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28.2.15

La robbaccia del sabato mattina: Yawn


Questo post esce sul blog mentre io sono presumibilmente in coma nel simpatico appartamento di San Francisco che per una settimana potrà bearsi dell'ospitare il sempre amabile contingente abruzzese di IGN Italia e Outcast. O magari sono sveglio e in preda al jet lag. O magari sono stato assalito, derubato e seviziato da un malvivente locale (e, quindi, potrei essere in coma). O magari non sono mai atterrato a San Francisco. Vai a sapere. Io di certo non lo so, dato che queste righe le sto scrivendo mercoledì per portarmi avanti. Comunque, questo qua sopra è l'affollato e onestamente bruttarello nuovo poster di Avengers: Age of Ultron, un film che arriva a maggio e per il quale, per qualche motivo, non sono eccessivamente gasato. Intendiamoci, quando sarà il momento di andarlo a vedere sarò probabilmente gasatissimo, anche considerando che quando mi sono ritrovato in terza fila all'Imax e mi hanno sparato in faccia il trailer sono stato colto dagli spasmi, ma insomma. Suppongo sia più che altro una questione di been there, done that. Credo. Vedremo. Comunque, questa settimana non ho trailer da sbattere qua dentro, ma ci sono comunque un paio di assurdità.



Power/Rangers, uno di quei cortometraggi fatti fra amichetti mediamente famosi (ci sono Katee Sackhoff e James Van Der Beek) per proporre una reinterpretazione di qualche cosa che apprezzano particolarmente. In questo caso si tratta di una versione rated R dei Power Rangers e, hahahaah, è fantastica (e magari da mercoledì a oggi è stata tirata giù perché il titolare dei diritti s'è preso male... vai a sapere). La cosa qua sotto non credo abbia bisogno di essere commentata.



Oggi abbiamo in programma di farci un giretto a nord della città. Chissà, magari scompariamo nel bosco e non si avranno mai più nostre notizie.

27.2.15

Datemi una G! Datemi una D! Datemi una C! Datemi del caffè! Datemi dell'ibuprofene!


Mentre questo post si manifesta qua sul blog, io sono sul volo che mi condurrà ancora una volta a San Francisco, per seguire la Game Devolpers Conference 2015. Oppure ci sarà stato un imprevisto, ma insomma, cerchiamo di pensare positivo. Come al solito, mi raggiungerà sul posto il resto del contingente abruzzese, composto dal Giacci e dall'Antonelli. Seguiremo la manifestazione per conto di IGN Italia e i vari aggiornamenti più o meno in diretta finiranno tutti a questo indirizzo qua, che già ora contiene anche un tot di materiale dalle edizioni passate. Poi, al ritorno, ovviamente, registreremo anche il canonico Outcast Reportage, ci mancherebbe. Tutto questo significa anche che la prossima settimana gli aggiornamenti del blog potrebbero impantanarsi un po'. In realtà non è da escludere che abbia preparato qualche post in anticipo, o magari addirittura che scriva cose mentre sono in trasferta, però, insomma, ci siamo capiti. Diciamo anche che probabilmente non ci saranno i soliti post settimanali sui telefilm che seguo in diretta. O magari ci saranno. Vai a sapere. Sopravvivremo? Sopravvivremo.

Comunque c'è il post mortem classico su Loom, tenuto da quella sagomaccia di Brian "The Professor" Moriarty. Il 2015 mi ha già dato quel che doveva darmi. A posto così.

26.2.15

Agent Carter 01X08: "Valediction"


Agent Carter 01X08: "Valediction" (USA, 2015)
creato da Christopher Markus e Stephen McFeely
puntata diretta da Christopher Misiano
con Hayley Atwell, James D'Arcy, Shea Whigham, Chad Michael Murray, Enver Gjokaj, Bridget Regan, Ralph Brown

Ci sarà una seconda stagione per Agent Carter? Vai a sapere. Apprezzata dalla critica e in generale dai fan, la serie è andata discretamente ma senza sfondare più di tanto, cosa che comunque potrebbe anche tranquillamente rientrare nelle ambizioni che ABC aveva al riguardo. In linea di massima dovremmo avere una risposta fra un paio di mesi, dato che tipicamente i suoi annunci il network li fa a maggio. Io ci spero, perché queste prime otto puntate, pur con qualche alto e basso, hanno raccontato una storia ben congegnata, dai temi interessanti, costruita e sviluppata come si deve, capace di ricollegarsi all'universo cinematografico Marvel senza essere pedante e anzi traendone spunti molto riusciti. E ha pure chiuso come si deve il suo arco narrativo, pur lasciando ovviamente aperti i discorsi di Leviathan e Vedova Nera. Insomma, non ci si può lamentare.

In particolare, quest'ultima puntata ha messo brutalmente sul piatto la maniera in cui, di fondo, il racconto ha rappresentato una sorta di seguito "alternativo", incentrato sul personaggio di Peggy, per gli eventi del primo Captain America. Tutto il percorso della protagonista è stato incentrato sulle conseguenze del rientro dalla guerra, sul ritagliarsi un ruolo all'interno di un ambiente poco intenzionato a concederle la posizione che si era conquistata, sull'elaborazione del lutto per la morte dell'uomo che amava. E tutto questo ha trovato sfogo nelle belle scene conclusive. Prima quel rientro trionfale in ufficio, poi smorzato dal modo in cui il personaggio di Thompson, messo di fronte all'occasione, zittisce il suo lato più umano emerso in precedenza per inseguire il guadagno personale. Poi il delizioso scambio con Jarvis, che mette una gran voglia di osservare ancora in azione il dinamico duo e l'ottima intesa che lo caratterizza. E infine quella scena sul ponte, che chiude davvero tutto.

Chiaramente, come al solito, a far girare il racconto è soprattutto Hayley Atwell, bravissima nel tenere anche i momenti più melodrammatici e impedire che scadano nel ridicolo. Varrebbe la pena di sperare nel rinnovo anche solo per continuare a godersela otto settimane l'anno in un ruolo che le han cucito addosso. Per il resto, comunque, è stata un'ottima puntata conclusiva sotto tanti aspetti, con le tanto attese pizze in faccia fra le due donne della serie, il bel confronto con il dottor Faustus, e i rimandi ai film, non solo con quella gustosa apparizione nel finalissimo, che ricollega tutto quanto alla faccenda Hydra e al secondo Captain America, ma anche e soprattutto nel bel modo in cui è stata costruita la scena dell'aereo. Il parallelo con Peggy Carter che ancora una volta si trova alla radio con un uomo prossimo allo schianto è stato reso alla grande e ha iniettato un bel momento di emotività nel finale di una puntata in cui, fra l'altro, forse per la prima volta ho trovato davvero riuscita fino in fondo la presenza di Dominic Cooper, che porta la giusta dose di carisma e personalità. Oltretutto, volendo, anche in tutta la faccenda delle sue armi, e nel modo in cui sceglie di risolverla, c'è un parallelo con le vicende cinematografiche, e in particolare con quelle di Iron Man 3. Insomma, di nuovo, gran bel finale di stagione, speriamo sia appunto questo e non un finale di serie.

E la prossima settimana si riparte con Agents of S.H.I.E.L.D., nel cui trailer che agevolo qua sotto, fra l'altro, un personaggio pronuncia per la prima volta la parola "inhuman". Go go go!


25.2.15

Automata


Automata (USA/Spagna, 2014)
di Gabe Ibáñez
con Antonio Banderas, Birgitte Hjort Sørensen, Dylan McDermott, Robert Forster

Automata è il secondo lungometraggio di Gabe Ibáñez, regista spagnolo con un passato da tecnico degli effetti speciali e un'evidente voglia di proporsi come autore completo a tutti i livelli, visto che questo suo esordio in zona anglofona se l'è scritto e diretto. Il tema al centro del film è quello delle intelligenze artificiali, un filone improvvisamente tornato di moda un po' da tutte le parti, fra cartoni animati, film di supereroi e produzioni di ogni tipo, ma che qui trova forse una fra le sue declinazioni più particolari e ambiziose. Ibáñez, infatti, vuole evidentemente fare fantascienza alta, che non ha paura di puntare verso l'infinito e oltre, anche a costo di mancare il bersaglio e piombare giù di faccia, schiantandosi nel fantastico mondo del ridicolo. Ci riesce? In larga parte sì, anche se ne viene comunque fuori un film polarizzante e non facilissimo da apprezzare, come del resto testimonia la demolizione a cui è stato sottoposto da buona parte della critica a stelle e strisce. Eppure uno sguardo se lo merita, se lo merita eccome.

Sulle prime, Automata sembra "solamente" un riuscitissimo tentativo di riportare la fantascienza a una dimensione piccola, personale, sporca e tutta bella ricoperta di pioggia. Racconta di un'umanità prossima all'estinzione, costretta da fenomeni solari e rovesci assassini dilaganti a rinchiudersi in grosse metropoli circondate dal deserto. Gli uomini hanno provato a uscirne creando intelligenze artificiali in grado di aiutarli ma i risultati non sono particolarmente confortanti e ormai la vita dell'uomo medio è ridotta a uno stanco sperare in un futuro migliore che non arriverà mai. Il primo atto del film prende questa base di partenza all'insegna dell'allegria e vi costruisce sopra un fantapoliziesco che sembra uscita da una lurida ammucchiata fra Blade Runner, Beneath a Steel Sky e Gemini Rue. In questo contesto, Banderas veste i panni di un investigatore delle assicurazioni un po' sfigato, alle prese con una moglie e una gravidanza che, in quel brutto brutto mondo in cui vive, non è sicuro di continuare a volere. Il nostro simpatico eroe allegro finisce ad indagare sullo strano caso di un robot che - dicono - si stava riparando da solo, contravvenendo a una fra le due leggi base che sono state inculcate alle intelligenze artificiali (l'altra è quella solita, non c'è bisogno di scriverla). E ovviamente scoperchia un pentolone allucinante.

Ora, già il fatto di essere un riuscitissimo tentativo di replicare - volutamente o meno - modelli di quel tipo sarebbe un risultato niente male, ma Ibanez non si accontenta ed è lì che le cose si complicano. Proprio quando il lato poliziesco della faccenda sta ingranando, Automata sposta tutto nel deserto e cambia completamente le carte in tavola, spingendo a mille sui filosofeggiamenti surreali, sulle grandi domande, su quel che significa essere o non essere umani, più varie ed eventuali. Ne viene fuori un viaggio surreale fatto soprattutto di grandi dubbi e metaforoni biblici, che va poi a chiudersi con una surreale sfida all'OK Corral e racconta tutto quanto all'insegna di ottime interpretazioni e una ricerca estetica notevole. Insomma, Automata è un gran bel filmone di fantascienza, che affronta con coraggio temi interessanti, insegue i suoi obiettivi con grande coerenza, regala scorci visivi insospettabilmente riusciti, considerando il budget ristretto, e può risultare indigesto nel momento in cui pare suggerire una via ma parte invece per la tangente. Da maneggiare con cura, ma assolutamente da provare se interessa l'argomento.

