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31.3.15

The Walking Dead 05X16: "Conquistare"


The Walking Dead 05X16: "Conquer" (USA, 2015)
con le mani in pasta di Scott Gimple e Robert Kirkman 
puntata diretta da Greg Nicotero
con Andrew Lincoln, Steven Yeun, Danai Gurira, Melissa McBride, Norman Reedus, Lauren Cohan, Michael Cudlitz, Chandler Riggs, Sonequa Martin-Green

E anche quest'anno siamo arrivati alla fine, con una puntata conclusiva un po' più lunga del solito (un'ora e spiccioli senza pubblicità) che, come da tradizione della serie, non cerca necessariamente il "botto", la tranciata finale che ti lascia appeso, e punta piuttosto sul portare a compimento i vari discorsi aperti e gettar lì una serie di questioni che verranno affrontate nell'annata successiva. Insomma, per i cliffhanger che ti abbandonano sul divano con gli occhi insaguinati, urlando e sbavando contro la TV, insultando il dio sceneggiatore infame, bisogna rivolgersi altrove. Voglio dire, quand'è stata l'ultima volta che un finale di stagione di The Walking Dead ci ha abbandonati preda della disperazione? Io non me la ricordo, onestamente. Quei momenti se li tengono per metà stagione. Al massimo, toh, potrei citare il finale della seconda annata e il modo in cui mi aveva gasato il mix fra il lancio della Ricktocracy, con forse l'ultimo monologo davvero gustoso di Andrew Lincoln, e le fugaci apparizioni di prigione e Michonne. Ma insomma, ormai ci siamo abituati. La questione è un'altra: si è chiuso bene, questo bel filotto di puntate consecutive dalla gran qualità?

Secondo me sì, pur magari con qualche perplessità. In generale, la scelta di realizzare una puntata "allungata" ha fatto bene allo sviluppo del racconto e dei personaggi, permettendo agli autori di prendersi i loro tempi per raccontare tutto quel che volevano e costruire il crescendo conclusivo nella maniera giusta. Dall'altro, a tratti, ho avuto un po' la sensazione di stare guardando il Let's Play di un episodio del The Walking Dead di Telltale Games, in cui ogni singolo personaggio ha a disposizione almeno un minutino per dire la sua e far ciao con la manina. Giusto? Sbagliato? Probabilmente anche un po' inevitabile, nel momento in cui vuoi fare il punto della situazione e tirare le fila delle varie faccende, ma tant'è, a tratti m'è parso un po' forzato. Allo stesso tempo, però, ne sono venuti fuori discorsi interessanti, fra questa Carol ormai sempre più Terminator, anche al punto di rischiare d'alienarsi un po' i compagni, questo Glenn costretto a prendere in mano la situazione e far vedere nuovamente di che pasta è fatto e quella Sasha che sembra proprio star partendo per la tangente tanto quanto il fratello. In generale, ho l'impressione che la stagione si sia chiusa riuscendo nell'impresa di tornare a dare solidità a un po' tutti i personaggi, compresi quelli che, come Glenn e Maggie, si erano persi per strada. Non è poco, considerando quanto è diventato ampio il cast (ciao Morgan!).

