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27.11.07

Die Hard - Vivere o morire

Live Free or Die Hard (USA, 2007)
di Len Wiseman
con Bruce Willis, Justin Long, Timothy Olyphant, Maggie Q, Cliff Curtis, Mary Elizabeth Winstead


Quando, venti giorni fa, sono andato a vedere questo nuovo Die Hard, sono uscito dal cinema convinto di volerlo commentare sul blog con una specie di parodia, una presa per i fondelli sullo stile di quanto fatto con Episodio III. Di elementi da perculare ce ne sarebbero del resto non pochi: penso per esempio all'inascoltabile doppiaggio, al fatto che uno dei terroristi è identico a Roberto Donadoni e a tante altre cose che, già mentre guardavo il film, mi immaginavo parodiate. Però, ringraziando lo scazzo, sono appunto passati venti giorni e sinceramente non penso ne valga poi tanto la pena.

C'è comunque da dire che questo Die Hard 4.0 mi ha stupito, innanzitutto perché su Len Wiseman, dopo essere rimasto scottato dal soporifero Underworld, non avrei puntato un soldo. E poi, diciamocelo, la semplice solidità del primo Die Hard è ineguagliabile, anche per il posto mitologico che quel film occupa nell'immaginario collettivo e che gli proietta addosso meriti se vogliamo pure superiori al dovuto. Tant'è che i pur decorosi precedenti sequel vengono - forse ingiustamente - considerati inferiori, anche di ampie spanne.

Ed è pure tenendo in mente questo che considero decisamente riuscito il tentativo di Wiseman, autore di un action movie solido, efficace, divertente. Certo, più che in un regista obiettivamente anonimo e non confrontabile con un vecchio marpione come John McTiernan, i meriti del film stanno soprattutto in Lui. Bruce, uno che a cinquant'anni suonati tiene la scena come quando ne aveva trenta, anche se magari con un filo di atletismo in meno e un pizzico di granitica fisicità in più. Invade lo schermo col suo faccione e la sua presenza, domina il film e lascia gli spiccioli ai suoi compagni di sventura.

Gli sceneggiatori lo sanno e gli costruiscono tutto attorno, ricamando una lunga serie di scene in cui permettergli di sfottere i suoi avversari a suon di battutone e strizzare l'occhio "autocitandosi" senza tregua. Oltre a lui, comunque, sono efficaci un po' tutti i personaggi, a partire da un Timothy Olyphant che non ha il carisma elegante di Alan Rickman e Jeremy Irons, ma svolge bene il suo ruolo di impreparata vittima del sarcasmo di McClane. E poi ci sono una spalla giovane e simpatica, una figlia che si rivela personaggio azzeccato ed efficace contraltare alle battute del padre e una terrorista dagli occhi a mandorla insopportabile come il ruolo richiede.

Ma oltre all'azione spettacolare, devastante, completamente fuori dal comune e dal credibile, Len Wiseman si concede perfino di sbattere dentro al film qualche vago accenno di contenuto. Una lieve riflessione sullo scomparso eroismo, una fugace e magari anche involontaria simbolica genialata in quel trucchetto della Casa Bianca brasata al suolo, un banale ma sempre efficace contrasto fra il vecchio e romantico protagonista di celluloide e la nuova era digitale, nella quale il nostro eroe si trova inizialmente spaesato e impreparato, ma che alla fine sconfigge dall'interno, come e peggio di un virus informatico.

Insomma, i veri problemi di questo quarto Die Hard, al di là delle solite forzature di sceneggiatura che, purtroppo, sono ormai congenite nel genere "puttanatona hollywoodiana", vengono da fuori. Per esempio nel fatto che - prima volta nella serie - si è voluto schivare il rating R e, come suggerisce simpaticamente il sempre ottimo Roger Ebert, sembra di guardare la versione del film censurata per la proiezione in aereo. E poi c'è il doppiaggio.