È uscito un po' dappertutto in giro per il mondo lo scorso anno, io l'ho recuperato solo di recente grazie all'ammore di Netflix (un caro saluto all'accento improbabile di Banderas) e domani esce al cinema in Italia, immagino in poche sale, nessuna delle quali vicina a casa vostra. Comunque, insomma, se ne avete l'occasione, dategli una chance.

24.2.15

The Walking Dead 05X11: "La distanza"


The Walking Dead 05X11: "The Distance" (USA, 2015)
con le mani in pasta di Scott Gimple e Robert Kirkman 
puntata diretta da Larysa Kondracki
con Andrew Lincoln, Norman Reedus, Lauren Cohan, Sonequa Martin-Green, Steven Yeun, Danai Gurira, Melissa McBride, Michael Cudlitz

E per l'appunto, eccoci qua con la conferma: la prima metà di stagione e ancor di più le ultime due puntate hanno mirato fortissimo sul demolire l'identità del gruppo, ridurrne quasi ogni singolo elemento ai minimi termini, creando una simpatica compagnia di amichetti che è meglio non incontrare per strada, col solo fine di arrivare a questo punto in questa situazione. Improvvisamente spunta "da fuori" qualcuno che sembra proporre una via d'uscita, che promette salvezza, si presenta armato di sorriso e gentili omaggi, ma chi vuoi che gli creda? Intando un bel cazzotto in faccia, poi spremiamolo come si deve e solo dopo, forse, proviamo a ragionarci. L'idea era di creare una situazione di enorme contrasto, che presumibilmente non si esaurisce qui, e forse c'era il dubbio che quattro stagioni di schiaffi non bastassero, quindi bisognava forzare ulteriormente.

Il risultato, va detto, è una puntata che funziona e che (anche grazie all'assenza di un monologo di Rick, che ormai vedo come nemico pubblico numero uno), si racconta con la giusta dose di dubbi e di tensione. E immagino lo faccia mille volte di più per chi non ha letto il The Walking Dead a fumetti, dato che, pur con qualche deviazione, la sostanza della puntata segue il modello originale come raramente si è visto nella serie. Per cui, insomma, il nodo attorno a cui ruota l'intero meccanismo della narrazione era per me sciolto in partenza, ma questo non mi ha impedito di apprezzare i pregi della faccenda, l'ironia della prudenza di Rick che, per quanto "giusta", finisce per mettere nei guai tutti, quella bella sequenza con la macchina che falcia il branco e in generale la buona gestione del gruppo nei diversi momenti, con la storia che si concentra sempre su quel che davvero importa.

Fra l'altro, per certi versi, sembrava quasi di stare guardando un adattamento del videogioco di Telltale Games, tutto incentrato su un protagonista costretto a compiere scelte difficili, con attorno personaggi che tirano di qua e di là, conseguenze che tendono ad essere complicate in qualunque direzione si vada e in chiusura la moralina della scelta giusta che è sbagliata ma in fondo è anche giusta. Insomma, una volta tanto un buon episodio, che porta avanti il racconta in maniera coinvolgente e che funziona perché aggiunge un pizzico di dinamismo agli eventi, per una serie che continua a vivere in quello strano paradosso di fondo: da un lato, dovrebbe dare il meglio negli episodi più riflessivi, dall'altro ci riesce raramente e finisce per funzionare meglio quando si dà una mossa. La speranza (vana?) è che venga trovato l'equilibrio giusto da qui a fine stagione, perché dietro quelle mura si nascondono tante cose interessanti, ma bisogna saperle gestire.

Fra l'altro a questo punto inizio davvero a chiedermi se a fine stagione vedremo quell'esordio esplosivo di Lucille. Ci credo molto poco, ma vai a sapere.

23.2.15

Kingsman - Secret Service


Kingsman: The Secret Service (GB, 2015)
di Matthew Vaughn
con Colin Firth, Taron Egerton, Mark Strong, Samuel L. Jackson, Sofia Boutella, Sophie Cookson

Narra la leggenda che Kingsman sia nato una sera al pub, quando Matthew Vaughn e Mark Millar non c'avevano niente di meglio da fare che sbronzarsi, ricordare i bei tempi in cui i film di James Bond erano le cretinate sopra le righe con Roger Moore e pensare che sarebbe stato fico raccontare una storia che recuperasse quel taglio di puro divertimento, filtrandolo però attraverso il loro gusto personale. E così sono nati più o meno in parallelo il Kingsman a fumetti e quello cinematografico, scritto da Vaughn mentre in teoria doveva stare occupandosi di X-Men: Giorni di un futuro passato. Una cosa tira l'altra, i mutanti son tornati in mano a Bryan Singer e il caro Matteo, come già con il primo Kick-Ass, si è messo a dirigere un film ispirato a un fumetto di Mark Millar ma che in realtà prende la stessa idea di base per farsi poi una sana dose di affari suoi. E ne è venuto fuori bene o male quel che ci si potrebbe aspettare quando quella strana coppia di amiconi applica la loro personale idea di cura medievale ai film di super spie ganze, eleganti e sciupafemmine.

Il risultato non può quindi che essere un film sboccato, violento, dall'umorismo tanto basso e puerile quanto intelligente in certe sue trovate, che fa satira magari anche un po' spuntata, ma senza freni nell'insultare tutto e tutti e sparare in ogni direzione, anche a costo di mancare il bersaglio a più riprese. Colin Firth, forte dell'allenamento intensivo con cui si è messo in forma per l'occasione, è perfetto nell'incarnare la spia elegante, raffinata, impeccabile, ma all'occorrenza brutale, implacabile e capace di abbandonarsi a un linguaggio da scaricatore di porto. Pronti via e subito, nella primissima scena, infila un fuck dietro l'altro per dettare immediatamente il tono surreale di tutta l'operazione e guidarci poi per mano nella classica storia d'iniziazione della nuova recluta improbabile ma in fondo perfetta. Il problema è che tutta la prima metà di film, pur mostrando qualche gag azzeccata qua e là, è fin troppo ordinaria e prevedibile, incastrata nell'alternanza fra un addestramento visto mille volte e un'indagine non particolarmente fuori dagli schemi. Poi, certo, chi non ha letto il fumetto, presumibilmente, se la godrà di più, trovandoci qualche sorpresa intrigante, ma i momenti davvero riusciti del film sono tutti spremuti nella seconda metà.

È infatti con la scena d'azione in chiesa intravista nei trailer che il film esplode per davvero. Una rissa esagerata fra estremisti del Kentucky, sulle note di Free Bird, messa in scena con uno spettacolare piano sequenza in cui Colin Firth spacca, trafigge e devasta qualsiasi cosa gli passi davanti, mentre un branco di pazzi scatena la propria rabbia repressa senza alcuna pietà. È il punto di svolta: da lì in poi il film è uno spacco continuo, per un crescendo finale in cui davvero si spalancano i recinti e Vaughn apre a mille, regalando belle scene d'azione, umorismo greve, violenza e invenzioni fuori di cozza come quella lunga serie di... ehm... esplosioni colorate, diciamo. E quindi, alla fin fine, Kingsman non è un film perfetto, ci mette un po' a ingranare e ha uno stile barbaro che potrebbe offendere qualcuno, ma in fondo punta in larga misura proprio a quello (offendere, dico) e quando decolla lo fa a massima velocità, senza guardarsi mai indietro. Inoltre, abbraccia con forza il suo rating da film per adulti e si permette di ostentare un linguaggio, un approccio alla violenza e perfino una spruzzata di allusioni sessuali che nel cinema action attuale si vedono solo nelle piccole produzioni. Intendiamoci, non ci sono gli squartamenti di The Raid, ma c'è roba che non è esattamente all'ordine del giorno nel cinema mainstream e c'è un'apprezzabile voglia di mostrare l'azione in maniera chiara, ampia, comprensibile, senza fuggirne a gambe levate per accontentare tutti e/o nascondere i limiti del cast. Avercene.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, in lingua originale, e tutto il tripudio di accenti brit che spingono in ogni direzione è davvero un piacere da gustarsi. Detto questo, ci sono due o tre sequenze che è altrettanto un piacere gustarsi sul grande schermo. Quindi apposto così.

22.2.15

giopeppredictions 2015


Fra qualche ora, questo tizio simpatico qua sopra presenterà la notte degli Oscar. Che poi noi la chiamiamo la notte degli Oscar perché c'è la differenza di fuso orario e quindi bisogna fare le cinque del mattino per seguirla, però in effetti per gli americani non è che sia proprio proprio una notte. Al massimo è la serata degli Oscar, toh. E anche lì, dipende da dove vivi. Ma insomma. Purtroppo, l'anno scorso ho scoperto che in Francia non vige il trionfo di civiltà attuato in Germania (e, a quanto pare, ormai pure in Italia) della trasmissione in diretta, in chiaro e in lingua originale. Serve essere abbonato a Canal+, cosa che io non sono, e quindi mi sa che anche quest'anno me ne starò bello tranquillo a dormire e mi guarderò poi la differita il giorno dopo. Almeno credo. Vai a sapere.

Ad ogni modo, ecco qua il mio solito post inutile e poco interessante con il copia e incolla invertito da Wikipedia di tutte le nomination, completamente sconclusionato, traducendo cose a caso ma lasciando i titoli dei film in originale perché troppo sbattimento. La roba che premierei io è evidenziata in blu (e scelta fra i film che ho visto, chiaramente) e le scommesse su cosa vincerà sono evidenziate in rosso (e scelte del tutto a caso, chiaramente). E quando coincidono le evidenzio in viola. E magari ci metto anche qualche commento. O magari no. Come viene.

Migliori effetti speciali
Captain America: The Winter Soldier – Dan DeLeeuw, Russell Earl, Bryan Grill and Dan Sudick
Dawn of the Planet of the Apes – Joe Letteri, Dan Lemmon, Daniel Barrett and Erik Winquist
Guardians of the Galaxy – Stephane Ceretti, Nicolas Aithadi, Jonathan Fawkner and Paul Corbould
Interstellar – Paul Franklin, Andrew Lockley, Ian Hunter and Scott Fisher
X-Men: Days of Future Past – Richard Stammers, Lou Pecora, Tim Crosbie and Cameron Waldbauer

Miglior montaggio
American Sniper – Joel Cox and Gary D. Roach
Boyhood – Sandra Adair
The Grand Budapest Hotel – Barney Pilling
The Imitation Game – William Goldenberg
Whiplash – Tom Cross

Migliori costumi
The Grand Budapest Hotel – Milena Canonero
Inherent Vice – Mark Bridges
Into the Woods – Colleen Atwood
Maleficent – Anna B. Sheppard
Mr. Turner – Jacqueline Durran

Miglior trucco e parrucco
Foxcatcher – Bill Corso and Dennis Liddiard
The Grand Budapest Hotel – Frances Hannon and Mark Coulier
Guardians of the Galaxy – Elizabeth Yianni-Georgiou and David White

Miglior fotografia
Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) – Emmanuel Lubezki
The Grand Budapest Hotel – Robert Yeoman
Ida – Łukasz Żal and Ryszard Lenczewski
Mr. Turner – Dick Pope
Unbroken – Roger Deakins

Probabilmente, se l'avessi visto, punterei su Birdman, ma qua esce la prossima settimana.