In tutto questo, han funzionato bene anche i momenti un po' più d'azione, a cominciare da quella articolata trappola che mostra almeno un po' le azioni dei "lupi". A proposito: chi sono? Faranno parte di quelle cose che chi ha letto i fumetti attende con ansia? Non penso. Saranno il tema principale dell'avvio di sesta stagione? Probabile. Potrebbero essere gli esiliati da Alexandria di cui si è parlato un paio di volte? Vai a sapere. Onestamente, nella loro breve apparizione, non mi hanno convinto molto, sono serviti più che altro a farci vedere Morgan in versione Denzel/Eli, ma ci sarà tempo per approfondirli. Bene invece la scazzottata notturna fra Glenn e Nicholas, come un po' tutta la sottotrama che li ha riguardati, e molto bene il crescendo finale, con quel montaggio alternato che porta al dunque i vari casini in ballo mentre tutti parlano alla riunione e Abraham dà spettacolo grazie alla sua capacità di sintetizzare i concetti in un paio di "shit". Il tutto poi per condurre a un gran finale in cui, forse prevedibilmente, non abbiamo visto nuove morti di peso, ma gli autori sono stati comunque bravi a sfruttare il paio di vittime predestinate in maniera intelligente, per dare loro un peso forte nello sviluppo delle vicende. Quella della sesta stagione sarà un'Alexandria parecchio diversa, guidata da un Rick che si è esibito in un discorsone non poi così dissimile da quello che chiuse la seconda annata. E sarà un'Alexandria che sono molto curioso di visitare, anche perché, a questo punto mi sento di dirlo, pur coi suoi alti e bassi e i suoi problemi, questa quinta stagione di The Walking Dead potrebbe essere la mia preferita. Del resto a me capita spesso che la quinta annata di un telefilm sia la mia preferita. Coincidenza? Io non credo.

E adesso vediamo un po' come va con lo spin-off, che dovrebbe arrivare in estate.

30.3.15

Into the Woods


Into the Woods (USA, 2014)
di Rob Marshall
con James Corden, Emily Blunt, Anna Kendrick, Meryl Streep, Chris Pine e cinque minuti di Johnny Depp

Dodici anni dopo il successo di Chicago, tre anni dopo le pernacchie di Nine, Rob Marshall è tornato al musical cinematografico con l'adattamento di Into the Woods, classico surreale della Broadway anni Ottanta che mescola assieme svariate fiabe, tirandone fuori una sorta di Avengers fantasy pieno di gente che canta e dà spettacolo. O qualcosa del genere. Ne è venuto fuori un film polarizzante, che ha convinto pochi e generato critiche da tutte le direzioni, fra chi si lamentava per l'esclusione di parti importanti dello spettacolo originale e chi invece lo riteneva troppo lungo. Eppure, tutto sommato, per quanto imperfetto, Into the Woods è un bel musical divertente, che conserva almeno in parte lo spirito dissacrante dello spettacolo originale, pur risultando almeno un po' addomesticato, probabilmente in larga misura per le richieste di mamma Disney.

La storia di Into the Woods, come detto, mescola assieme un po' di tutto, da Cappuccetto Rosso a Cenerentola, passando per Raperonzolo (o forse oggi si dice Rapunzel) e Jack e il fagiolo magico. A far da filo conduttore in questo minestrone ci pensano la coppia di panettieri protagonisti (James Corden ed Emily Blunt), che non riescono ad avere figli e per questo accettano la proposta della strega cattiva di Meryl Streep, infilandosi in una serie di avventure che coinvolgono tutti quanti. Quando però il film sembra stare concludendosi all'insegna del far vivere tutti felici e contenti, scatta il twist. Pare che all'epoca dello spettacolo originale, il compositore Stephen Sondheim abbia dovuto inseguire la gente uscita dal teatro all'intervallo per spiegare loro che erano solo a metà. E in effetti, non conoscendo il musical, quando tutti i discorsi sembravano stare chiudendosi, mi sono ritrovato a controllare l'orologio chiedendomi come potesse mancare ancora quasi un'ora.