C'è la scelta di voci una più sbagliata dell'altra, tutte distanti dall'originale come peggio non si potrebbe. C'è la figlia, che siccome è la figlia, deve avere la vocina, mica il vocione da scaricatore di porto della Winstead (che peraltro ben si adatta alla linguaccia del personaggio). C'è Kevin Smith che parla come lo stereotipo che interpreta, e ovviamente non può che avere quella voce. C'è John McClaine costantemente fuori giri, sopra le righe, che sbraita sempre, nonostante il Bruce in originale abbia sempre un tono calmo, duro, freddo. E ci sono una serie di volgari e tristi battute, inventate, infilate a caso, perfino in punti nei quali i personaggi dovrebbero starsene zitti, nate da non so cosa, anche se mi viene da pensare che si tratti di presunzione. Io al cinema a queste condizioni non so se ci voglio ancora andare.

26.11.07

The Prestige

The Prestige (USA, 2006)
di Christopher Nolan
con Hugh Jackman, Christian Bale, Michael Caine, Piper Perabo, Scarlett Johansson, David Bowie, Andy Serkis


Basato sull'omonimo romanzo di Christopher Priest, The Prestige mette in scena la rivalità ossessiva fra due uomini, avversari nella carriera di prestigiatori e nella vita, impegnati nello scontro fino al punto di vacillare sull'orlo del baratro e tuffarsi anche oltre. Dal romanzo mutua il racconto basato sugli scritti dei protagonisti, che svelano gli eventi appuntando la loro vita sulle pagine dei propri diari personali, portando quindi lo spettatore a credere - o non credere - alle parole di chi forse non è interessato a dire tutta la verità. Ne nasce una storia fatta di bugie e raggiri, nella quale si manifesta fin dall'inizio la voglia di giocare con chi guarda, raggirandolo e perculandolo proprio come in uno spettacolo di magia.

The Prestige si scopre fin da subito, spiega le tre fasi in cui si articola uno spettacolo e poi le abbraccia apertamente. Il vero show è il film, costruito come un numero che si sviluppa su più livelli, distraendo, rimescolando, creando dubbi e illusioni, aggiungendo elementi fuori dall'ordinario e preparando un gran finale scoppiettante. Nolan gioca sul tema del doppio, su quanto in là possa essere disposto a spingersi l'animo umano per ottenere ciò che cerca, e sugli abissi a cui il desiderio di rivalsa, la rivalità, la brama di successo possano spingere.

A far da spartiacque fra i suoi due Batman, insomma, Nolan gira un film più personale, per quanto comunque basato su un'opera altrui. Un film che va contro gli stereotipi hollywoodiani nel mostrarci due protagonisti dalla moralità sfumata, che difficilmente possono essere inquadrati come positivi o negativi e che si muovono spinti dalla rivalità, dal desiderio di successo, arrivando a compiere atti inaccettabili e a danneggiare chiunque stia loro attorno, oltre che se stessi. Due bei personaggi, insomma, interpretati da degli ottimi Bale e Jackman, che certo sfigurano di fianco al sempre impressionante Michael Caine, ma quantomeno tengono la scena meglio del barilotto dal cognome svedesoide.

E attorno a questi due personaggi Nolan costruisce un gioco a incastri, un film moderno e splendidamente raccontato, che si trastulla con il suo pubblico dall'inizio alla fine e propone un intreccio complesso e articolato. Quello di Nolan non è cinema didascalico, non offre la pappa pronta, sciorina invece misteri e ombre, sui quali lo spettatore è portato a riflettere e interrogarsi. È insomma un cinema intelligente e raffinato, che ha forse l'unico limite di essere un po' asettico e poco propenso al melodramma.

