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27.6.10

Court 18


La brutta gente di it.fan.studio-vit discute del match-monstre che ha recentemente scioccato il mondo. Il post vede l'appassionato rispondere allo scettico tifoso di calcio e riguarda la seconda giornata di gioco, quella che ha portato alla notorietà internazionale due anonimi muratori del circuito ATP, quindi non è aggiornato al risultato finale.
Ma anche chissenefrega, 118 game offrono già abbastanza motivazioni e materiale.

Il 24/06/2010 0.28, AlexBi ha scritto:
> Escludiamo tassativamente la possibilità che abbiano deciso di entrare
> nella storia (unico modo possibile per questi due) con un accordo magari
> tacito?


Alexbi, io capisco che tu sei abituato alle biscottate, alle moviole di
Varriale e agli arbitri chiusi nello spogliatoio.

però perdio.


questi due sono entrati in campo alle 14 per concludere SOLO il quinto
set. Campo 18, certo del fatto che tu non ci sei mai stato te lo
descrivo: tre o quattro file di panche laterali e un pò più di spalti
sull'out, ma insomma, 200 persone in tutto.


Mi piacerebbe descrivere gli spalti come spogli, ma mentirei. Erano
pieni come lo sono sempre, pieni di economici biglietti da 20 sterline,
con il bicchierino in carta di starbuck ripieno di caffè, nel caso il
match si rivelasse monotono.


Nessuno ha sentito il bisogno di caffeina già sul 15 pari, accolto da
un timido mormorio del pubblico. guerra di Ace, niente di
trascendentale, però sticazzi.


Sul 25 pari nei corridoi alberati, tutti verdi e puntellati di violette
ha iniziato a circolare questa voce riguardo ad un match tiratissimo sul
18, un match tra lungagnoni che non si brekkavano mai. Clerici sul 203
ha riportato la cosa, dicendo a Tommasi "io mi sposto di là"


Mi sono spostato anche io, con il tastino (indovina) verde, e ho visto
le guardie che contravvenevano alla regola dello star seduti, facendo
accalcare la gente sugli scalini. Sul 32 pari il brivido: due match
point annullati. sul 40 pari la maglietta di Isner era fradicia come lo
sono solo le magliette delle tettone nelle feste sulla spiaggia.


Sul 47 pari il tabellone ha smesso di funzionare e Mahut si è sbafato un
sandwich e una banana mentre il pubblico faceva la fottuta hola.


Isner ha iniziato a trascinare i piedi come se fosse in preda ad un
crollo verticale della pressione, pallido, fradicio. Poi
sistematicamente arrivava il "Quiet please" imposto dall'arbitro e bum! vai
con quattro sabongie di servizio.


Verso il 50 pari c'è stato uno scambio lungo qualcosa come 20 colpi, il
più lungo del... quinto set e sugli spalti si è passati dall'apnea alla
standing ovation corredata di "Center court! Center court!"


Sul 51 pari la TV nel gentlemen's quarter era affollata di gente che
avrebbe dovuto preoccuparsi del proprio match, invece faceva il tifo.


Sul 54 pari un cliente americano mi ha affiancato davanti al plasma del
Bar guardando il punteggio. Ha preso il telefono e chiamato una voce
femminile dicendole che a Wimbledon due tizi "are playing an
unbelievable tiebreak, they're tied at 54!"

"it's not the tiebreak, sir"

"what?"

"there's no tiebreak in the fifth, you know, it's Wimbledon"

La sua memorabile espressione mi ha accompagnato fino al 55 pari, e li
mi sono messo a pensare a Mahut, che serviva per secondo da 6 ore e passa.


AlexBi, hai presente come ci si sente a servire nell'ultimo gioco del
set, quando sai che se ti brekkano è finita?

Do per scontato che non lo sai, e te lo spiego: ti senti teso, il
braccio è più rigido, le gambe pure. Pensi al fatto che non ci vuole un
cazzo a fare doppio fallo, e tiri più piano la seconda, più alto il
diritto, più lento il rovescio. pensi che tutta la fatica può non essere
servita ad un cazzo se giochi male 4 punti del cazzo.


E se lo tieni, il servizio, magari dopo aver combattuto qualche 15, ti
gasi un pò. tiri su un pò il pugnetto, ti godi la soddisfazione di un
lavoro fatto bene, ti metti di buzzo buono sulla risposta successiva.