Ma in fondo lo spirito di Into the Woods, anche della versione cinematografica, sta tutto lì. C'è una prima parte che, pur nel suo minestrone bizzarro, racconta una favolona abbastanza classica, dall'aria allegra e ottimista, accompagnandola con dei bei numeri musicali. Qui dà il massimo l'aspetto comico della faccenda, con in particolare una prova strepitosa (e sorprendente) di Chris Pine nei panni del principe azzurro di Cenerentola, che raggiunge l'apice nel suo duetto col fratello principe azzurro di Rapunzel, quando si sparano le pose in riva al fiume per decidere chi sia il più drammatico, intenso e disperato. È un film allegro, divertente, pieno di idee brillanti, in cui tutto il cast rende alla grandissima sul fronte musicale e regala diversi momenti di spessore, soprattutto nei pezzi corali, anche se forse manca quella singola canzone che ti porti nel cuore dopo la visione. Perfino Johnny Depp riesce a non rovinare tutto, forse perché il suo personaggio si limita a una comparsata veloce e poi si leva dalle scatole. E c'è Emily Blunt che canta, balla e sorride sullo schermo gigante per quasi tutto il tempo, quindi io, di base, sono soddisfatto.

Da metà in poi, però, Into the Woods stravolge tutto, vira verso il drammatico, affronta di petto tutta quella serie di temi adulti che nelle fiabe tendono a rimanere sullo sfondo e ribalta i ruoli, svelando che in fondo i cattivi poi così cattivi non sono, raccontando di buoni che sotto sotto sono persone normali piene di difetti. E ne viene vuori una creatura bizzarra, forse non perfettamente centrata, ma che sa trovare una sua identità brillante, interessante, capace di raccontare qualcosa in più rispetto alla classica favoletta cinematografica targata Disney di questi anni. Insomma, Into the Woods è un bel musical cinematografico, messo in scena con gran gusto, interpretato e cantato alla grande nonostante la seconda delle due cose non sia necessariamente la specialità degli attori coinvolti. Non coglie probabilmente fino in fondo l'essenza dello spettacolo originale, soprattutto nel momento in cui deve adattare la seconda parte, ammorbidita nelle svolte drammatiche e nella potenza dei temi, ma ha una sua personalità originale e interessante. In più, la sua natura totalmente fantastica, surreale, sopra le righe e anche un po' scemotta, rende forse più accettabile, per chi fa fatica, l'idea di gente che all'improvviso si mette a cantare invece di parlare. E insomma, buttalo.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, ormai quasi due mesi fa. Ne scrivo oggi perché in Italia ci arriva questa settimana. E comunque, ribadisco, Emily Blunt, gigante, che sorride, balla e canta. È anche un po' faticoso, a dirla tutta. Ti sfianca.

29.3.15

28.3.15

La robbaccia del sabato mattina: Tommasone bello vieni qua che ti abbraccio


Dunque, questa settimana hanno confermato quello che ormai era evidente da un pezzo ma, ehi, serve comunque la conferma: faranno una nuova miniserie da sei episodi con Mulder e Scully incartapecoriti. Io mi chiedo come si potrà prendere sul serio lui dopo anni di Californication, ma insomma, ci si proverà. Fra l'altro, a proposito di gente invecchiata, Kevin Smith sta recuperando un po' tutto il cast di Mallrats per realizzare un seguito e Shannen Dohery sembra avere una consistenza tutta strana, dal sapore di botulino. Agevolo documentazione fotografica.


Meno vecchio dovrebbe essere il nuovo Spider-Man, se è vero che i Marvel Studios stanno facendo provini a sedicenni. Chissà. Intanto, pare che Neill Blomkamp e Simon Kinberg abbiano deciso di mettersi al lavoro per far diventare The Leviathan un film. Brava gente. L'ho detto che Chappie mi è piaciuto un sacco? Lo dico qua. Passiamo ai trailer.



Man Up, ovvero un film di cui in teoria dovrebbe fregarmene molto poco, solo che poi Lake Bell e Simon Pegg e mi ritrovo a guardare tutto il trailer sorridendo come un cretino. Sigh.



Ed eccolo, lui, Tommaso, nel trailer di Mission: Impossible 5. Cosa gli vuoi dire a uno così, che a cinquant'anni suonati si fa incollare fuori da un aereo in decollo perché ci vuole bene e vuole farci divertire? Niente, ricambi l'amore e basta. Mamma mia, Tommaso. Mamma mia.