Nolan pare interessato alla sola costruzione del racconto, realizza un film di genere che non propone riflessioni di peso e non impone "messaggi" d'autore. E se questo non deve per forza essere considerato limitante, è già più difficile non dare importanza a una certa mancanza di "stomaco". The Prestige, pur mettendo in scena tragedie e drammi terrificanti, non colpisce nelle budella e scorre via distante, forse proprio per il suo non voler concedere neanche un po' di fascino eroico ai dannatissimi Borden e Angier. Visto chi è il regista, era difficile immaginare il contrario, eppure un pizzico di insoddisfazione rimane lo stesso.

19.11.07

La settimana a fumetti di giopep - 19/11/2007

La settimana a fumetti è finita nel vortice d'inedia che ha colpito il blog di recente e putacaso questo è avvenuto proprio quando sono passato in fumetteria e ho portato a casa un paio di quintali di carta. Il risultato è che ho una marea di cose da raccontare. Pensavo di limitarmi solo ad alcune, ma alla fine mi sono fatto prendere dalla logorrea e ne ho segate giusto un paio per sfinimento o per manifesta inutilità. A voi.

52 #8/13 ***
Ok, lo ammetto, andando avanti il meccansimo che sta dietro a 52 mi sta prendendo. La curiosità di scoprire nei dettagli cosa si sono inventati per questo anno "mancante" di universo DC non poteva che fare breccia nel mio cuoricino di amante del seriale e della continuity. Ma è una buona storia? Sinceramente non credo. E, ribadisco, non è esattamente quello che mi aspetterei da Geoff Johns, Grant Morrison, Greg Rucka e Mark Waid messi assieme. E poi, diciamocelo, non è un po' stancante questa svolta iperdrammatica, forzatamente tragica, sempre volta al peggio che ha preso l'universo DC?

Aquaman - La spada di Atlantide ***
Un prodotto onesto, poco più che mediocre, che - come spesso accade - prova a rilanciare un personaggio storico facendone vestire i panni da una nuova identità. Non stravolge e non colpisce, ma non si può certo dire che sia realizzato male. E poi, diciamocelo, al confronto di porcate come il nuovo Flash, sembra quasi un capolavoro.

Batman #3/6 ****
Catwoman #2 ****
Nightwing #1 **
Robin #1/2 ****
Davvero notevole, la "Batman Family" del dopo Infinite Crisis. Interessante l'idea del figlio di Bruce Wayne, del rapporto conlittuale col padre e dell'ovvia rivalità con Robin. Intensa e appassionante la serie del ragazzo meraviglia, come raramente era stata in passato, e piacevole come al solito Catwoman, anche lei alle prese con le gioie e i problemi dell'avere un poppante in casa. Delude solo Nightwing, abbastanza stucchevole e "vecchio". Marv Wolfman e Dan Jurgens son due nomi storici, ma a legger questa serie sembra davvero che non abbiano più nulla da dire.

Checkmate #1 ***
Giovani Titani #2/3 ***
Cospirazioni, tragedie, personaggi scivolati nel lato oscuro, drammi dietro ogni angolo. L'ho detto e lo ripeto: a me questa nuova DC super dark non è che faccia impazzire.

Dampyr #91: "I cacciatori del sogno" ***
L'ennesimo discreto Dampyr, che si lascia leggere senza travolgerti e che ti incuriosisce con il suo affondare le mani in miti locali oscuri e poco noti (stavolta si parla di stregonerie assortite in Corsica).

Death Note #7 ****
Sempre più appassionante e sorprendente, col settimo volumetto Death Note compie ancora una manciata di svolte a sorpresa, ammazza un altro paio di personaggi, cambia di nuovo le carte in tavola (anzi, cambia proprio mazzo). Tsugumi Ohba non ha proprio paura di niente e non si ferma davanti a nulla. Complimenti, davvero.