Miglior production design
The Grand Budapest Hotel – Adam Stockhausen (Production Design); Anna Pinnock (Set Decoration)
The Imitation Game – Maria Djurkovic (Production Design); Tatiana Macdonald (Set Decoration)
Interstellar – Nathan Crowley (Production Design); Gary Fettis (Set Decoration)
Into the Woods – Dennis Gassner (Production Design); Anna Pinnock (Set Decoration)
Mr. Turner – Suzie Davies (Production Design); Charlotte Watts (Set Decoration)

Miglior sound mixing
American Sniper – John Reitz, Gregg Rudloff and Walt Martin
Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) – Jon Taylor, Frank A. Montaño and Thomas Varga
Interstellar – Gary A. Rizzo, Gregg Landaker and Mark Weingarten
Unbroken – Jon Taylor, Frank A. Montaño and David Lee
Whiplash – Craig Mann, Ben Wilkins and Thomas Curley

Miglior montaggio sonoro
American Sniper – Alan Robert Murray and Bub Asman
Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) – Martin Hernández and Aaron Glascock
The Hobbit: The Battle of the Five Armies – Brent Burge and Jason Canovas
Interstellar – Richard King
Unbroken – Becky Sullivan and Andrew DeCristofaro

Miglior canzone
"Everything Is Awesome" from The Lego Movie – Music and Lyric by Shawn Patterson
"Glory" from Selma – Music and Lyric by John Legend and Common
"Grateful" from Beyond the Lights – Music and Lyric by Diane Warren
"I'm Not Gonna Miss You" from Glen Campbell: I'll Be Me – Music and Lyric by Glen Campbell and Julian Raymond
"Lost Stars" from Begin Again – Music and Lyric by Gregg Alexander and Danielle Brisebois

Miglior colonna sonora
The Grand Budapest Hotel – Alexandre Desplat
The Imitation Game – Alexandre Desplat
Interstellar – Hans Zimmer
Mr. Turner – Gary Yershon
The Theory of Everything – Jóhann Jóhannsson

Miglior cortometraggio animato
The Bigger Picture – Daisy Jacobs and Christopher Hees
The Dam Keeper – Robert Kondo and Daisuke Tsutsumi
Feast – Patrick Osborne and Kristina Reed
Me and My Moulton – Torill Kove
A Single Life – Joris Oprins

Più che altro Feast è l'unico che ho visto.

Miglior cortometraggio
Aya – Oded Binnun and Mihal Brezis
Boogaloo and Graham – Michael Lennox and Ronan Blaney
Butter Lamp (La Lampe au beurre de yak) – Hu Wei and Julien Féret
Parvaneh – Talkhon Hamzavi and Stefan Eichenberger
The Phone Call – Mat Kirkby and James Lucas

OK, siamo ufficialmente entrati nella zona delle cose messe completamente a caso.

Miglior documentario (cortometraggio)
Crisis Hotline: Veterans Press 1 – Ellen Goosenberg Kent and Dana Perry
Joanna – Aneta Kopacz
Our Curse – Tomasz Śliwiński and Maciej Ślesicki
The Reaper (La Parka) – Gabriel Serra Arguello
White Earth – J. Christian Jensen

Miglior documentario
Citizenfour – Laura Poitras, Mathilde Bonnefoy and Dirk Wilutsky
Finding Vivian Maier – John Maloof and Charlie Siskel
Last Days in Vietnam – Rory Kennedy and Keven McAlester
The Salt of the Earth – Wim Wenders, Lélia Wanick Salgado and David Rosier
Virunga – Orlando von Einsiedel and Joanna Natasegara

Miglior film straniero
Ida (Poland) in Polish  – Paweł Pawlikowski
Leviathan (Russia) in Russian – Andrey Zvyagintsev
Tangerines (Estonia) in Estonian and Russian – Zaza Urushadze
Timbuktu (Mauritania) in French  – Abderrahmane Sissako
Wild Tales (Argentina) in Spanish  – Damián Szifrón

Miglior film d'animazione
Big Hero 6 – Don Hall, Chris Williams and Roy Conli
The Boxtrolls – Anthony Stacchi, Graham Annable and Travis Knight
How to Train Your Dragon 2 – Dean DeBlois and Bonnie Arnold
Song of the Sea – Tomm Moore and Paul Young
The Tale of the Princess Kaguya – Isao Takahata and Yoshiaki Nishimura

Se pensassi che Kaguya avesse qualche chance di vittoria, me ne fregherebbe poco dell'esclusione dei mattoncini Lego. Siccome però non ci credo, l'esclusione mi mette addosso una certa tristezza. Boh, l'unico altro che ho visto dei cinque è Big Hero 6 e anche no, grazie. Riciclo i Golden Globe.

Miglior sceneggiatura non originale
American Sniper – Jason Hall from American Sniper by Chris Kyle, Scott McEwen and Jim DeFelice
The Imitation Game – Graham Moore from Alan Turing: The Enigma by Andrew Hodges
Inherent Vice – Paul Thomas Anderson from Inherent Vice by Thomas Pynchon
The Theory of Everything – Anthony McCarten from Travelling to Infinity: My Life with Stephen by Jane Wilde Hawking
Whiplash – Damien Chazelle from his short film of the same name

Miglior sceneggiatura originale
Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) – Alejandro González Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris, Jr. and Armando Bo
Boyhood – Richard Linklater
Foxcatcher – E. Max Frye and Dan Futterman
The Grand Budapest Hotel – Wes Anderson and Hugo Guinness
Nightcrawler – Dan Gilroy

Miglior attrice non protagonista
Patricia Arquette – Boyhood as Olivia Evans
Laura Dern – Wild as Barbara "Bobbi" Grey
Keira Knightley – The Imitation Game as Joan Clarke
Emma Stone – Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) as Sam Thomson
Meryl Streep – Into the Woods as The Witch

Anche se non ho ancora visto Birdman, non importa.

Miglior attore non protagonista
Robert Duvall – The Judge as Judge Joseph Palmer
Ethan Hawke – Boyhood as Mason Evans, Sr.
Edward Norton – Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) as Mike Shiner
Mark Ruffalo – Foxcatcher as Dave Schultz
J. K. Simmons – Whiplash as Terence Fletcher

Miglior attrice protagonista
Marion Cotillard – Two Days, One Night as Sandra Bya
Felicity Jones – The Theory of Everything as Jane Wilde Hawking
Julianne Moore – Still Alice as Dr. Alice Howland
Rosamund Pike – Gone Girl as Amy Elliott-Dunne
Reese Witherspoon – Wild as Cheryl Strayed

Metto il blu sull'unica che ho visto, ma insomma, sembra tutto abbastanza scritto.

Miglior attore protagonista
Steve Carell – Foxcatcher as John Eleuthère du Pont
Bradley Cooper – American Sniper as Chris Kyle
Benedict Cumberbatch – The Imitation Game as Alan Turing
Michael Keaton – Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) as Riggan Thomson / Birdman
Eddie Redmayne – The Theory of Everything as Stephen Hawking

Anche se non ho ancora visto Birdman, non importa. Dopo aver preparato questo post ho visto American Sniper e il blu lo metto su Bradley Cooper.

Miglior regista
Wes Anderson – The Grand Budapest Hotel
Alejandro González Iñárritu – Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance)
Richard Linklater – Boyhood
Bennett Miller – Foxcatcher
Morten Tyldum – The Imitation Game

Miglior film
American Sniper – Clint Eastwood, Robert Lorenz, Andrew Lazar, Bradley Cooper and Peter Morgan
Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) – Alejandro González Iñárritu, John Lesher and James W. Skotchdopole
Boyhood – Richard Linklater and Cathleen Sutherland
The Grand Budapest Hotel – Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales and Jeremy Dawson
The Imitation Game – Nora Grossman, Ido Ostrowsky and Teddy Schwarzman
Selma – Christian Colson, Oprah Winfrey, Dede Gardner and Jeremy Kleiner
The Theory of Everything – Tim Bevan, Eric Fellner, Lisa Bruce and Anthony McCarten
Whiplash – Jason Blum, Helen Estabrook and David Lancaster

Ultimamente sono sempre più convinto che non abbia senso premiare due film diversi nelle ultime due categorie, perché la verità è che senza essere stato sul set non puoi davvero capire come abbia lavorato il regista. E quindi, di fondo, se premi il miglior regista giudicando il risultato finale, che è il film, stai premiando il miglior film. Il problema è che il mio film preferito, qua, è Whiplash, ma Damien Chazelle non c'è fra i registi, e quindi mi tocca puntare su due film diversi. Ah, le ingiustizie!

Quest'anno sono riuscito a vedere meno film del solito fra quelli papabili, in larga misura perché molti non sono ancora usciti in Francia, in parte anche per pigrizia, via. Capita.

Lo spam della domenica mattina: Mulinello Dance


Questa settimana su IGN ho uscito la recensione dell'ottimo The Book of Unwritten Tales 2 e le anteprime di tre giochi che sono andato a provare a Londra: Ori and the Blind Forest, ScreamRide e l'edizione supercazzola di State of Decay per Xbox One. Su Outcast, invece, abbiamo un Videopep dedicato a mostrar due robe, far due regali e parlare di quegli stessi tre giochi per Xbox One, ovviamente gli Outcast Popcorn e The Walking Podcast della settimana, il nuovo Chiacchiere Borderline e il centesimo episodio di Old!, dedicato al febbraio del 1995. Un tripudio di podcast, insomma. Secondo me fra un po' esplodo. Per fortuna venerdì parto, così esplodo in trasferta.

Abbiamo pure registrato il nuovo Podcast del Tentacolo Viola, arriva martedì.