E ho pensato a cosa doveva passare nella testa di questi due nel vedere
gli spalti riempirsi come mai in vita loro. nel leggere un numero che
nessuno aveva mai letto, nel far girare tutti i decoder del mondo sul
campo 18, opzione nascostissima, quattro panche, molte violette.

59 pari, doppio fallo di uno dei due, poco importa sapere chi, Match
point. Il sole basso che che ammanta di arancio i due cowboy dal
grilletto facile, è tempo di abbassare il sipario dell'unico match della
storia del campo 18 ad essere finito sul megaschermo della Aorangi
Terrace, anni fa chiamata Henman Hill, oggi soprannominata Murrayfield.


Ace.


"I want to play, but i can't see". Quando il giudice dalla giacchetta
bordata di bianco ha concordato che era davvero troppo buio e la
diatriba andava risolta il giorno successivo queste due corde di violino
stremate da sette ore di Tennis certamente non bello ma in qualche modo
magnifico non si sono strategicamente ignorati, o nascosti dietro ad un
rigido silenzio.


Hanno imboccato, claudicanti e sommersi da un boato, il corridoio con la
scritta di Kipling e, buffetto sulla spalla, "bella li, cazzo, come la
stai giocando"


Domani alle 16.30. Campo 18, ovviamente.

21.6.10

Il mondo dei replicanti

Surrogates (USA, 2009)
di Jonathan Mostow
con Bruce Willis, Radha Mitchell, Rosamund Pike, James Cromwell


Per essere un film di Jonathan Mostow (colui che ha trasformato John Connor in un bocchinaro), Surrogates è molto meno peggio di quanto temessi. Certo, le scene d'azione sono piatte e noiose come al solito, ma la traduzione in pellicola dell'immaginario visivo creato da Robert Venditti e Brett Weldele è abbastanza intelligente, per quanto magari non troppo originale, e il filmetto scorre via piacevole e robusto dall'inizio alla fine, sfruttando decentemente l'idea di base e concedendosi perfino un paio di belle immagini.

Di discutibili, al limite, ci sono alcune scelte d'adattamento. Che il lavoro sulla creazione di documenti, articoli e pubblicazioni svolto per il fumetto venisse semplificato e, in sostanza, limitato al solo prologo, era prevedibile e comprensibile. Che ci fossero tanti piccoli cambiamenti nello sviluppo delle situazioni, pure, ci sta, anche se semplificazione del profeta rasta e l'inserimento a forza della detective gnocca fanno un po' storcere il naso. A darmi davvero fastidio, però, sono un altro paio di aspetti.

Nel fumetto, l'arma che mette fuori uso i surrogati non frigge i proprietari. E del resto, mi sembra pure normale: se vuoi riportare il mondo a com'era prima, che senso ha ammazzare tutti? Nessuno. Ma nel mondo dei film di Hollywood servono cattivi netti e psicopatici da combattere, gente pronta a macellare tonnellate di esseri umani e, soprattutto, a esibirsi in monologhi da supercattivo. E poi c'è quell'altro cambiamento nel finale, molto ma molto ma molto ma molto meno cupo e disperato che nel fumetto. Perché a Hollywood c'è speranza, mica dannazione. E insomma, non è che diventi tutto brutto, però ne perde proprio tanto, di mordente.

Il film l'ho visto in lingua originale, ma la cosa mi sembra abbastanza ininfluente. Poi vai a sapere, magari l'hanno tradotto di merda.

18.6.10

How I Met Your Mother - Stagioni 1/3

How I Met Your Mother - Seasons 1/3 (USA, 2005/2008)
creato da Carter Bays e Craig Thomas
con Josh Radnor, Jason Segel, Cobie Smulders, Neil Patrick Harris, Alyson Hannigan, Sarah Chalke, Ashley Williams e la voce di Bob Saget


Il mio rapporto con How I Met Your Mother ha avuto inizio poco più di un anno fa, su Facebook. O forse su MSN, o su Skype, o su qualche altro maledettissimo strumento per la comunicazione internettiana. Insomma, il punto è che qualcuno (Pesanze?) mi ha citato una frase di Barney, io sono andato a cercarla su Google e improvvisamente mi è spuntato fuori un nuovo mondo, tutto a firma Youtube. Nelle settimane successive mi sono fatto una cultura sull'argomento, guardandomi praticamente tutti gli sketch (tratti per lo più dalle prime tre stagioni) disponibili sulla malefica centrifuga video, e l'amore è scattato inarrestabile.