Fantastici Quattro #276 ***
L'Uomo-Ragno #470 ***
Gli ultimi scampoli di Guerra Civile si segnalano per una simpatica rissa fra Ercole e "Thor" nelle storie di Pantera Nera e un'apparente svolta nella vita di Peter Parker, personaggio stravolto se ce n'è uno dagli eventi dell'ultimo mega crossover. Non so come le cose siano andate avanti, perché in fumetteria mi han saltato un numero e son fermo a prima di Back in Black. :D

Jenny Sparks ****
Una bella miniserie, che racconta la graffiante "carriera" di Jenny Sparks e la sua vita nell'arco di tutto il secolo, tappando i buchi e facendo luce sui punti oscuri. Ha forse il solo limite di essere espressamente dedicata a chi ne ha seguito le avventure su Authority: per chiunque altro dubito abbia molto senso.

Justice #1 ****
Suggestivo e affascinante come tutti i fumetti disegnati da Alex Ross, Justice spinge ovviamente il pedale sul senso di meraviglia e sulla potenza grafica che i giganti del fumetto supereroistico sono in grado di scatenare. La storia si incentra su un tema abbastanza ricorrente nelle serie DC recenti, mostrando i suoi eroi in preda alle tragiche conseguenze di un possibile fallimento su scala globale. A raccogliere i cocci, anzi, a impedire che ci siano cocci da raccogliere, ci pensano i supercriminali, ovviamente capeggiati da Lex Luthor. L'inizio è promettente, vediamo come va avanti.

Manhunter #8/10 ****
Dopo un momento di calo, Manhunter chiude (per scarse vendite) tornando sui livelli piacevoli del pre-Crisi. Una serie tutt'altro che perfetta, soprattutto rivedibile nei disegni, ma che mi ha rapito con la sua voglia di pescare nel torbido e affascinato coi suoi protagonisti dalla dubbia moralità. Non ho capito se alla fine la pubblicazione in America è stata ripresa, ma sinceramente spero di sì.

Naruto #33 ***
Un po' Dragonball, un po' Ushio & Tora, un po' qualsiasi altra roba per ragazzi pubblicata in Giappone negli ultimi vent'anni, Naruto sta un po' esaurendo il credito conquistatosi grazie al bello stile pulito e alla simpatia dei personaggi. Ho voglia di vedere come si chiuderanno le vicende, ma comincio anche a stancarmi un po'.

Outsiders #2/3 **
Sinceramente mi sembra che le intenzioni di Outsiders vadano un po' oltre le capacità di chi tiene le redini della serie. Sembra la versione scema di Authority.

S. *****
Al secondo tentativo, finalmente mi faccio convincere da Gipi. Rispetto ad Appunti per una storia di guerra, qui latitano i poetismi forzati e c'è invece gran scrittura, voglia di raccontare un'intensa storia di rapporti famigliari con uno stile intenso e particolare. Splendidamente narrato, toccante, meraviglioso anche solo da sfogliare per immergersi nelle bellissime tavole di Gipi. Ora sì che ne voglio un altro.

Squadron Supreme: Hyperion vs. Nighthawk ****
Una riflessione sul potere assoluto e sui modi più o meno leciti di metterlo in pratica. Bello, bello per davvero, ma ultimamente nei fumetti di supereroi non si parla quasi d'altro. E che palle!

Supergirl e La Legione dei Supereroi #2/4 ***
Continuo a non capire se e quanto questa serie mi piaccia. I toni stralunati e sognanti sono quasi adorabili, ma c'è qualcosa - saranno i disegni, sarà la sovrabbondanza di personaggi - che non me la fa amare fino in fondo. Comunque, voglio andare avanti.

Thor & I Nuovi Vendicatori #103 ****
Bella davvero, questa serie dedicata agli Illuminati, che rilegge sotto una luce diversa gli avvenimenti più importanti della storia Marvel. Belle storie, bei dialoghi, bei disegni. Detto questo, tocca notare come anche l'universo di Spidey e compagni stia vacillando sempre più pericolosamente sull'orlo del baratro iperdarkeggiante. Ma per il momento non siamo ancora oltre il livello di guardia, via.

