ruolo visto, rivisto e stravisto nel cinema italiano recente. E più in generale delude la pochezza di uno script che ha sicuramente il pregio di non prendersi troppo sul serio, ma propone trovate ormai logore (il classico contesto serio popolato da personaggi fortemente autoironici interpretati da cabarettisti) e nei minuti finali vede l'intreccio giallo sbriciolarsi nella sua pochezza.

Ci sono dei pregi, soprattutto in una regia molto moderna e in una cura per l'immagine tutto sommato non comune nelle produzioni italiane, ma nel complesso, vista anche la fama di giovane talento che Carlo Sigon porta in dote, La cura del gorilla è una discreta delusione.

8.6.07

Spider-Man - La trilogia

Spider-Man (USA, 2001)
di Sam Raimi
con Tobey Maguire, Kirsten Dunst, Willem Dafoe, Kirsten Dunst, James Franco

Rivedendo il primo Spider-Man a sei anni di distanza, ho trovato conferma per le impressioni contrastanti che ricordavo. Da una parte il piacere di poter osservare una versione in "carne e ossa", fedele all'originale nei tratti caratteristici e frutto di un evidente amore per il personaggio da parte di Sam Raimi. Dall'altra una pellicola debole, farraginosa, per certi sfilacciata. Un film d'azione con un antagonista incapace di andare oltre il suo pur divertente macchiettismo, una serie di personaggi poco più che abbozzati e uno script che paga la presunta necessità di raccontare sempre le origini nel film d'esordio.

E allora ci si deve sorbire una genesi lunga due ore, ben ritmata e, soprattutto, graziata dalla presenza dietro alla macchina da presa di una persona che gira le scene d'azione come davvero pochissimi altri, ma che dà l'impressione di non riuscire ad andare oltre il compitino svolto diligentemente. L'incredibile somiglianza di un po' tutti gli attori al modello originale (un Jameson migliore non si poteva proprio trovare), la voglia di rielaborare in chiave moderna i personaggi senza tradirne lo spirito e in generale la capacità di rendere così bene su pellicola l'impatto visivo dei fumetti rendono questo Spider-Man - perlomeno ai tempi dell'uscita - l'adattamento fumettistico meglio realizzato di sempre. E ancora oggi, nonostante degli effetti speciali poi surclassati dai seguiti, il film si conserva abbastanza bene. Certo, vien da chiedersi se fra una decina d'anni sarà invecchiato male come l'ormai decrepito primo Batman di Tim Burton...


Spider-Man 2 (USA, 2004)
di Sam Raimi
con Tobey Maguire, Kirsten dunst, Alfred Molina, James Franco

Così come accaduto anche per altre serie tratte da fumetti, il secondo episodio si rivela decisamente più compiuto, maggiormente vicino alla sensibilità di un autore forse anche più libero di lavorare fuori da costrizioni di produzione. Ma i pregi di Spider-Man 2 stanno innanzitutto in una sceneggiatura estremamente solida, che non va certo oltre l'ordinarietà di un manicheo conflitto fra super esseri, ma regala personaggi un po' più ricchi e mostra una maggiore capacità di dosare ritmi e tempi. Raimi, poi, abbraccia con più convinzione lo spirito spensierato e goliardico dell'Uomo Ragno che piace a lui, mostrandoci un personaggio carico di autoironia e scegliendo di affrontare eventi dal forte peso drammatico con un forte taglio umoristico e la consapevolezza di non poter prendere più di tanto sul serio queste storielline d'amore e questi iperbolici drammoni adolescenziali.

In Spider-Man 2, poi, c'è l'unico villain davvero ben caratterizzato (e interpretato) di tutta la serie, affidato a un Alfred Molina capace di spazzare via in un attimo le mossette e i sorrisini di Willem DaFoe. E regia ed effetti speciali raggiungono un livello strepitoso, capace di rendere su pellicola come forse non si pensava fosse possibile la spettacolare complessità dell'azione fumettistica. Tutta la sequenza del combattimento sul treno, per esempio, è incredibile per ritmo, intensità e capacità di riprodurre le dinamiche e le tematiche del fumetto di supereroi.

E non manca il gusto per l'ammiccamento, l'attenzione al fan che può riconoscere la storyline palesemente ripresa nell'intreccio, o le tante citazioni grafiche costruite su schermo come tavole del fumetto, fra le quali spicca senza dubbio lo Spider-Man No More citato a parole da Tobey Maguire e per immagini da Sam Raimi. Insomma, Spider-Man 2, nella sua semplicità di blockbusterone estivo, è forse il perfetto film dell'Uomo Ragno. Meglio di così era davvero difficile fare.


Spider-Man 3 (USA, 2007)
di Sam Raimi
con Tobey Maguire, Kirsten Dunst, James Franco, Thomas Haden Church, Topher Grace, Bryce Dallas Howard

Il terzo episodio della serie paga un po' il desiderio di inserire sempre di più, senza tregua e senza ritegno, cercando di accontentare in tutti modi i fan e di accumulare scene d'azione a raffica. Ne viene fuori una sceneggiatura sfilacciata, senza particolari buchi o passi falsi, ma che fatica a tenere insieme l'abbondanza di temi e personaggi e finisce per trascurarne in buona parte l'approfondimento. E così ci ritroviamo per esempio con un Venom piuttosto sprecato e una Gwen Stacy messa lì tanto per far numero.