Da lì all'acquisto del cofanetto della prima stagione durante il viaggio all'E3 2009 il passo è stato molto breve. Breve quasi quanto l'infilare il primo DVD nel laptop durante il volo di ritorno dagli USA e ritrovarmi a guardare così, al volo, senza soluzione di continuità, i primi otto episodi in fila. Scoprendo una serie piacevolissima, dallo spirito simpatico e sbarazzino, che mescola umorismo delirante, romantici intrecci amorosi e chiacchiere al bar per dare vita, se vogliamo, a una specie di versione aggiornata agli anni attuali di quel fenomeno che fu Friends. Però con Barney.

No, perché, capiamoci, la chiave di How I Met Your Mother non è certo il tedioso racconto delle vicissitudini sentimentali di Ted (che racconta ai suoi figli come ha conosciuto sua madre, impiegando stagioni e stagioni di telefilm per farlo), ma quell'adorabile personaggio di Barney Stinson, interpretato da quell'altrettanto adorabile attore di Neil Patrick Harris. E, con tutto il rispetto, la stima e l'affetto per Chandler Bing, siamo su un altro pianeta.

I momenti più divertenti di How I Met Your Mother sono quelli in cui viene dato libero sfogo all'amabile sciupafemmine, alle sue assurde leggi di comportamento, al Bro Code (che ovviamente ho in libreria) e all'assurdità dei suoi amici. Seppur dominato da Barney, comunque, è tutto il cast ad essere veramente azzeccato e a funzionare alla grande, dando vita alla serie grazie ai comportamenti assurdi, alla ricerca della battuta più bella, al modo in cui i rapporti si evolvono senza evolversi veramente mai. Perché poi alla fin fine il telefilm funziona nel suo prendere amorevolmente in giro proprio le relazioni interpersonali, il modo in cui funzionano e si strutturano, il "romanzo di formazione" di Ted.

Detto questo, e detto che tutto sommato ci si accontenterebbe delle gag, è vero anche che How I Met Your Mother funziona al meglio quando riesce a fondere per davvero la natura casinista del suo spirito più goliardico con l'evoluzione del racconto, la crescita dei rapporti interpersonali fra i personaggi e l'avanzamento della missione di Ted. Il conflitto a due vie della prima stagione è infatti un motore fenomenale, tanto quanto è evidente la battuta d'arresto nel momento in cui, per buona parte del secondo anno, il motore s'inceppa di fronte alla staticità del rapporto fra Ted e SPOILER. E così come non è casuale se la terza stagione torna nuovamente a brillare perché libera da quel peso, che comunque ci si doveva togliere. Certo, poi lo fa pure grazie ai nuovi personaggi, alle trovate continue, all'inventare e reinventare sguardi sul passato, al continuo giocare sulla differenza di percezione – un tema che torna e ritorna continuamente, dall'inizio alla fine dell'annata tutta – e alla graduale introduzione di Stella. Che a me non piace, sia messo agli atti.

Le prime tre stagioni me le sono guardate in DVD, qualcuno zona 1, qualcuno zona 2. Ci sono un sacco di begli extra, tipo i video di Robin Sparkles, le scene dal matrimonio, gli attori che fanno i pirla sul set... certo, è tutta roba che sta pure su Youtube. Importanza di guardare questa serie in lingua originale? Su, dai, è una commedia piena di giochi di parole, in cui uno dei personaggi è canadese – e viene preso in giro per questo – e uno è Neil Patrick Harris. Fra l'altro la versione italiana si chiama E alla fine arriva mamma.

16.6.10

Cannes a Milano 2010


Tre soli giorni, ma sfruttati al massimo, con solido impegno stakanovista, guardandomi tutto ciò che c'era a disposizione, anche se in effetti non era poi tantissimo: tre per tre, nove visioni. Fra cui però anche qualche premio, tipo la Palma d'oro. Palma d'oro che non mi è piaciuta molto e mi ha anzi spaccato davvero tanto le palle, nonostante quel fascino bizzarro delle cinematografie lontane, esotiche e con gli uomini scimmia pelosi dagli occhi rossi. D'altra parte non lo scopro certo oggi che io e Tim Burton siamo ormai di sensibilità piuttosto diversa.