Tribeca Sunset *****
Una bella, intensa e toccante storia, che parla con due approcci diversi della New York del prima, durante e dopo 11 settembre 2001. Un racconto autobiografico su quel folle giorno, narrato da un autore che ha vissuto il crollo delle Twin Towers da non troppo lontano, e un episodio su quattro amici che s'incontrano a New York pochi mesi dopo. Semplice e commovente, senza doverti schiantare in faccia la poesia a tutti i costi. Questo è il fumetto d'autore che piace a me.

Ultimate Spider-Man #53: "La saga del clone #2" ****
Ma che bella, questa saga del clone in versione Ultimate! Piena di spunti interessanti, con ancora una volta tanti temi bene o male storici dell'Uomo Ragno classico rielaborati e riarrangiati in maniera intrigante e nuova. E poi che ritmo, che capacità di tenere incollati alla pagina! Bendis, su questo genere di storie, sbaglia davvero poco.

15.11.07

Dante's Equation

Dante's Equation (USA, 2003)
di Jane Jensen


Nel 1999 Jane Jensen aveva realizzato, in versione digitale e con quattro anni di anticipo, Il codice da Vinci. Si chiamava Gabriel Knight 3 ed era un videogioco. Un'avventura grafica, per la precisione. Rispetto alla merda fumante di Dan Brown, il gioco della Jensen aveva il pregio di essere scritto gran bene e, incidentalmente, finì anche per rappresentare uno degli ultimi grandi esemplari nel suo ancora oggi agonizzante genere. Otto anni dopo, la cara Jane sta per tornare sulla scena dei videogiochi col promettente Gray Matter, ma nel frattempo non se n'è stata con le mani in mano e ha pubblicato le "novelization" dei primi due Gabriel Knight e due romanzi: il divertente Judgment Day e questo ottimo Dante's Equation.

Le prime trecento pagine di Dante's Equation sembrano, sostanzialmente, una variazione sul modello Dan Brown, con intrighi sociopolitici che ruotano attorno a clamorose scoperte scientifiche, strampalate teorie religiose, pericolose cospirazioni governative e gran girandole di eventi avventuosi. In più, rispetto alla pattumiera di chi sappiamo, hanno il notevole pregio di essere leggibili. Ma non basta: quella che per metà libro si evolve come una storia piacevolissima, ma tutto sommato abbastanza già vista, prende poi un'improvvisa piega fatta di delirio.

La Jensen, infatti, apre improvvisamente le porte a una serie di universi paralleli, in cui le leggi del bene e del male si comportano in maniera diversa rispetto al nostro e nei quali la fantasia dell'autrice statunitense può scatenarsi. Ci si ritrova così in mondi futuristici devastati dal troppo bene, in asettiche e distorte società orwelliane, in mondi selvaggi popolati da creature longilinee e mostri selvaggi, in regni demoniaci nei quali esseri indescrivibili vivono all'insegna del male puro.

Un viaggio allucinante dal quale sembra non esserci uscita e che rappresenta un metaforico specchio in cui i protagonisti osservano la loro anima. Dante's Equation è uno splendido romanzo del fantastico, che si evolve grazie ai suoi personaggi e alla profondità con cui vengono tratteggiati, che affonda le mani in spiegazioni scientifiche oltre il limite dell'assurdo e le rende intrigante fiaba. È l'ennesima dimostrazione di come sia possibile scrivere ottima narrativa di genere senza scivolare nel patetico, senza limitarsi a far finta di essere intelligenti.