21.2.15

La robbaccia del sabato mattina: Due cose in cui voglio credere tantissimo ma che per qualche motivo non mi ispirano fiducia


Dunque, è successa questa cosa che la Fox ha detto a Neill Blomkamp "Oh, fico quel tuo progetto per un nuovo Alien, dai, portiamolo avanti". Ovvero una bella cosa, dai. Oppure è tutta una manovra pubblicitaria molto adatta a quest'era dell'internet e in realtà erano già d'accordo da prima. Vai a sapere. A me fa piacere nella misura in cui penso che il gusto estetico e i pipponi socialisti di Blomkamp siano molto adatti ad Alien, quindi teoricamente, se proprio qualcuno deve farne uno nuovo, ottimo che sia lui. Allo stesso tempo non so quanto ho voglia di vedere un nuovo Alien e, soprattutto, ho zero fiducia in quel che si può fare oggi, per un film di quel tipo, lavorando con gli studios. Tanto più che Blomkamp con gli studios ci ha già lavorato e, insomma, ne è uscito meglio di altri, ma non è che ci sia stato proprio da strapparsi i capelli per la gioia. Boh, vedremo.



E abbiamo finalmente il primo trailer di Crimson Peak, con cui Guillermo del Toro torna a fare quel che sa fare meglio. O almeno credo. Devo essere sincero? Ci credo fortissimo perché, beh, Del Toro, ma onestamente 'sto trailer m'ha messo addosso più preoccupazione che altro. Non lo so, ho percepito un feeling che non mi convince. Spero di sbagliarmi. Fra l'altro, non pensavo che avrei mai potuto dire una cosa del genere ma è così: la moda delle cover da pianobar nei trailer è arrivata a farmi rimpiangere le vuvuzela di Inception. Ecco, l'ho detto.

E niente, questa settimana non ho altro da infilare qua dentro. Sarà che sono stato distratto. O sarà anche che mercoledì a pranzo ho ordinato la pizza da Domino's e non mi sono ancora ripreso.

20.2.15

Arrow - Stagione 2


Arrow - Season 2 (USA, 2013/2014)
con Stephen Amell, Emily Bett Rickards, Katie Cassidy, Caity Lotz, Celina Jade, David Ramsey, Manu Bennett, Willa Holland, Colton Haynes, Susanna Thompson, Paul Blackthorne

Dopo una prima stagione divertente, ricca di azione, a tratti un po' in difficoltà nel bilanciare al meglio gli aspetti più assurdi e camp della faccenda, oltre che nel gestire l'ingaggio dell'insopportabile cagna maledetta Katie Cassidy per un ruolo di punta, la seconda annata di Arrow apre tutto e si lancia nel vuoto senza vergogna. Un tuffo eseguito in vari modi, fra i quali spiccano magari l'inserimento di una trovata narrativa abbastanza contestualizzata per introdurre il concetto di superpoteri e più in generale lo sciogliersi un po' sul tono, andando fra l'altro a formare meglio il protagonista, che da quella specie di giustiziere della notte che era inizialmente cambia in qualcosa di un po' diverso. Nel mentre, ahinoi, si continua a dar spazio a quella cagna maledetta, affidandole definitivamente il ruolo – fondamentale in quasi tutte le serie TV americane di un certo tipo – della stordita che piazza un errore dietro l'altro, non è in grado di avere relazioni umane dignitose e crea continuamente problemi. Una delizia.

Ma insomma, sorvolando su questo piccolo dettaglio, la seconda stagione di Arrow è, tanto quanto la prima e forse anche di più, uno spacco. Certo, bisogna voler guardare un telefilm di supereroi che prende la saggia decisione di staccarsi un po' dal nolanismo che infettava il primo anno e apre maggiormente le porte al fantastico, all'assurdo e al puramente geek (la mascherina! Le apparizioni e gli omaggi che escono dalle fottute pareti! Flash! La Suicide Squad! Il supergruppo!) ma, insomma, stiamo parlando della serie basata sul Robin Hood dei fumetti DC, non è che ci si possa aspettare molto di diverso. E va bene così, anche perché gli autori continuano ad essere molto bravi nel giocarsi le loro carte, bilanciando l'ansia da apparizioni speciali, riferimenti e tripudio geek con un buon lavoro di equilibrismo nel mantenere comunque la serie accessibile per chi non coglie neanche un centesimo di tutto quel che viene recuperato.

Il risultato è una serie action divertente, piena di scazzottate e assurdità, che si gioca bene il parallelo fra presente e passato coi misteri dell'isola. E soprattutto lo sfrutta per costruire come si deve il rapporto fra protagonista e principale antagonista, che dà poi vita a un gran bel crescendo nella seconda metà di stagione, nonostante Manu Bennett che fa il serio con la vocina bisbigliante sia abbastanza impresentabile. Fra l'altro, ma come mai tutti quelli che tornano dall'isola bisbigliano? È il cambio di clima? Una volta che ti sei abituato a quell'umidità, la secca Starling City ti asciuga le corde vocali? Vai a sapere. Ad ogni modo, Arrow è una serie magari un po' scema, sicuramente assai sopra le righe e che quando la butta troppo sul melodramma fa fatica, ma che ha la saggezza di abbracciare il suo essere una tamarrata in maniera semplice, diretta e in fondo adorabile. Bene così.

Me lo sono visto su Netflix, in lingua originale e in tutto lo splendore del tripudio di voci impostate, bisbigli e accenti improbabili. Va detto che in binge watching probabilmente guadagna un sacco, perché smaltisci più facilmente le puntate che la buttano troppo sul piagnisteo.

19.2.15

Agent Carter 01X07: "SNAFU"


Agent Carter 01X07: "SNAFU" (USA, 2015)
creato da Christopher Markus e Stephen McFeely
puntata diretta da Vincent Misiano
con Hayley Atwell, James D'Arcy, Shea Whigham, Chad Michael Murray, Enver Gjokaj, Bridget Regan, Ralph Brown

Al termine di un'altra ottima puntata per quella che a conti fatti, pur fra qualche alto e basso (e in attesa di scoprire come andrà coi progetti Sony e Netflix), rischia davvero di essere la miglior serie fumettistica sulla piazza, mi sono rimasti in mente soprattutto due pensieri. Da un lato, l'apprezzamento per il modo in cui, come già in Agents of S.H.I.E.L.D., gli autori riescono a iniettare improvvise botte di atmosfera cupa e svolte drammatiche all'interno di una serie che in larga misura punta su un taglio solare, colorato e accattivante. Dall'altro, la bravura di Hayley Hatwell, che qui splende anche più del solito e si mangia la scena a più riprese, rubandola a tutti quanti nelle varie fasi di un confronto multiplo a parole davvero ben condotto. L'unico che le tiene testa è James D'Arcy e infatti i duetti tra i due rimangono fra i momenti più gustosi della serie.

Ma in realtà ci sono altri aspetti che mi hanno colpito. Per esempio il modo un po' subdolo, poco appariscente, in cui gli autori sono riusciti a rendere interessanti personaggi che sulle prime parevano cartonati o poco più. A conti fatti, senza neanche accorgermene, mi sono affezionato al cast e mi sono ritrovato abbastanza in preda alla tensione quando è diventato evidente in fretta che in questa puntata qualcuno rischiava di lasciarci le penne. Oltretutto, la scena in cui è poi accaduto è stata davvero ben gestita, a coronamento di una puntata che ha saputo perfino dare maggior senso a tutta la faccenda dell'ipnosi, con un bel viaggio surreale nella mente della vittima.

A proposito, un'altra testimonianza della qualità di Agent Carter sta nel fatto che, di settimana in settimana, ci si trova a chiacchierare soprattutto delle puntate in sé, senza perdere troppo tempo dietro a riferimenti e omaggi incrociati ai fumetti. E non è che questi ultimi manchino, fra il programma Vedova Nera, Leviathan, quella macchietta di Ivchenko (che sembra proprio essere una reintepretazione del dottor Faustus) e l'armatura Stark protagonista qui del gran finale, che fa ovviamente pensare a una certa altra armatura targata Stark senza che la cosa risulti forzata o troppo sottolineata. Insomma, Agent Carter, pur non facendo nulla per cui valga la pena di gridare al miracolo, è proprio una bella (mini)serie, caricata splendidamente sulle spalle di un'ottima attrice, interessante nei temi e capace di alzare a dovere il ritmo quando serve. Speriamo che la prossima puntata riesca a chiudere tutto come si deve.

E poi tornano gli agenti del presente, con tutto il loro carico di inumani e di inevitabili aspettative. Incrociamo i diti e speriamo bene.

18.2.15

Justified - Stagione 5


Justified - Season 5 (USA, 2014)
sviluppato da Graham Yost
con Timothy Olyphant, Walton Goggins, Joelle Carter, Nick Searcy, Jere Burns, Michael Rapaport, Alicia Witt, Amy Smart

Ci sono opere che crescono nel ricordo, sedimentano, finiscono per diventare qualcosa di ben più grande rispetto a ciò che ti erano parse mentre te le gustavi e ti riempiono un grosso spazio nel cuoricino. Ce ne sono invece altre che scivolano sempre più in basso ogni volta che ci ripensi, scavando un tunnel senza fondo. Ecco, magari esagero, ma la quinta stagione di Justified mi fa proprio questo effetto qui: già mentre la guardavo ero brutalmente perplesso, ma più ci ripenso e più son deluso da un'annata brutalmente al di sotto delle aspettative. Poi, certo, si può discutere delle aspettative, ma non è mica colpa mia se dopo quattro stagioni di livello altissimo, seppur con qualche alto e basso, mi aspetto meraviglie da una quinta che vede l'aggiunta di Michael Rapaport nel ruolo di antagonista principale. E sì che ho voluto crederci fino in fondo. Del resto, già la quarta annata non era partita nel migliore dei modi, ma aveva poi saputo riprendersi alla grande, regalando un crescendo che levati. Per cui, insomma, ci si sperava, tanto più che proprio in generale Justifed è sempre stato un diesel, che parte piano, ti assorbe e poi decolla.

E invece qui c'è proprio poco da salvare, in una stagione che sbaglia tutto lo sbagliabile, trova pochi motivi di redenzione e a conti fatti lascia addosso la sensazione di aver guardato tredici puntate di prologo per il conflitto finale che si scatenerà nell'annata conclusiva. Intendiamoci, qualche puntata di spessore c'è, gli attori, quando vengono chiamati al dunque, fanno un gran lavoro, Alicia Witt è una rossa da urlo e il crescendo finale è parecchio divertente, ma appunto: ogni volta che la serie torna ad ingranare, ogni attimo in cui tutto va al suo posto, viene sottolineato in maniera impietosa quanto non vada tutto il resto. E l'esempio forse più grande sta nell'improvvisa scarica elettrica portata da quella breve apparizione di Dickie Bennet, piazzata lì quasi a ricordare tutto quel che manca. Ad ogni modo, inutile girarci attorno, il problema è Ava: tutte le sue menate in prigione sono stupide, superflue, tragicamente dalle parti del ridicolo. Sembra di star davanti a una di quelle sottotrame intollerabili che si manifestavano in ogni singola stagione di 24 quando c'era bisogno di allungare il brodo per star dietro alla narrazione in tempo reale. Ava Crowder come Kim Bauer. E non è un complimento.