Un Certain Régard
Chatroom (Gran Bretagna)
di Hideo Nakata
con Aaron Johnson, Imogen Poots, Matthew Beard

Vai a vedere il nuovo film di Hideo Nakata, che è pur sempre il regista del primo Ringu (certo, anche del secondo Ring), e un pochino sei curioso. Poi scopri che è una produzione inglese, quindi magari un po' più indipendente e libera dallo smarronamento dei produttori hollywoodiani, e ti cresce pure la fiducia. Poi guardi la prima mezzoretta e, seppur i segnali di catastrofe imminente si accumulino uno dietro l'altro, ti compiaci delle scelte di regia assai riuscite con cui viene messo in scena il molesto atto del chattare. Purtroppo, però, Chatroom non è un cortometraggio da venti minuti. Purtroppo va avanti e diventa il solito tremendo filmetto horror giovanile, con un cattivo squallido e dannato, uno sviluppo scontatissimo e un agghiacciante crollo finale nel patetico. Pazienza.

Quinzaine des Réalisateurs
All Good Children (Irlanda/Francia)
di Alicia Duffy
con Jack Gleeson, David Wilmot, Kate Duchène, Thierry Waseige

Un film per ragazzini in cui dei ragazzini si comportano da ragazzini facendo cose che hanno davvero poco senso. Sconclusionato e un po' ridicolo, con una svolta da film verità sanguinario del giovedì sera su Rete 4 e un taglio pretenzioso-poetico da Peter Jackson dei poverissimi, fondamentalmente brutto.

Quinzaine des Réalisateurs
Boxing Gym (USA)
di Frederick Wiseman

Un documentario dedicato a una palestra di pugilato nel profondo Texas, che non racconta una storia o un tema particolare, ma si limita a mostrare brani di giornate trascorse in quel luogo. Allenamenti, chiacchiere, gente che tira pugni, gente che si rilassa, personalità esposte al sole, manifesti che raccontano vite, Richard Garriot che si sistema i guanti e si prepara all'allenamento con addosso la maglietta di Lineage 2. Cose così, teoricamente noiosissime, all'atto pratico ipnotiche e affascinanti.

Quinzaine des Réalisateurs
La casa muda (Uruguay)
di Gustavo Hernández
con Florencia Colucci, Gustavo Alonso, Abel Tripaldi

Ci sono film, tipo quello con quell'attore pelato, che puntano tantissimo sul colpo di scena finale, ma sono costruiti talmente bene da funzionare alla perfezione ed essere spettacolari anche da guardare una seconda volta per andare a scovare tutti i piccoli dettagli, tutti gli indizi e tutti i modi in cui le cose tornano senza contraddizioni. Poi ci sono film, tipo quello con la rossa, che funzionano più o meno allo stesso modo, ma insomma, il colpo di scena alla fine è girato in maniera un po' pacchiana e ti fa cadere le braccia. Ci sono anche film in cui il colpo di scena stona un po', e in retrospettiva non è che torni esattamente tutto alla perfezione. E, magari, il colpo di scena in sé fa un po' schifo. Tipo quell'altro film là francese con l'assassino. E poi ci sono film che ti prendono per il culo. Quelli in cui il colpo di scena sbugiarda tutto quello che ti è stato detto e fatto vedere fino a quel punto, perché tanto si può fare, no? E lì, insomma, un po' ti incazzi. Al punto che ti passa pure la voglia di apprezzare la bella tecnica con cui un racconto fatto di soli stereotipi horror viene assemblato a colpi di interminabili piani sequenza. Gustosi, affabulanti, seducenti. Ma che ti stavano prendendo per il culo.

Selezione ufficiale - Concorso
Another Year (GB)
di Mike Leigh
con Jim Broadbent, Imelda Staunton, David Bradley
Menzione della giuria ecumenica

Mike Leigh sa fare soprattutto due cose: tirare fuori il meglio possibile dal materiale umano che si mette nelle sue mani e raccontare l'umanità media brit pop. Qui, mentre enuclea stagione per stagione un'annata di semplice e normale vita, le fa entrambe in maniera mirabile, con attori splendidamente naturali e un fantastico gusto per la drammatica normalità quotidiana. In più, questo e il Mike Leigh che preferisco, quello che sa anche far ridere e non si limita a seppellire la platea di lacrime. Quello che rende l'amarezza ancora più tosta, proprio perché accompagnata da un sorriso agrodolce, amarognolo, stiracchiato e pieno di crepe.

Selezione ufficiale - Concorso
Degli uomini e degli dei (Francia)
di Xavier Beauvois
con Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Jacques Herlin

Gran premio della giuria
Premio della giuria ecumenica

La storia vera di un monastero di monaci benedettini in Algeria, in cui dei coraggiosi frati missionari affrontano la minaccia di gruppi fondamentalisti per portare avanti ciò in cui credono. Interessante, molto ben diretto e interpretato, lento come una passeggiata nella melassa.