Eppure, nonostante questo e nonostante un Tobey Maguire inguardabile, che sembra in procinto di trasformarsi in un Tom Hanks del tutto privo di carisma, Spider-Man 3 funziona, grazie soprattutto alla bravura di Raimi, uno che, tocca ripeterlo, gira come quasi nessuno. La scena della gru, da sola, vale il film, ma in generale, di momenti registici in grado di giustificare la visione e rendere marginale qualsiasi difetto la pellicola possa avere, Spider-Man 3 è davvero pieno.

Inoltre Raimi riabbraccia in pieno lo spirito autoironico e irriverente del secondo episodio, mostrandoci per esempio un Peter Parker che, grazie all'influenza "potenziante" del costume alieno, non diventa uomo di successo ma si limita a convincersene, rimanendo però il solito ingenuotto. Per non parlare dell'ennesimo cameo di Bruce Campbell, brillantissimo come sempre. Comicità per lo più di grana grossa, forse anche mirata a un pubblico infantile, ma che in fondo rende ancor più palese l'intento di mantenere un'atmosfera sognante, fiabesca, fumettosa, tutto sommato anche molto riuscita.

Spider-Man 3 è un degno capitolo finale per una trilogia omogenea e riuscita, ma che aveva decisamente bisogno di concludersi. Chiude i fili lasciati in sospeso, mostrando qualche ruga di troppo, ma rimanendo nella sostanza sui livelli dei precedenti film. Ora bisogna passare ad altro, come del resto sembra dire lo stesso Raimi, chiudendo per la prima volta non sull'Uomo Ragno in volo fra i palazzi, ma su Peter e Mary Jane uniti in borghese.

A margine, devo ancora una volta sottolineare la mia ormai totale insofferenza nei confronti dei film doppiati. Zia May, che nei primi due episodi appena rivisti in originale mi era parsa un'adorabile vecchietta interpretata da un'attrice davvero brava, in italiano diventa una lancinante e insopportabile lagna. Gwen Stacy, la cui versione cinematografica già in partenza non è il più ricco e profondo dei personaggi, ottiene in regalo una cadenza da Valeria Marini sotto effetto di sostanze stupefacenti. Tobey Maguire viene graziato da una voce certo degna della faccia da frolloccone che si ritrova, ma davvero insopportabile. E via così, senza fine, e senza neanche stare a discutere di gioiellini come "silicone" (chi deve capire capisca) e altre perle del genere. Non ce la faccio più.

7.6.07

Più di un gioco


More than a Game (USA, 2001)
di Phil Jackson e Charley Rosen


Phil Jackson ha vinto dieci titoli NBA, uno da giocatore, coi New York Knicks, e nove da allenatore, con Chicago Bulls e Los Angeles Lakers. Charley Rosen è uno stimato giornalista e scrittore sportivo, reduce da una ben più discreta carriera di giocatore e allenatore. Entrambi amano visceralmente la pallacanestro, le hanno dedicato buona parte della propria vita e in Più di un gioco ne raccontano gioie e dolori.

Sorta di autobiografia a quattro mani, che ripercorre carriera e vita dei due autori dagli esordi all'inizio del nuovo millennio, Più di un gioco è anche una diario della seconda stagione di Jackson ai Lakers e (soprattutto) una dichiarazione d'amore nei confronti dell'attacco triangolo. Creato dal guru Tex Winter, il triangolo è stato ed è tuttora il cuore pulsante delle squadre allenate da Jackson, che in questo libro ne analizza a fondo i pregi, e ne racconta varianti, utilizzi e storia.

Più di un gioco, insomma, rappresenta un'affascinante finestra sulla filosofia totalmente unica di uno degli allenatori più vincenti di sempre, una preziosa fonte d'informazioni su un sistema di gioco che ha fatto la storia della pallacanestro americana e un appassionante racconto delle prime due incredibili e travolgenti stagioni di Jackson alla guida dei Lakers.

6.6.07

Piano 17


Piano 17 (Italia, 2005)
dei Manetti Bros.
con Giampaolo Morelli, Elisabetta Rocchetti, Giuseppe Solari, Enrico Silvestrin, Antonino Iuorio, Massimo Ghini

In seguito a un blackout, un impiegato di banca, una zoccoletta di banca e un uomo delle pulizie rimangono bloccati nell'ascensore del palazzo. Uno dei tre, però, nasconde con sé una bomba dal timer improvvidamente attivato prima di salire in ascensore. Il tempo scorre implacabile e i due complici dell'attentatore, appostati in macchina fuori dal palazzo, non sembrano voler cooperare. Da questo intrigante spunto di partenza, i Manetti Bros traggono un sorprendente esempio di cinema di genere italiano, capace di funzionare scimmiottando sì la cinematografia americana, ma senza per questo rinunciare alla propria identità nazionale (anzi, la cavalca in pieno e proprio per questo regala momenti di ottima scrittura, per esempio nel personaggio del complice napoletano).