14.11.07

Heroes - Stagione 1

Heroes - Season 1 (USA, 2006/2007)
creato da Tim Kring
con Jack Coleman, Hayden Panettiere, Masi Oka, Sendhil Ramamurthy, James Kyson Lee, Greg Grunberg, Milo Ventimiglia, Adrian Pasdar, Ali Larter, Noah Gray-Cabey, Zachary Quinto, Leonard Roberts, Santiago Cabrera


È difficile osservare l'apocalittica profezia dipinta da Tim Sale nei quadri che appaiono in Heroes e non pensare alle Torri Gemelle, a quanto la narrativa di genere (e non solo) americana sia stata e continui ad essere influenzata da quel tragico evento. E d'altra parte il terrore di una possibile, colossale, esplosione nel centro di Manhattan non può che essere e rimanere vivo nel cuore e nella testa di tutti. Al punto di colpire e ritrovarsi evocato anche nella testa di uno spettatore lontano e che certo non ha vissuto tanto da vicino quei momenti. Magari a Tim Kring, Jeph Loeb e compagni non interessava rievocare il World Trade Center, magari sì, ma di sicuro, perlomeno nella testolina del sottoscritto, l'hanno fatto.

Di buono c'è che nel farlo hanno aggiunto un seducende strato d'inquietudine a una serie comunque già interessante per altri motivi. Heroes è un riuscito tentativo di mettere (più o meno) su pellicola la narrazione seriale a fumetti americana. Si appoggia sul format televisivo per fare ciò che con un film non sarà mai possibile, raccontando una storia ad ampio respiro, fatta di tante piccole sottotrame che crescono piano piano, sedimentando, finendo poi per esplodere quando i fili che le collegano vengono improvvisamente strattonati.

Heroes mostra il suo DNA in maniera esplicita, quasi dozzinale se vogliamo, nel didascalismo con cui spiega la sua natura di polpettone adolescenziale e fumettistico. Riempie le immagini di colori saturi e dirompenti, appiccica lettering da nuvolette per dare il la ai suoi episodi, parla (ultimo arrivato dopo decine di altri) di un mondo in cui tanti individui sviluppano improvvisamente, e tutti assieme, poteri fuori dall'ordinario.

Racconta tutti quei temi che da sempre caratterizzano questo genere di narrativa, parlando di paura dell'ignoto e del diverso, di possibili tragici futuri e dell'eroe potenziale nascosto in ognuno di noi, ma anche dell'inevitabile possibilità che l'afflato eroico venga corrotto e portato agli estremi opposti. Tesse trame e cuce fili che si sviluppano lentamente, per poi accelerare improvvisamente in un crescendo vertiginoso.

Il primo vero limite di Heroes sta proprio in questo suo sviluppo "diesel", che fa trascorrere quasi una decina di episodi accumulando carne al fuoco prima di prendere sul serio il via. Un limite di struttura, insomma, programmatico, che però toglie un po' di mordente a un meccanismo narrativo non in grado di reggersi sul singolo episodio. Là dove un Battlestar Galactica, così come i rimpianti serial di Joss Whedon, riesce a coniugare le esigenze dell'appuntamento settimanale autoconclusivo con quelle del tassello di un grande mosaico, Heroes raramente regala un senso compiuto al singolo episodio.

Il ciclo narrativo che va a costituire la prima stagione, però, al di là di qualche forzatura funziona bene, grazie anche ai valori di produzione elevati, ai tanti ottimi caratteristi che riempiono la scena e a qualche idea interessante, capace di convincere anche lo scettico fumettaro convinto di non poter essere sorpreso dall'ennesima storia di supereroi. Delude forse un po' solo un episodio finale obiettivamente sgonfio, loffio, specie dopo il bel crescendo che lo precede. Ma la voglia di andare avanti c'è, nonostate un cliffhanger che sembra davvero tirato via.

Heroes, insomma, è una bella sorpresa, un serial che riesce ad essere sufficientemente maturo pur nel suo palese strizzare l'occhio all'adolescente un po' nerd, tirandogli di gomito con un personaggio - simpaticissimo - "diverso" e sognatore, appassionato di fumetti e di Star Trek, perfino figlio del tenente Sulu. Un prodotto onesto e riuscito, ampie spanne sopra all'inguardabile 4400, che al contrario prova a mirare ben più in alto e, per quel che ho visto, fallisce miseramente.