Selezione ufficiale - Concorso
Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives (Tailandia)
di Apichatpong Weerasethakul
con Sakda Kaewbuadee, Jenjira Pongpas

Palma d'Oro

Son passati un po' di anni, dall'ultima volta che mi han tirato sui coglioni una mattonata di questa violenza.

Bergamo Film Meeting
Bright Star (Australia)
di Jane Campion
con Abbie Cornish, Ben Whishaw, Paul Schneider

Via il dente, via il dolore: Bright Star è un bel film. Delicato, elegante, intenso, con giusto qualche punta di eccessiva maniera qua e là e un finalaccio un po' così, ma che riesce a raccontarti delle vicende amorose di John Keats senza dover per forza fare il film su John Keats che senti che musica incalzante e guarda che scena madre pazzesca e assapora quanto genio incompreso in quelle parole e commuoviti dai forza commuoviti ascolta la musica la senti che sale la senti come sale sta crescendo ti prende dai cazzo lo sai che ti prende piangi PER DIO PIANGI. Ecco, no, Bright Star queste cosacce brutte non le fa, anche quando ti vuole far innamorare assieme ai due protagonisti, pure quando ti vuole far preoccupare per il loro destino, perfino quando è il momento di commuoversi sui minuti finali. Bravi attori, bella sceneggiatura e tanti bei momenti, soprattutto nella maniera molto riuscita con cui viene raccontato il tenero corteggiamento.

Bergamo Film Meeting
Thomas (Finlandia)
di Miika Soini
con Lasse Pöysti, Mauri Heikkilä, Visa Koiso-Kanttila, Pentti Siimes
Primo premio

Il cinema finlandese è adorabile perché ti butta lì melodramma lancinante e commedia spiazzante in quella maniera surreale, caratteristica, bionda e irresistibile. Thomas è un film così, un po' simpatico e sbarazzino, che inizia facendoti ridere come uno scemo della morte di un vecchio, va avanti raccontandoti l'assordante malinconia del fratello sopravvissuto e ti trascina fino alla fine con addosso un sorriso un po' spento e triste. Ridacchiando, fino in fondo. Anche quando ti viene da piangere.

Mi son lamentato tanto, ma alla fine ho visto nove film, uno in più dell'anno scorso. Buttali. Nota di colore: all'Apollo, durante la proiezione di
Bright Star, da circa metà film in poi il proiettore è impazzito e la messa a fuoco continuava ad andare a mignotte. “Non ci possiamo fare niente, dovete guardarvelo così”. gg

14.6.10

West Coast

Ok, allora, metto questo post qua in pubblicazione automatica, per fare in modo che si manifesti sui vostri schermi, boh, facciamo lunedì. Il messaggio profondo dell'autore: sono a Los Angeles per seguire l'E3 assieme agli amicici di Nextgame. Durante questi tragici giorni, smetterò di aggiornare costantemente strilli, link, cazzi & mazzi di spam lavorativo qua sul blog, perché non ci si starebbe veramente dietro. Facciamo che, se ci tenete tanto a seguirmi, potete sfruttare i due strilli/link già appositamente inseriti nella colonna d'estrema destra (nella sezione "giopep su Nextgame.it") e negli strilloni in homepage. Che poi sono i collegamenti al coverage tutto e alla pagina del blog. Poi magari quando torno la aggiorno, la sezione nella colonna d'estrema destra.

Quest'anno, da Los Angeles, ci si fa il culo, come l'anno scorso. Però con delle robe in più. Tipo che probabilmente, se mi andate a seguire il coveraggio, vi capiterà pure di vedermi apparire in video che faccio il presentatore dilettante molto all'arrangiata. E se siete molto (s)fortunati potrebbe capitarvi di vedere pure Fotone che fa la stessa roba, ma con più Chieti. Quello che non vedrete, questa volta, sono le spine, dato che non abbiamo una giornata libera a fine fiera per andare a farci sgozzare nelle highway americane. In compenso ci saranno altre cose simpatiche. Tipo che Soletta ha già minacciato di voler fare una sorta di video diario in cui ci riprende mentre mangiamo le nostre solite cofane di hamburger e commentiamo la giornata sputando patatine verso l'obiettivo. Fra l'altro, in tutto questo, se Cirillo non fa scherzi, nella pagina del blog ci sarà pure la mia BELLISSIMA idea del ticker delle minchiate. E c'è pure Twitter! Siamo due punto zero di brutto, ormai.