Il problema è che questo avviene in una serie che di puntate ne ha solo tredici e a discapito di mille altre cose più interessanti che si sarebbero potute fare. Nella quarta stagione si era dato maggior spazio ai colleghi di Raylan, con risultati eccellenti, e qui tornano in disparte. In diverse puntate si gettano lì spunti interessanti che poi vengono completamente dimenticati. La stessa famiglia Crowes, che teoricamente dovrebbe avere un ruolo di primo piano, è un enorme spreco di potenziale, con personaggi che non fanno praticamente nulla per la maggior parte del tempo nonostante il loro evidente mangiarsi tutto quando vengono lasciati liberi di agire. Insomma, il problema è che il potenziale c'era, lo si vede chiaramente in quei momenti che riescono a sfruttarlo, ma è stato sprecato in nome di scelte perlomeno discutibili. Poi, di nuovo, magari esagero, ma non ci posso fare niente: durante la visione ero tanto, tanto, tanto deluso e nel ricordo non ha fatto altro che peggiorarmi. Per altro, sarà un caso, è la prima stagione realizzata per intero dopo la morte di Elmore Leonard. Coincidenza? Io non credo.

Intanto leggo cose confortanti sui primi episodi della sesta stagione. Poi boh, vai a sapere, tanto io la guarderò fra un bel po'.

17.2.15

The Honourable Woman


The Honourable Woman (USA/GB, 2014)
ha fatto tutto Hugo Blick
con Maggie Gyllenhaal, Lubna Azabal, Stephen Rea, Andrew Buchan, Philip Arditti

The Honourable Woman è una creatura bizzarra, una coproduzione angloamericana fra BBC e Sundance TV che nasceva già come scomoda e provocatoria nei temi quando è stata concepita e ha involontariamente finito per risultare ancora più d'attualità quando è andata in onda, durante l'estate del 2014. Si tratta di una miniserie da otto puntate, scritta diretta e prodotta da Hugo Blick e interpretata da un cast eccellente, su cui svetta, certo, la forse mai così brava Maggie Gyllenhaal, giustamente premiata ai Golden Globe, ma nel quale è difficile trovare qualcuno fuori posto ed è facile invece innamorarsi di un grande Stephen Rea. Al centro delle vicende ci sono Nessa ed Ephra Stein, che hanno dedicato la propria vita e il proprio lavoro al miraggio della pace in Medio Oriente, in larga misura come risposta agli estremismi di cui era protagonista il loro padre. Proprio quando stanno per compiere un passo fondamentale, ovviamente, ne capitano di tutti i colori e la situazione va a rotoli in una serie di maniere che sarebbe un crimine svelare, quindi mi limito a suggerire con forza la visione e proseguo mettendo in fila una lunga serie di aggettivi.

Scritto, diretto e fotografato in una maniera pazzesca, The Honourable Woman è un fantastico racconto di umanità e spionaggio, figlio illegittimo del miglior Le Carré. Si dipana con la placida lentezza di chi sa come raccontare con calma le proprie storie, costruisce in maniera magistrale una fitta rete di personaggi e intrighi e accumula una tensione devastante, facendola esplodere con colpi da maestro che levati. Da qualsiasi parte la si guardi, è una serie fuori scala, nelle interpretazioni, nei riferimenti estetici, in quell'inseguimento spettrale che chiude la prima puntata, nel dipanarsi dei suoi segreti, nel meraviglioso flashback che, arrivati a metà, spalanca le porte del racconto e fa compiere a tutto quanto il salto di qualità. È un pezzo di televisione pregiato da gustarsi assaporandolo con la giusta calma ed è una fra le cose più belle che vedrete sul piccolo schermo quest'anno.

Insomma, The Honourable Woman è quella serie lì. Quella che non è pubblicizzatissima, non è poi così famosa, eppure fa innamorare perdutamente chiunque la guardi. Adesso, magari, con un Golden Globe in tasca, un po' famosa lo è diventata, ma la sostanza non cambia di molto. È quella serie che consigli a tutti col cuore in mano, perché “Devi troppo guardarla”. E quindi dovete troppo guardarla. Fatelo e anche voi vi ritroverete a consigliarla a chiunque vi passi davanti. Oppure siete delle brutte persone. C'è sempre questa possibilità.

 Mi sono sparato The Honourable Woman su Netflix qualche settimana fa e oggi la serie arriva sulla TV italiana, grazie al sempre amabile lavoro di Sky Atlantic. Mi raccomando, fate i bravi.

The Walking Dead 05X10: "Loro"


The Walking Dead 05X10: "Them" (USA, 2015)
con le mani in pasta di Scott Gimple e Robert Kirkman 
puntata diretta da Heather Bellson
con Andrew Lincoln, Norman Reedus, Lauren Cohan, Sonequa Martin-Green, Steven Yeun, Danai Gurira, Melissa McBride, Michael Cudlitz

Era evidente già nei pipponi esistenziali e nella dipartita della scorsa puntata, lo è ancora di più in questa: siamo in un momento in cui gli autori hanno deciso di spingere il più in basso possibile i propri personaggi, portarne la disperazione ai massimi estremi, dalle parti dell'allegria che si respira, per dire, in un The Road. Se dovessi far finta di niente, direi che mi sembra una scelta un po' estrema e fuori tiro, che rischia di uniformare un cast di personaggi in teoria piuttosto eterogeneo verso un'unica direzione. Ma da persona che ha letto il fumetto, pur evitando di fare anticipazioni, riesco a dare una lettura diversa alla cosa, pensando che si stanno preparando i personaggi per ciò che arriverà a breve. Anzi, a brevissimo, a giudicare da come si conclude la puntata.

Nel mentre, devo dire che ho apprezzato molto di più il modo in cui questo improvviso tuffo nella disperazione ci è stato raccontato qui. Sarà che The Walking Dead non è esattamente popolato da attori sopraffini, sarà che la scrittura ci va spesso giù pesante, sarà quel che sarà, ma trovo funzionino meglio le puntate che se la giocano con dialoghi secchi, brevi, poco insistiti, e soprattutto coi silenzi, con le immagini dirette, esprimendo concetti in due parole e senza sentire il bisogno di farti la didascalia approfondita. Poi, certo, aiuta anche il fatto che a 'sto giro non ci siamo dovuti sorbire il regista che ha scoperto i filtri di Instagram e si diletta col montaggio surreale, onirico e tanto poetico. Ma insomma, il punto è che questa è un'altra di quelle puntate in cui "non succede niente" e che di fatto definiscono l'identità di The Walking Dead, quella che a molti non piace e che a me, in linea di massima, va benissimo. Però senza i pipponi, dai.

A margine, la stagione continua a confermare quanto dichiarato tempo fa da Robert Kirkman, vale a dire che sarebbe stata la più fedele al fumetto, con tante scene e tanti momenti prelevati di peso dalle sue pagine. Questa settimana ci siamo beccati il famoso monologo di Rick, seppur traslato in una situazione diversa, ovviamente modificato in base alle necessità e con una risposta targata Daryl in coda. E poi, come detto, sul finale è apparso un nuovo personaggio, interpretato dal Topher Grace del discount, che apre teoricamente le porte a tutta una nuova fase pescata di peso dal The Walking Dead originale. Forse. Vai a sapere. Dal trailer della prossima puntata non è che si capisca bene. Dai, crediamoci. Io ci credo. E magari poi a fine stagione...

Fra l'altro, sempre nell'ottica del pescare dal fumetto, un po' tutta la puntata sembrava tendere verso quell'altra cosa là legata a Maggie. E invece no. Non ci sarebbe stata male.

16.2.15

Tower Block


Tower Block (GB, 2012)
di James Nunn e Ronnie Thompson
con Sheridan Smith, Ralph Brown, Russell Tovey, Kane Robinson, Jack O'Connell

C'è un termine, "high concept", che viene spesso lanciato in giro di qua e di là e sul cui preciso significato Wikipedia non sembra in grado di darci certezze. E, come sappiamo, se neanche Wikipedia può darci certezze, è finita. Nonostante questo, il termine esiste e tipicamente viene usato - per lo più in ambito cinematografico - per indicare quelle opere basta su una singola idea forte in cui possono essere riassunte. "Un parco giochi pieno di dinosauri clonati!", "Liam Neeson su un aereo preso di mira da un terrorista!", "Gli alieni invadono la periferia londinese!", "Batman si tira le pizze con Superman!", "Liam Neeson cammina fra le tombe!", "Ryan Reynolds seppellito vivo!", "Un bambino vede la gente morta!", "Liam Neeson vuole vendicarsi!"... cose del genere. Ora, magari ho frainteso tutto e sto usando il termine nel modo sbagliato, ma direi che Tower Block ci si infila alla grande.

Uscito in patria nel 2012 e arrivato di recente in Italia sul mercato dell'home video senza passare dal via, il film d'esordio di James Nunn e Ronnie Thompson è ambientato in uno di quegli enormi condomini britannici la cui popolazione si divide fra gente più o meno normale e teppisti violenti. Quelle zone simpatiche, insomma, in cui la differenza fra l'arrivare a casa e il finire al pronto soccorso è sempre molto flebile. O quantomeno così ce li raccontano, io poi non è che ci abbia mai abitato. In questo luogo cinematograficamente affascinante e non a caso negli ultimi anni piuttosto sfruttato, troviamo una situazione particolare: l'edificio è ormai quasi disabitato causa demolizione imminente e sono rimasti solo gli inquilini dell'ultimo piano, che ovviamente sono un tripudio di diversità umana, dalla coppia anziana alla single depressa, passando per la ragazza madre rincretinita, la famigliola col bambino fanatico di Battlefield 3 e ovviamente una tripletta di criminali. E qui scatta l'high concept: un cecchino piazzato nel palazzo di fronte ha deciso che vuole ammazzarli tutti e loro non hanno modo di scappare, perché l'ascensore è bloccato, l'uscita sul retro è barricata e gettarsi lungo le scale con vetrata equivale a urlare "pull!".