Ah, la versione in HD-DVD di Heroes è davvero notevole. Paga il classico difetto di tutte le serie in DVD, mostrando un po' troppa grana a video in alcune scene, ma complessivamente la visione è spettacolare, con immagini definite e coloratissime, che ben si adattano ai toni fantastici della serie. In più gli extra sono tanti e tutti molto gustosi, anche perché sfruttano bene le potenzialità del nuovo formato. Se non interessa l'audio italiano, la straconsiglio, che tanto la versione americana funziona anche da noi e costa meno.

8.11.07

Ratatouille

Ratatouille (USA, 2007)
di Brad Bird
con le voci di Patton Oswalt, Ian Holm, Lou Romano, Peter O'Toole, Janeane Garofalo, Brad Garrett, Brian Dennehy


Nato come primo lungometraggio da solista per Jan Pinkawa (che in passato aveva diretto l'ottimo cortometraggio Geri's Game), Ratatouille ha goduto dell'essere stato raccolto in corsa dal talentuoso Brad Bird. E il regista de Il gigante di ferro e Gli Incredibili ha dimostrato ancora una volta di essere il più "grosso" autore sulla piazza dell'animazione occidentale.

Pur non scaturito dalla sua testa, Ratatouille porta chiaramente impresso il suo marchio, fatto di narrazione per adulti tenera e ammiccante, che ipnotizza il bambino ma solo di fronte a un pubblico maturo svela tutte le sue carte. Bird parla un linguaggio semplice e al tempo stesso articolato, mette in scena ratti che si muovono in branco con dinamiche schifosamente credibili e cucine organizzate in maniera realistica. Dipinge una storia dai toni fiabeschi ancorandola alla realtà, rendendola divertente e colorato luna park ma anche solido e maturo racconto.

Ratatouille schiva poi il classico buonismo Disneyano in maniera mirabile, senza aver per questo bisogno di ricorrere a rutti, scorregge e citazioni stantie. Bird non prova a raccontarci che chiunque può farcela, ma inneggia anzi al valore del talento, potenzialmente di tutti, effettivamente di pochi. Mostra un personaggio che, come spesso accade, sceglie di aprirsi, mettersi a nudo, raccontare la verità... e per questo finisce abbandonato malamente dai suoi amici. Chiude con un lieto fine rassicurante, ma che giunge solo dopo un atroce fallimento, materiale se non morale. Insomma, va perfino oltre il già lodevole anticonformismo che da sempre caratterizza i film Pixar.

Anticonformismo che si manifesta anche nelle scelte visive, nel mettere in scena ratti (ratti, non topi, RATTI) parlanti che meno umanizzati di così sarebbe stata davvero dura, nella regia ricercata e virtuosa, al suo apice in quella musicale e meravigliosa scena della scoperta di Parigi. Ratatouille è una gioia per gli occhi non solo per la strepitosa tecnologia, ma per il gusto con cui viene utilizzata, per il taglio registico moderno e ricercato, per la capacità di far recitare i personaggi in maniera efficace e deliziosa.

Remy occhieggia e si esprime con piccoli gesti e sguardi significativi, recita senza mai andare sopra le righe e interpretando il suo personaggio in maniera incredibile. E tutto questo avviene grazie a un'attenzione per il dettaglio viva in tutti gli aspetti del film, a partire dalle trovate di sceneggiatura, dal modo in cui con piccoli accorgimenti anche le situazioni più assurde vengono rese coerenti e credibili. Ratatouille, insomma, è un grandissimo film, poetico, appassionante, divertente, che ha forse il solo "difetto" di partire da premesse non proprio originali, ma anche la saggezza di svilupparle in maniera tutt'altro che canonica.

 
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