Il blog, comunque, non morirà del tutto. Intendo questo blog. Quello che state leggendo adesso. Non quello su Nextgame, questo qua. L'Edicola. Intanto c'è il post di oggi, quello che state leggendo. Poi c'è un post che ho messo in pubblicazione automatica per venerdì. In più, se trovo le forze, avrei da finire il post sulla rassegna di Cannes. Se ce la faccio, arriva mercoledì. Se non ce la faccio, non arriva mercoledì. Incrociate i diti.

Tutto questo l'ho scritto nella notte fra giovedì e venerdì, mentre aspettavo che Audacity finisse di generare il file MP3 di Outcast Magazine 3. Mamma mia quanto sono dedito alla causa.

11.6.10

Musicast

È stato pubblicato stamane l'Outcast con più musica di sempre, ma senza Puffetti Rosa, che non avevano voglia. Pur parlando molto del cane di Mattia, siamo abbastanza seri e quindi più amabili per chi aveva schifato l'ultimo Chiacchiere Borderline. Lo trovate qui. Il Magazine numero tre, dico. Il Chiacchiere Borderline un po' tanto e forse troppo scemo stava qua.

Non sapevo cosa scrivere, ma mi sembrava brutto metter giù solo una riga in croce.

9.6.10

La nostra vita

La nostra vita (Italia, 2010)
di Daniele Luchetti
con Elio Germano, Isabella Ragonese, Raoul Bova, Stefania Montorsi


Daniele Luchetti è un figo. Uno che mette non una, ma due canzoni di Vasco Rossi nello stesso film e riesce a non darmi fastidio per questo non può che essere un figo. Specie se poi l'inserimento di quelle due canzoni in quei due momenti è un così perfetto e ben contestualizzato mezzo per tratteggiare natura, personalità, umanità dei personaggi che si raccontano, senza bisogno di ricorrere a praticamente null'altro. Con due scene - e basterebbe già la prima, guarda, che oltretutto sta sui titoli di testa - ti dice tutto quel che c'è da dire. Il problema è che poi non dice praticamente nient'altro d'interessante.

La nostra vita funziona a malapena come racconto della tragedia del protagonista, o comunque funziona a malapena se vogliamo pensare che una storia del genere dovrebbe essere anche in grado, a un certo punto, di aggrappartisi alle budella. E invece il film di Luchetti non lo fa. Magari anche per scelta, per fuga dal manierismo sentimentale, ma in ogni caso non lo fa. E, quindi, insomma, manca un po' l'emozione. Anche in quella scena lì, la seconda di Vasco, che bella è bella, ma è solo quello. Ma se è voluto, ed è voluto, altrimenti non ti si metterebbe al centro degli eventi un protagonista tanto sgradevole e col quale è impossibile empatizzare, a un certo punto va bene anche così.

Il problema vero è che c'è pure dell'altro, c'è questa specie di sguardo trasversale sull'Italia un po' becera e bassa, raccontata in maniera critica, cruda, ma soprattutto semplicina e banalotta. Ché a me va bene mi si dica che noi italiani puzziamo e pensiamo solo ai soldi, però me lo si dovrebbe dire con un minimo d'incisività in più. E invece sotto questo punto di vista La nostra vita è se possibile ancora più spento e moscio, non azzanna neanche per sbaglio. E alla fine che rimane? Un Elio Germano bravissimo come al solito, un Raoul Bova iscritto al club "se mi dirige uno bravo so recitare" e un ottimo lavoro sulle location. E Vasco.

Il film l'ho visto in lingua originale. :D

7.6.10

No More Heroes

No More Heroes (2007/2008, Rising Star Games)
sviluppato da Grasshopper Manufacture - Suda 51


Suda 51 è un uomo che non conosce le vie di mezzo. Dopo aver realizzato, con Killer 7, un gioco dal contesto tridimensionale in cui ci si sposta solo avanti e indietro, butta No More Heroes all'altro estremo, infilandoci a forza il free roaming. Il problema, per l'appunto, è che ce lo infila a forza, senza arricchire il gioco di conseguenza, e regalando un mondo dall'esplorazione libera totalmente inutile, spenta, superflua. Poi, ok, l'ha fatto apposta, voleva fare la critica, la presa in giro, e le parti brutte/noiose/discutibili lo sono volontariamente. Ottimo. Solo che per me le intenzioni dell'autore contano una sega, soprattutto se mi portano a spaccarmi le palle viaggiando su una moto che si controlla come un carro funebre.