Tolta la ventina di minuti iniziale, dedicata a creare un contesto per la situazione e a definire i personaggi, il resto del film è esattemente quel che ci si può aspettare da una situazione del genere, gestita all'insegna del budget ridotto, del non farsi particolari problemi ad ammazzare qualunque personaggio e della tensione. L'azione vera e propria, a conti fatti, è pochina, ma il lavoro sull'accumulo di tensione è svolto bene, non ci sono svolte insensate o comportamenti cretini e, per quanto tutto sia lineare e abbastanza prevedibile, ci si diverte parecchio, complice anche la scelta eccellente e mai abbastanza abbracciata di limitarsi a novanta minuti. La baracca, ovviamente, è tenuta in piedi anche e soprattutto dalla sventagliata di caratteristi utilizzati come vittime predestinate, fra i quali svetta a colpi di carisma quel Jack O'Connell poi fattosi notare con '71 e Starred Up (entrambi ancora inediti in Italia) e al momento impegnato nel suo lancio hollywoodiano, fra un 300: L'alba di un impero e un Unbroken. Se Tower Block merita è anche per godersi il suo teppista tanto stronzo ma in fondo dal cuore d'oro che ruba la scena a tutti.

Me lo sono visto in lingua originale ed è il solito tripudio di accenti impresentabili che si trova nei film ambientati all'interno dei palazzoni britannici. E che ci vuoi fare?

15.2.15

Lo spam della domenica pomeriggio: Il film dell'anno (scorso e in corso)


Questa settimana su Outcast abbiamo enucleato tre podcast, perché ormai non ci si controlla più. Il primo dei due Outcast Sound Shower dedicati a Taito, il nuovo Outcast Popcorn e il The Walking Podcast sul ritorno della serie TV zomba sbagliata. Eppoi, chiaro, ieri l'Old! sul febbraio del 1985. Su IGN, nel mentre, mi sono manifestato sotto forma della recensione di Shantae and the Pirate's Curse, di un paio di contributi al nuovo Indiegram e del Dite la vostra di oggi.

Domani, forse, registriamo il Chiacchiere Borderline che abbiamo già rinviato due volte. Vai a sapere.

14.2.15

La robbaccia del sabato mattina: Coach Taylor!


Fra il trailer di Daredevil l'altra settimana, le prime immagini di Jessica Jones e soprattutto il trailer legato al poster qua sopra, è in corso tutto un tripudio Netflix che può farmi solo piacere. Nel frattempo, però, c'è anche quella faccenda di Kevin Feige che va avanti a raccogliere figurine e integra il ragnetto nell'universo cinematografico Marvel, seppur senza levarsi del tutto dalle scatole Sony Pictures. In compenso pare definitivamente tramontata l'era Andrew Garfield. Considerato quanto mi è piaciuto The Amazing Spider-Man 2, non credo mi dispiaccia. Infine, segnalo l'annuncio della messa in lavorazione presso Cinemax di una nuova serie TV tratta da Outcast, un bel fumetto di Robert Kirkman a tema esorcismi che guardacaso mi sono letto giusto l'altro ieri tornando da Londra.



Ed ecco appunto il trailer di Bloodline, una nuova serie Netflix in arrivo a marzo con dentro Coach Taylor e diverse altre genti che mi stanno solo simpatiche. In realtà non sono completamente sicuro che il trailer mi convinca, ma insomma, di certo c'è del potenziale e il cast buttalo.



Questo invece è il trailer di Hitman: Agent 47, il nuovo tentativo di portare al cinema il killerazzo del videogioco danese, con Raylan Givens che cede il posto all'Orlando Bloom del discount. Non so onestamente se aspettarmi buone cose, però il trailer è moderatamente simpatico. Eppoi c'è una scena da Close Range, il nuovo film di Isaac Florentine con Scott Adkins che fa brutto. L'embed è disattivato, sta a questo indirizzo qua, è un piano sequenza che levati, se il film è tutto così (credici) mamma mia.



Aloha, il nuovo film di Cameron Crowe, in arrivo la prossima estate. Un attimo che mi sono rotolate le palle in salotto e devo andare a recuperarle.



The Man from U.N.C.L.E., in Italia sarà Operazione U.N.C.L.E. ed è il film di spionaggio tutto simpatico, divertente e pirletta di Guy Ritchie. Non sono sicuro di capire se mi piaccia. Magari è un po' come Kingsman, che all'inizio non m'attirava e coi trailer successivi, invece...



Last Knights, sembra un po' il film di The Order: 1886 e un po' una puttanata in cui non si capisce come mai ci sia Clive Owen al posto di Nicolas Cage. Però il regista è quello di Kyashan - La rinascita, magari ne viene fuori una roba bella da vedere.









Ieri dovevo andare a vedere Kingsman, ma è scattato l'imprevisto. Però, tornando in treno da Londra, mi sono letto anche quel fumetto. Ed è simpatico, via.

13.2.15

Whiplash


Whiplash (USA, 2014)
di Damien Chazelle
con Miles Teller, J.K. Simmons

Whiplash è il film dell'anno scorso e di quest'anno. E potremmo chiuderla qua, ma andiamo avanti. È il film dell'anno scorso perché, dopo aver fatto faville al Sundance 2014, in autunno è uscito di qua e di là, ma soprattutto in America, e infatti si è infilato alla grande nella stagione dei premi, con J.K. Simmons già giustamente premiato ai Golden Globe. È il film di quest'anno perché in Italia e in buona parte d'Europa ci arriva invece nel 2015 e, per la precisione, dalle nostre parti esce questa settimana. Indicare il film dell'anni a inizio febbraio vale quel che vale, ma il punto è che si tratta di un film meraviglioso e sono abbastanza convinto che fra dieci mesi saremo ancora lì a chiacchierarne indicandolo come una fra le opere più belle uscite in Italia nel 2015. E se, visto il soggetto, ve lo state immaginando come il classico filmetto valido "solo" perché molto ben interpretato, sappiate che state sbagliando, e non di poco. Whiplash è un filmone.

Perché è un filmone? Se lo chiedete a me, per tre motivi. Innanzitutto, sì, perché è interpretato da due attori pazzeschi. Miles Teller è uno fra i nuovi talenti più grossi del momento (se non avete visto The Spectacular Now, è il momento di recuperarlo in qualche modo) e come al solito esprime un'impressionante carica di naturalezza in ogni fibra del suo corpo. In Whiplash si presenta sul ring che ospita il confronto fra studente e maestro con lo sguardo di un pugile suonato al quindicesimo round, ruvido, sudato, sanguinante, insicuro e borioso al tempo stesso, con l'obiettivo della vita chiaro in testa, pronto a tutto per strappare la vittoria sul filo di lana. E all'altro angolo lo aspetta un J.K. Simmons fuori dalla grazia di Dio, un fascio di nervi glabro che afferra la musica in un pugno e detta i tempi del confronto con la potenza di uno sguardo, il flettere di un muscolo, il gesto improvviso di un braccio che scatta come un coltello a serramanico. È una riedizione subdola, elegante, muscolare degli istruttori militari inflessibili visti in mille altri film, solo che lui insegna musica, spreme persone per scoprire talenti. Sono due attori formidabili che assieme, da soli, fanno il film. Eppure il film non è solo loro due. Ah, quanto non lo è.

Il secondo motivo si chiama Damien Chazelle, che in effetti, in quanto regista e sceneggiatore, è all'origine anche del terzo aspetto per cui stiamo parlando di un film maiuscolo. Chazelle, alla sua opera seconda, apre tutto e svela la furia di un nuovo grande regista americano, capace di esprimere una clamorosa personalità in maniera fin troppo netta. Whiplash è un meraviglioso tripudio di ritmo e sintesi, fonde in maniera pazzesca racconto, suono e immagini, trovando una sua forma nuova, originale e mostruosamente adatta a quel che vuole dire. Si apre con una sequenza fantastica, in cui la macchina da presa viene attratta dal suono magnetico della batteria del giovane Andrew e poi, con tre rapidi movimenti, racconta in un attimo tutta la storia del film, trascinandoti dentro come se niente fosse. A quel punto è iniziata, non puoi fare più nulla a parte esserne risucchiato fino in fondo, fino a quel finale pazzesco, perfetto, dall'equilibrio impeccabile.

E infine, si fa per dire, c'è il racconto del rapporto fra i due protagonisti, delle rispettive ossessioni, dell'abuso e della sofferenza a cui ci si sottopone in nome della grandezza e soprattutto di quanto si è disposti a sopportare per inseguirla. C'è un insegnante che ha una visione chiara della vita, di quanto sia inutile accontentarsi, della necessità di spingere oltre il limite umano per raggiungere un obiettivo, e che tramite questa coltre di argomentazioni giustifica il suo accanimento, il suo abuso nei confronti dei ragazzi che si affidano a lui. C'è un allievo che insegue un sogno e mette alla prova il suo essere realmente pronto a tutto per raggiungerlo, alienandosi chiunque gli stia attorno, rinunciando alla propria vita in nome del fatto che l'unica vera vita, in realtà, si nasconde proprio in quel sogno. C'è un film che racconta due personaggi estremi trascinandoti nel vortice a cui danno forma senza fermarsi a giudicarli, senza scivolare nel patetico e nell'emozione a tutti i costi, sapendo sempre alla perfezione quando fermarsi. C'è un capolavoro, puro e semplice.

L'ho visto un mesetto fa, al cinema, qua a Parigi, in lingua originale. E qui casca l'asino: è un film con due attori pazzeschi che si meritano di poter comunicare con la propria voce, ma è anche un film incredibile, da gustarsi, ammirare e ascoltare in preda al piacere di una bella sala cinematografica. Mettiamola così: è una scusa per guardarlo più di una volta. Non che ne servano.

12.2.15

Agent Carter 01X06: "A Sin to Err"


Agent Carter 01X06: "A Sin to Err" (USA, 2015)
creato da Christopher Markus e Stephen McFeely
puntata diretta da Stephen Cragg
con Hayley Atwell, James D'Arcy, Chad Michael Murray, Enver Gjokaj, Bridget Regan, Lyndsy Fonseca, Shea Whigham

Uno dei punti di forza a disposizione di questa serie è il tentativo di recuperare quella sorta di bizzarro equilibrio fra coloratissimo spirito un po' naïf, melodramma e azione che eredita dal primo film di Captain America. Non è un obiettivo semplice, anzi, è spesso facile sbracare in una direzione o nell'altra, ma quando viene centrato, il potenziale sboccia e ci si diverte parecchio. In questa puntata succede? Sì e no. Certi passaggi funzionano per davvero, per esempio grazie alla sempre eccellente intesa fra Hayley Atwell e James D'Arcy, al modo in cui Lyndsy Fonseca sfrutta quel po' di spazio che le viene offerto una volta tanto e anche per il paio di scene d'azione ben orchestrate, ritmate, che regalano una botta di vita ogni volta che le cose sembrano sedersi un po' troppo.

Allo stesso tempo, però, certi aspetti paiono un po' tirati per i capelli e soprattutto per le lunghe. Sarà un problema mio, ma ci mancava poco che le sedute d'ipnotismo del nuovo villain sotto copertura facessero cadere in catalessi pure me. Magari è perché fissavo con troppa attenzione l'anello, chissà. Poco male, comunque, perché (assieme magari all'eccesso di didascalismo sulla bionda super spia che deve prendere appunti quando riceve il messaggio in codice) si tratta di una macchia tutto sommato trascurabile nel contesto di un'altra puntata gradevole, che conferma il dinamismo di una serie in costante movimento e che non ha tempo da perdere nel portare avanti il suo racconto.