Piano 17 paga forse un po' l'estrema colonizzazione cinematografica cui siamo sottoposti, che fa inevitabilmente sembrare fuori posto, perlomeno in questo genere di film, chiunque e qualsiasi cosa "parlino" italiano. E nonostante questo funziona benissimo, grazie a due registi molto bravi nel costruire le scene, nel far rendere i propri attori più di quel che valgono, nel raccontare per immagini una sceneggiatura di ferro, perfettamente dosata nei tempi e nelle trovate, e soprattutto nel riuscire anche a non prendersi troppo sul serio, chiudendo poi con quell'inserto musicale finale che riesce ad essere allo stesso tempo giusto complemento per le vicende e adorabile presa per i fondelli.

Certo non un capolavoro, men che meno un film privo di difetti (il budget ridotto, che pur rende ancor più lodevole il risultato finale, si vede tutto), ma sicuramente una bella sorpresa, nel desolante panorama del cinema di genere italiano contemporaneo.

5.6.07

Zodiac

Zodiac (USA, 2007)
di David Fincher
con Jake Gyllenhaal, Mark Ruffalo, Robert Downey Jr., Anthony Edwards

Nel raccontare i trent'anni di storia del tuttora aperto caso Zodiac, l'ultimo film di David Fincher prende come modello d'ispirazione palese e dichiarato Tutti gli uomini del presidente e ne ricalca lo stile freddo e asciutto, mostrando nel dettaglio le dinamiche d'investigazione ed evitando quasi del tutto il coinvolgimento emozionale. I tanti protagonisti non vengono raccontati come personaggi a tutto tondo e non vedono esplorati più di tanto i loro dubbi, le loro motivazioni, i loro sentimenti. Fincher si concentra sull'esposizione sistematica e discorsiva dei fatti, mantenendo le distanze da tutti e raccontando un'indagine lunga, estenuante, interminabile, che si protrae per decenni fittizi e due abbondantissime ore di grande cinema.

Ma nel farlo non adotta uno stile documentaristico, firmando anzi il film in maniera anche pesante, inserendo trovate molto particolari ed efficaci, realizzando - per esempio con l'interrogatorio a quattro e i vari attacchi del killer - una manciata di scene strepitose per tensione e capacità di colpire allo stomaco e condendo il tutto con una colonna sonora di rara efficacia. Ad aiutarlo degli attori forse ormai un po' troppo costretti a recitare bene o male sempre lo stesso ruolo, ma che d'altra parte si rivelano come al solito estremamente efficaci.

Lungo, estenuante e inconcludente come le indagini che racconta, Zodiac svolazza placido dalle parti del capolavoro, rapisce nelle maglie della sua algida detection e non molla per oltre due ore e mezza. Ennesimo centro per un regista che, pur fra alti e bassi, continua a mostrare un gran voglia (e una gran capacità) di reinventarsi continuamente.

3.6.07

Piccole modifichine


Ho ulteriormente modificato la colonna di sinistra, aggiungendo l'elenco dei diari di viaggio e separando i post dedicati ai singoli film da quelli "cumulativi" dedicati alle rassegne. Così mi sembra tutto più chiaro e consultabile, ammesso che a qualcuno possa interessare consultarlo.

1.6.07

:-0

La città proibita

Curse of the Golden Flower - Man cheng jin dai huang jin jia (Cina, 2006)
di Zhang Yimou
con Gong Li, Chow Yun-Fat, Chou Jay, Liu Ye, Ni Dahong, Qin Junjie, Li Man, Chen Jin

Con La città proibita Zhang Yimou abbandona in parte la grandiosa ed esagerata spettacolarità dei precedenti Hero e La foresta dei pugnali volanti per raccontare di un angoscioso e asfissiante dramma familiare in quel del palazzo imperiale cinese. Padri che rinnegano madri, che abbandonano figli, che tradiscono fratelli, in un turbinio di melodramma esagerato e strabordante, interpretato però da bravissime marionette senz'anima. Tanto è splendida, abbagliante, stordente, la ricostruzione di usi e costumi, del rispetto di regole e usanze forse troppo lontane per poterle comprendere appieno, quanto è fredda e vuota l'indagine sui sentimenti e le passioni dei protagonisti. E se da una parte è chiaro come ci sia del voluto, in questa asettica claustrofobia, volta forse a restituire l'allucinantemente vuoto dei rapporti familiari all'interno della città proibita, dall'altra a perderne è la potenza del racconto, che fatica a travolgere nonostante un eccesso di passioni, drammi e tragedie e una prova notevole di quasi tutti gli attori.

Rimane il gusto per una deliziosa ricerca cromatica, una messa in scena che è davvero gioia per gli occhi, e per battaglie ancora una volta impressionantemente belle, sia quando mostrano il felpato incedere dei guerrieri ombra al soldo dell'imperatore, sia nel dispiegare eserciti in guerra. E l'efficacissima rappresentazione di un vivere che difficilmente può essere considerato tale, racchiuso fra mura, pareti di carta e tende che opprimono le passioni e i sentimenti.

 
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