E insomma, il fatto è che 'sta cittadina di Santa Destroy rappresenta probabilmente il difetto più grosso di No More Heroes. Pur essendo ben caratterizzata, con tante idee simpatiche sparse in giro, piena di personalità, brillante, divertente e sbirulina, è vuota. Insopportabilmente, tremendamente, micidialmente vuota. All'inizio ti ci diverti anche, vai in giro, scruti quell'angolo, raccatti quella scemenza, ma dopo un po' ti rendi conto di stare davvero buttando via il tuo tempo e quei maledetti vicoli diventano solo noia insostenibile da superare fra una missione e l'altra.

Ma non solo: in No More Heroes c'è pure l'altro problema causato da quel cancro incurabile che è il free roaming messo dovunque e completamente a caso: le missioni extra. Come sempre accade in queste situazioni, ce ne sono di molto azzeccate, di simpatiche, di divertenti, di mosce e di pallose come un film di De Oliveira. E tutte si ripetono un po' troppo. E non sono completamente facoltative, dato che forniscono il denaro necessario per accedere alle missioni principali, oltre che per acquistare bonus, armi e oggetti assortiti, alcuni dei quali richiesti per poter ottenere il finale "vero".

Se si passa sopra a questi due problemi, comunque non pressanti e fastidiosi come in altre situazioni, o se - ancora meglio - li si ritiene dei "non problemi" perché parte integrante del sottile messaggio che l'autore vuole comunicarci, si scopre un ottimo gioco. Un gioco che, fra l'altro, conserva la ricercatezza stilistica e contenutistica tipica del Suda 51, declinandola però non secondo quei toni altezzosi, spocchiosi e un po' pretenziosi di Killer 7, quanto piuttosto con un'adorabile voglia di prendere e prendersi per il culo. In No More Heroes c'è citazionismo e amore continuo per il cinema e il videogioco degli anni ottanta, c'è un ininterrotta ricerca dell'esagerazione e dell'assurdo, c'è un ripetuto rompere il quarto muro e divertirsi col giocatore/spettatore, ci sono tre o quattro momenti che fan davvero spaccare dal ridere. E sotto tutta questa sovrastruttura, si diceva, c'è anche un ottimo gioco.

Un ottimo gioco che non commette, ancora, l'errore di Killer 7, che prometteva la ricercatezza di gameplay data dal dover gestire sette personaggi per la risoluzione di complesse situazioni di gioco ma te la regalava per davvero solo nella missione finale, dopo essersi trascinato stancamente fino a quel punto in nome del maledetto senso di progressione. No More Heros, invece, è più furbo, offre subito quel che ha da dare e articola la crescita del gioco sulla base delle idee, delle invenzioni e dell'innalzamento del tasso di sfida. Tasso di sfida applicato, fra l'altro, a un sistema di combattimento certo non superlativo ma che fa comunque il suo, trovando un giusto compromesso fra controlli vecchio stile e interazioni "mobili" da Nintendo Wii. E premia nel migliore dei modi chi s'impegna ad approfondirne le poche sfumature, fatte di spettacolo, luci, colori, effetti speciali, schivate, scemenze e contromosse.

Insomma, No More Heroes è una bella cosetta, divertente in tutti i modi in cui si può essere divertenti, ma non riesce ad essere una gran bella cosetta per quel paio di difetti piuttosto fastidiosi (poi io sul free roaming usato a caso ho il dente avvelenato). Ma quando funziona al meglio - vale a dire in quasi tutti i boss, che son poi il cuore dell'esperienza - è davvero uno spettacolo.

La localizzazione italiana, per fortuna limitata ai sottotitoli, è da mani nei capelli: frasi senza senso, passaggi sballati per evidente mancanza di contesto, espressioni in spagnolo e tante altre meraviglie. No More Heroes me l'ero perso all'epoca e l'ho giocato adesso per documentarmi, dato che mi toccava recensire il seguito per Nextgame. La recensione sta qui.