È anche una puntata che conferma la bontà della decisione di calcare la mano sul tema del maschilismo diffuso e delle difficoltà da parte di Peggy nel trovare una sua dimensione dopo i trionfi in guerra. Se da un lato è vero che a volte la mano è stata calcata pure troppo, dall'altro si è costruito un bell'arco narrativo che scalda il cuore a ogni piccola vittoria, come quella della concessione da parte del capo che arriva qui. E rende ancora più duro il boccone nel momento in cui all'improvviso va tutto gambe all'aria. In questo, va detto, è fondamentale il contributo di Hayley Atwell, che continua a confermarsi attrice incredibilmente perfetta per il ruolo, efficacissima tanto nel comunicare molto con un semplice cenno quanto nei momenti più sopra le righe. L'anima della serie non smette, giustamente, di essere lei ed è un gran bel pezzo d'anima.

Fra l'altro, OK, i trailer mentono e non dubito lo faccia pure questo, però sembra proprio che la prossima settimana voleranno gli schiaffoni.

11.2.15

Jupiter - Il destino dell'universo


Jupiter Ascending (USA, 2015)
dei Wachowskis
con Mila Kunis, Channing Tatum, Sean Bean e le tonsille di Eddie Redmayne

Il poster qua sopra lo dice chiaramente: 2014. Poi, però, gli inconvenienti, i dubbi, aspetta un attimo che riarrangiamo quel pezzo e aggiungiamo due spiegoni, ma siamo sicuri, chi lo sa, vai a sapere, e il nuovo film della coppia di registi un tempo nota come fratelli Wachowksi viene spostato al 2015. Cosa sia successo realmente nel frattempo non ci è dato saperlo, così come non ci è dato sapere se e quanto il film sia stato rimaneggiato, ma d'altra parte, piaccia o meno, quando arrivi da due flop costosissimi e, invece di lavorare con capitali europei assieme al regista tedesco di film d'autore, torni nelle sapienti (?) mani Warner, non puoi mica aspettarti di aver carta bianca totale per il tuo filmone fantasy/fantascientifico multimilionario nostalgico in stile Flash Gordon. E nel guardare Jupiter è difficile non vederci delle ingerenze più o meno forti dall'alto, mirate al tentivo di uniformarlo agli standard del blockbusterone moderno e levargli quel po' di spirito interessante che poteva avere. Lo si vede nel classico primo atto frettoloso, da cui sembra che siano stati tagliati via tanti momenti di raccordo e che invece di dare sostanza ai personaggi preferisce accelerare per passare in fretta alle esplosioni. E lo si vede nelle esplosioni stesse, che diluiscono qualche bella intuizione visiva in sequenze a conti fatti piuttosto anonime, troppo tirate per le lunghe e pure ripetute, fra il matrimonio da fermare e la firma da impedire. Poi, per carità, magari è tutta farina del sacco Wachowski, ma da qualche parte, in mezzo a questo pastrocchione che non funziona, c'è nascosto un film a cui non sarebbe servito poi moltissimo per essere di gran lunga superiore. È andata male, pazienza.

Eppure non riesco a prendere in antipatia un simile polpettone senza freni, che la butta per intero sul nostalgico recuperare suggestioni anni Ottanta e immaginari con cui i due registi son cresciuti, in un tripudio tutto incentrato sul costruire e raccontare un universo enorme, sopra le righe, coloratissimo, barocco, senza freni e senza vergogna. C'è dentro veramente di tutto, da Channing Tatum cane ai robottoni, passando per le astronavi abnormi con le statue sulla balconata, i reggenti stellari che commerciano in vite umane, la burocrazia intergalattica con Terry Gilliam e gli schiavi animali antropomorfi. Le suggestioni visive sparano in ogni direzione, ci sono pianeti e agglomerati stellari che paiono arrivare dagli aborti stellari più recenti di George Lucas e altri che escono dritti dritti dalla pittura ottocentesca, trovate che fulminano lo sguardo e altre che non hanno davvero nulla da dire, è un tripudio di accumulo che non può funzionare per definizione e in cui però, se ci si lascia andare con gli occhi spalancati, si trova tanto di bello. E la trovata forte attorno a cui ruota l'azione, il Channing Tatum orecchiuto che pattina per aria, è una delizia posta al centro di scene action assemblate e coreografate con la solita potenza dei Wachowski, oltre che, ancora una volta, all'insegna di una carica innovativa tecnologica magari meno forte e immediatamente percepibile rispetto a quella di Matrix, ma comunque interessante per il modo in cui riesce a dar vita a un'azione impossibile comunque fatta in larga misura di stunt fisici. In compenso, tolto appunto il pattinare per aria, quel che manca è un po' di originalità, perché da un lato è vero che è un tentativo di raccontare una storia non basata su proprietà intellettuali già esistenti, ma dall'altro è tutto un recuperare cose che piacciono ai Wachowski e immergerle nei loro soliti temi a base di prescelti ed esseri umani allevati in batteria. Se il colpo di scena più sorprendente del film sta nel fatto che Sean Bean non muore pur avendono la possibilità almeno un paio di volte, è evidente che qualcosa non funziona.

Al di là di tutto questo, Jupiter è a modo suo interessante perché in un epoca che ci ha abituati ad eroine totalmente attive e padrone del proprio destino recupera la favola di Cenerentola, prendendo una Mila Kunis immigrata russa che lava i cessi e trasportandola in un'avventura fuori dal mondo, che la sballotta in giro nel costante ruolo di damigella da salvare. Eppure, a modo suo, Jupiter non racconta la solita storia della poveretta che aspira a rifarsi una vita sposando il principe di passaggio e, anzi, si potrebbe addirittura sostenere che sia un pregio il limitare il suo coinvolgimento nel lato action a una ginocchiata nelle palle. Di fondo, abbiamo una donna che diventa eroina non perché accetta un matrimonio o si lancia in battaglia, ma perché invece di prendere in mano un arco prende in mano la sua vita e decide cosa farne in base ai propri principi. Poi, certo, la sua storia, per quanto centrale negli eventi, rimane sullo sfondo, così come quella di qualsiasi altro personaggio, per lasciar spazio al tripudio d'immagini, suoni e colori. Ma d'altra parte, per l'appunto, il grosso problema del film sta soprattutto lì, nella valanga di cose buttate in mezzo e in un cast sottosfruttato, con forse il solo Caine Wise a poter vantare un minimo d'approfondimento. Poi, certo, si può discutere del senso del ridicolo, di Channing Tatum truccato da pirla e delle assurdità variopinte, ma onestamente - e sarà un limite mio - fatico a capire perché quel che si vede in questo film debba essere più ridicolo di un albero e un procione parlanti, un biondo gonfio come un canotto ammantato nella bandiera americana, Barbie con la barba e il martello e tante altre cose che ci facciamo andare bene. Jupiter la butta sul fantastico un po' scemo, si prende tantissimo in giro e non ha paura del ridicolo. Il che può anche renderlo ridicolo, ci mancherebbe, ma personalmente l'ho trovato simpatico, divertente e tutto sommato tenuto in piedi da quel puccettone di Channing Tatum. Poi, certo, Mila Kunis ha costantemente lo sguardo di una a cui non interessa quel che sta facendo ed Eddie Redmayne che bisbiglia tutto il tempo e ogni tanto sbraita a caso sembra un cattivo di Ken il guerriero, ma insomma alla fine sono pure in contesto. Probabilmente, la chiave per divertirsi con 'sto pasticcio, pur ammettendo che in larga misura lo è, un pasticcio, sta nell'apprezzare Channing Tatum: a me sta simpatico e nel ruolo del cucciolone (letterale) mi sembra che funzioni bene. Se non lo si tollera, va malissimo. Se al suo posto ci fosse stata Jennifer Lawrence, forse, non si lamenterebbe nessuno.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, in lingua originale e in 3D nella sala col Dolby Atmos e tutte quelle sigle strane di cui ho rinunciato a capir qualcosa. Eddie Redmayne è terribile anche in lingua originale, tranquilli, però va detto che questo è il classico film che viaggia costantemente in bilico fra il ridicolo volontario e quello involontario, vale a dire il classico film a cui il doppiaggio fa probabilmente un sacco di danni. Poi, per carità, io in italiano non l'ho visto, quindi vai a sapere. Il 3D è abbastanza spettacolare e, soprattutto, mostra un Channing Tatum che pattina e svolazza in giro tutto piccolino e ti fa venir voglia di allungare la mano e afferrarlo con le dita.

10.2.15

The Walking Dead 05X09: "Non è finita"


The Walking Dead 05X09: "What Happened and What's Going On" (USA, 2015)
con le mani in pasta di Scott Gimple e Robert Kirkman 
puntata diretta da Greg Nicotero
con Andrew Lincoln, Steven Yeun, Chad L. Coleman, Danai Gurira, Tyler James Williams

Attenzione, di solito evito, ma stavolta parlerò in libertà di quel che accade nella puntata, perché mi va di fare così e perché non mi vengono in mente altri modi per scriverne. Limite mio, sicuramente.

E niente, era nell'aria ormai da tempo, per certi versi sembra essere un po' l'assunto di base attorno a cui è stata costruita un po' tutta la quinta stagione, stavamo insomma dalle parti dell'inevitabile: ci siamo levati di mezzo Tyreese e i suoi monologhi da piangina. Mi dispiace? No, non mi dispiace, anche perché - sarà che durante la pausa invernale mi sono viziato divertendomi come uno scemo davanti a Z Nation - quando se n'è rimasto appositamente in disparte con Noah perché voleva mettersi a fargli la predica, m'ha preso tutto un improvviso turbamento di violenza e m'è venuta una discreta voglia di lanciare il telecomando contro lo schermo della TV. Per fortuna mi sono trattenuto. E per fortuna gli autori si son resi conto che stavolta la manovra Shane non era riuscita. Pur fra alti e bassi, quel personaggio, una volta "sopravvissuto" più di quanto avesse fatto nella sua edizione fumettistica, aveva trovato una sua dimensione. Tyreese no.

Tyreese non aveva trovato altro da fare che piangere, lamentarsi, piangere, lamentarsi, predicare bene, razzolare male, piangere, lamentarsi e far da baby sitter. Anche fuor di paragone - impietoso - con il Tyreese dei fumetti, si trattava di un personaggio superfluo, sviluppato male, che sembrava aver già detto tutto quel (poco) che aveva da dire. Uno spreco, insomma, tanto del personaggio quanto del valido attore ingaggiato per interpretarlo. Ma soprattutto, e si torna al punto di partenza, in una stagione dedicata al raccontare di come ormai solo chi ha la pelle dura possa sopravvivere (o rimanerci comunque secco per un errore) e del modo in cui chi è arrivato fino a qui l'ha fatto perdendosi per strada brandelli d'anima, uno ridotto in queste condizioni non poteva che finire male. Per quanto si tratti di una morte prevedibile, però, devo dire che è stata orchestrata bene, in maniera tutto sommato sorprendente ed efficace, vuoi perché uno non si aspetta due "cadute" di peso in episodi consecutivi, seppur con la pausa in mezzo, vuoi per la struttura scombinata del racconto.

Quello che all'inizio sembra solo un montaggio da tesina universitaria tramite cui mostrare in maniera ganza il lutto per Beth, sulla distanza si rivela essere figlio dello stato allucinatorio in cui piomba Tyreese, e soprattutto legato alla sua, di morte. Una bella trovata, che contribuisce allo sgomento delle fasi finali, per altro ben costruite anche nell'ottica di lasciarti lì appeso per un po', abbandonato a quella situazione in cui sai che è finita eppure, per qualche motivo, ti viene il dubbio che forse si trovi una via d'uscita. Non fosse che tutto questo ruotava attorno a un personaggio che con me non ha mai funzionato, probabilmente, sarei qui a parlarne come di un grandissimo episodio. O forse no, forse non l'avrei fatto comunque, perché fatico davvero a digerire i centododici monologhi che ripetono le stesse cose, quelle stesse cose ribadite più e più volte in tutte le puntate precedenti, perché non sia mai che si lasci qualcosa al non detto, bisogna spiegare e sottolineare i temi per benino. Ma immagino sia soprattutto un problema mio.

E la prossima settimana, a giudicare dal trailer, ci si butta decisamente on the road. Mi sembra una cosa positiva. Meno monologhi, più mattanza, per favore.

9.2.15

The Strain - Stagione 1


The Strain - Season 1 (USA, 2014)
creato da Guillermo del Toro e Chuck Hogan
con Corey Stoll, David Bradley, Mia Maestro, Kevin Durand, Jonathan Hyde, Richard Sammel, Sean Astin, Miguel Gomez 

Nato come trilogia di romanzi scritti a quattro mani da Guillermo del Toro e Chuck Hogan, portato poi da loro stessi sui sanguinari schermi FX, con la collaborazione di quel Carlton Cuse a cui dobbiamo, nel bene e nel male, sei anni di Lost, The Strain è un'operazione che per certi versi può ricordare il fumetto American Vampire. Recuperando un po' il design dei vampiri mutanti che aveva utilizzato nel'ottimo, e forse sottovalutato, Blade 2, del Toro prova a restituire ai succhiasangue una dimensione mostruosa, sanguinaria, virale, realmente spaventosa, lontana dai pizzetti, dalle mossette e dai luccichii diurni a cui siamo ormai abituati. I vampiri di del Toro e Hogan sono creature disgustose e violente, che hanno solo una cosa in testa, attaccano e contagiano usando tentacoli, bava, vermi, mordono in maniera distruttiva e distorcono l'amore trasformandolo in metodologia per la selezione della preda. Una fra le intuizioni più felici di The Strain, infatti, è quella secondo cui i trasformati, come prima cosa una volta tornati in piedi, vanno alla ricerca di chi amavano in vita per cibarsene. È un'idea potente e viene sfruttata piuttosto bene, meglio di tanti altri spunti che finiscono invece abbandonati a loro stessi, in una serie che, purtroppo, in comune con American Vampire ha anche l'incostanza, il passare da momenti davvero notevoli ad altri da latte alle ginocchia.

La scelta di mostrare in maniera approfondita l'esplosione dell'epidemia, le prime fasi di un'apocalisse a base di non morti, è interessante, o comunque perlomeno originale, se consideriamo che la stragrande maggioranza dei racconti di questo tipo parte direttamente a disastro avvenuto o ci arriva molto in fretta a botte di ellissi. Il problema è che c'è un motivo se in genere si sceglie di fare così: le fasi iniziali dell'epidemia sono una gran rottura di palle, un trascinarsi verso l'inevitabile arrivo del divertimento vero. E infatti questa prima stagione di The Strain è, in larga misura, un susseguirsi di momenti in cui sei lì che aspetti l'esplosione del caos e questo non ne vuole sapere. Ma soprattutto, a giochi finiti, si ha la sensazione di aver guardato un lungo prologo. Da un lato ci sta, considerando che fin dall'inizio - ascolti permettendo - sono state progettate cinque stagioni e tutto sommato si vede il potenziale per sviluppi intriganti, con tanta carne gettata sul fuoco. Dall'altro, però, ci si trova ad aver guardato per sette puntate delle divagazioni neanche malvagie, ma che a conti fatti si sono confermate essere appunto divagazioni che si perdono nel nulla, e per le sei successive un bel crescendo il cui culmine non può che essere però un nulla di fatto.

In più, a gravare sulla riuscita di The Strain ci si mette anche il budget da serie TV. Mettere in scena una New York in preda all'apocalisse non è cosa da poco e infatti non è che qui ci si riesca molto bene. A tratti l'illusione quasi regge, soprattutto grazie al lavoro sull'audio, un tripudio di sangue cavato dalle rape, ma per la maggior parte del tempo non si capisce dove caspita sia il delirio a cui la storia cerca disperatamente di farci credere. Quella che dovrebbe essere una faccenda che colpisce su ampia scala finisce per restituire il sapore di questioni molto ridotte, circoscritte ai protagonisti. E la cosa potrebbe anche andare bene, visto che in fondo al centro dell'azione ci sono le loro storie, ma si crea un'incoerenza di fondo a tratti davvero storta. E poi ci sono i vampiri. Da un lato, le creature funzionano bene pur senza essere questo tripudio di effetti speciali allo stato dell'arte: nonostante qualche passo falso, sono disgustose e inquietanti. Il loro capetto, però, il maestro che diventa in fretta l'antagonista principale, è inguardabile. Ma proprio inguardabile, eh.

Per fortuna c'è Vasiliy.

Magari la cosa è in parte voluta, un tentativo di mettere in mostra una qualche forma di orrore ridicolo, ma rimane il fatto che quella che dovrebbe essere la presenza più minacciosa della serie, ogni volta che offre un primo piano, al massimo minaccia di far ridere. Per fortuna, consapevolmente o meno, gli autori scelgono di mostrarlo il meno possibile e il vero ruolo di principale antagonista, perlomeno in questa prima stagione, va al suo galoppino, lui sì davvero efficace. A interpretarlo c'è l'ottimo Richard Sammel, che gli regala un taglio quasi macchiettistico, ma proprio per questo efficace. Il suo Eichhorst, per altro, è anche al centro del classico parallelo tanto caro a del Toro fra horrore sovrannaturale e schifezze perpetrate dall'umanità, immancabile seppur non riuscito come nei suoi migliori film. Più in generale, a tenere in piedi la serie sono proprio gli attori e il carisma che ci mettono, nonostante una scrittura spesso discutibile.

Corey Stoll, al di là del parrucchino impresentabile, fa da centro nevralgico e morale alle vicende e inietta la giusta dose di insopportabile pragmatismo in un personaggio che rappresenta l'ancora alla normalità in un cast costantemente piazzato due metri sopra alle righe. Il Vasiliy Fet di Kevin Durand, col suo cambiare quattro accenti al minuto, è meraviglioso. Praticamente è lo Jena Plissken dei derattizzatori e ogni volta che gli viene lasciato spazio si mangia tutti quanti. L'ottimo David Bradley dà il massimo e regala carisma a un ruolo onestamente ingrato, considerando che passa il tutto il tempo a declamare spiegoni e strillare dietro a chi non lo ascolta, mentre il suo personaggio viene sviluppato nei flashback da un altro attore. Sean Astin fa il suo dovere in quella che è sostanzialmente una versione più tenerona del ruolo che aveva in 24. E poi c'è il trio femminile, che lascia di stucco perché, incredibilmente, abbiamo una serie televisiva di genere americana in cui ci sono nel cast fisso non una, non due ma addirittura tre donne che non hanno la sola funzione di risultare insopportabili e compiere gesti insensati che mettono tutti nei guai. Per essere una serie che non si fa il minimo problema ad abbracciare tutti i cliché possibili e immaginabili, è apprezzabile che The Strain voglia evitare di ricadere proprio in questo (poi, certo, l'hacker super gnocca, ma insomma, non chiediamo troppo).

E intendiamoci, i personaggi macchietta fastidiosi non mancano, soprattutto considerando che anche qui non ci è stato risparmiato il solito figlio pasticcione interpretato da un cane maledetto, ma complessivamente non fanno molti danni. La verità, però, è che The Strain dà il suo meglio quando abbraccia fino in fondo la sua natura camp e la butta in caciara, lasciando spazio ai personaggi più sopra le righe e alle sue esplosioni folli. E in questo senso, più o meno tutto ciò che riguarda l'entrata in scena dei vampiri (sì, anche dell'inguardabile maestro) fa decisamente il suo dovere. Ci sono idee e momenti proprio azzeccati, dalla vasca da bagno ai problemi d'urologia di Bolivar, passando per i diversi confronti con Eichhorst e il maestro o sequenze azzeccate come quell'attacco alla casa di cura, messo in scena (da Peter Weller, nientemeno) con inquietante, banale normalità. E c'è l'ottavo episodio, il più riuscito dall'inizio alla fine (a parte magari il pilota, ma quello l'ha diretto del Toro e ci mancherebbe altro), che con quel coinvolgente assedio alla stazione di benzina imprime una svolta alla stagione e sembra promettere qualcosa che poi non arriverà fino in fondo. Ma per tutti questi motivi, nonostante i suoi limiti, The Strain è una serie che si lascia guardare con piacere, che quando ingrana sa essere parecchio divertente e che ci fa il favore di restituire ai vampiri la loro dimensione di mostri nascosti nell'ombra. La speranza è che andando avanti riesca a correggere il tiro e liberarsi dei suoi aspetti meno riusciti. In questo senso, perlomeno, la velocità con cui gli autori sembrano disposti a mettere fuori gioco i personaggi e mietere vittime fra il cast di supporto fa ben sperare.

In America l'han trasmesso l'anno scorso, a cavallo fra estate e autunno. In Italia ci arriva questa sera su Fox. Se potete, cercate di guardarlo in lingua originale, un po' perché gli accenti di Richard Sammel e Kevin Durand fanno metà dei rispettivi personaggi, un po' perché una serie così costantemente in bilico sull'orlo del ridicolo è facile farla sbracare col doppiaggio.

 
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