4.6.10

Crazy Heart


Crazy Heart (USA, 2009)
di Scott Cooper
con Jeff Bridges, Maggie Gyllenhaal, Colin Farrell, James Keane, Robert Duvall


Leviamoci subito il peso: l'ometto dorato Jeff Bridges se lo merita eccome, così come del resto se lo meriterebbe per praticamente qualsiasi cosa abbia fatto in vita sua. Tipo anche alzarsi la mattina e lavarsi i denti ogni giorno. Qui, poi, se lo merita in particolar modo, tutto impegnato com'è a reggere in piedi il film da solo e a dominarlo con la sua presenza fisica, con i suoi adorabili sguardi da cucciolone, con il biascicare da vecchia bistecca e con le esibizioni al microfono, chitarra in mano. E il bello è che lo fa senza mossette e isterismi, senza stare lì a urlarti in faccia quant'è bravo: per un paio d'ore molto scarse, semplicemente, diventa Bad Blake.

Oltre a Jeff Bridges, poi, in Crazy Heart ci sono un'altra manciata di ottimi attori, un limpido ritrarre paesaggi che a me, ci posso fare poco, lasciano sempre mortalmente col fiato mozzato, una colonna sonora da brivido e una regia compassata, al totale servizio di protagonista e storia. Storia che non dice nulla che non si sia già visto, letto e sentito mille altre volte, ma lo fa con garbo, realismo, ottima scrittura, personaggi veraci, neanche un momento di patetismo compiaciuto. Fila tutto via liscio e arriva pure qualche bella emozione, evocata da parole, voci e immagini. Un bel film, niente più, niente meno, e un attore della madonna. Buttali.

Il film l'ho visto in lingua originale al cinema Mexico di Milano, nel contesto del sempre amabile ciclo Sound & Motion Pictures. Importanza di guardare questo film in lingua originale? Jeff Bridges ha vinto l'Oscar, eddai. Importanza di guardarlo con dei sottotitoli? Bad Blake è vecchio, ha l'accento di un manzo scuoiato ed è sempre ubriaco.

3.6.10

Prison Break - The Final Break

Prison Break - The Final Break (USA, 2009)
creato da Paul Scheuring
con Wentworth Miller, Dominic Purcell, William Fichtner, Sarah Wayne Callies, Amaury Nolasco, Jodi Lyn O'Keefe, Robert Knepper, Leon Russom, Lori Petty


Ricordo che qualche tempo fa c'era un sacco di chiacchiericcio in Rete sulla possibile messa in produzione di uno spin-off tratto da Prison Break e ambientato in un carcere femminile. E The Final Break, guarda caso, è ambientato per buona parte in un carcere femminile. Questo, unito alla maniera frettolosa, confusionaria, tirata via con cui la gran quantità di carne al fuoco viene trattata, mi fa pensare che The Final Break sia il modo un po' patetico con cui si è deciso di raccontare lo stesso quel che si erano inventati per l'eventuale quinta stagione dell'agonizzante creatura di Paul Scheuring.

The Final Break si apre con un colpo di scena talmente forzato da far rivalutare in meglio il finale della seconda stagione e si risolve poi con un riassunto velocissimo di un racconto che, davvero, avrebbe meritato più spazio. Non perché sia 'sto capolavoro, o presenti chissà cosa di originale, ma insomma, ci sono un tot di personaggi nuovi, c'è un ribaltamento dei ruoli almeno un pochino interessante e c'è una situazione, quella del conflitto "intercarcerario", con del potenziale. Purtroppo, però, tutto viene per l'appunto introdotto, esposto e risolto troppo in fretta, senza minimamente svilupparne il potenziale, ma anzi generando momenti davvero patetici per la velocità senza senso con cui avvengono le cose. E del resto, se gestisci in un episodio doppio del materiale che potrebbe tutto sommato meritarsi un'annata intera, che vuoi pretendere?

Il risultato è una roba ridicola, in cui va completamente a farsi benedire la gestione dei ritmi, dei conflitti, dei colpi di scena, del dico/non dico, dell'atmosfera e, insomma, di tutto ciò che caratterizza e, nei suoi momenti migliori, rende grande Prison Break. The Final Break è un aborto inutile e superfluo anche più delle ultime due mediocri stagioni. Ha le sole funzioni di spiegare la cicatrice ostentata nel finale della quarta stagione da Sarah e rovinare il poco di buono che quello stesso finale aveva. Perché l'idea di una morte amara, angosciante, figlia della malattia lì suggerita non andava bene, no. Bisognava regalare l'uscita di scena eroica e tirata per i capelli. Eccerto.

L'ho visto in lingua originale nel DVD allegato al cofanetto della quarta stagione. Non ne voglio sapere più nulla, devono morire tutti.

 
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