Jake Gyllencoso che ormai è idolo delle folle, Antoine Fuqua che è sempre uno dei nostri, pugilato, riscossa, dramma padre/figlia, occhi che sudano, lacrime maschie. Southpaw, voglio crederci.



L'altra faccia della medaglia è Arnie che in zona settanta si riscopre attore, col film sugli zombi in cui fa il padre affranto perché la figlia è infetta. Si intitola Maggie e promette benissimo. Almeno credo. Ma poi Arnie, dai, gli si vuole bene pure a lui. E poi niente, c'è questo:
E poi ieri dovrebbe essere uscito il primo teaser trailer di Spectre, ma c'avevo da fare e comunque a me Sam Mendes sta sulle palle, ecco.

27.3.15

La scomparsa di Eleanor Rigby


The Disappearance of Eleanor Rigby (USA, 2014)
di Ned Benson
con James McAvoy, Jessica Chastain

La scomparsa di Eleanor Rigby è un film uno e trino, nato con una doppia anima che poi è stata fusa per creare un figlio bastardo su imposizione del signore e padrone Weinstein. O qualcosa del genere. Il progetto originale, opera d'esordio del regista e sceneggiatore Ned Benson, parte dall'idea di raccontare il disfacimento di una coppia mostrando i due punti di vista soggettivi, con un film dedicato a lui e uno dedicato a lei. Poi Harvey Weinstein ha deciso che si trattava di una formula commercialmente poco sensata e ha quindi imposto la realizzazione di un terzo film che li unisse in una storia unica, limando eccessi e ridondanze e rendendo il tutto più accessibile. E generando una porcheria. Ma, ehi, basta ignorarla e guardarsi i due film originali, che meritano davvero proprio in quanto idea balzana tutta giocata sulle diverse prospettive e sullo sguardo fortemente soggettivo che, per forza di cose, un uomo e una donna applicano alle stesse vicende quando vengono colpiti da un evento brutale come quello al centro di questo (questi?) film.

Se infatti il soggetto, di suo, non è nulla di particolarmente originale, è come sempre la realizzazione a rendere La scomparsa di Eleanor Rigby un film meritevole e interessante, per quanto magari imperfetto. Scritti e diretti in maniera solida, con una fotografia curatissima e degli attori in gran spolvero, i film di Ned Benson affascinano per il modo in cui mostrano i due punti di vista senza alcun compromesso e sanno calarti davvero nei panni dei protagonisti. Sia Lui che Lei sono costantemente in scena nei rispettivi film e viviamo le vicende interamente tramite i loro sguardi, che sono chiaramente parziali e costringono quindi a tantissime omissioni. Mentre segui Lui, abbandonato, disperato, vivi l'ansia di non sapere cosa stia facendo Lei e percepisci dall'inizio alla fine la sua presenza. O la sua assenza. Mentre segui Lei, che ha abbandonato e non ne vuole sapere niente di Lui, vivi l'esperienza di una persona che sta provando a dimenticare e un punto di vista radicalmente opposto. In entrambi i casi, il gioco funziona benissimo, per mezzo di un gran lavoro nel decidere cosa mostrare, fin dove arrivare, quanto omettere, lasciando sempre addosso dubbi su quel che sta accadendo altrove e immergendo in una visione parziale.

Il bello, poi, sta anche nella scelta compiuta da chi guarda, perché chiaramente decidere di dedicarsi prima a Lui o a Lei cambia totalmente il modo in cui si vivranno le rispettive storie. Guardarne una senza sapere cosa accada altrove, senza conoscere i pensieri dell'altro, è totalmente diverso dal guardare poi l'altra con addosso la consapevolezza dell'altrui punto di vista. Il fascino dell'esperienza sta anche qui, nella maniera unica in cui può cambiare la visione a seconda dell'ordine scelto, chiaramente influenzata anche dalle decisioni molto intelligenti compiute a livello di sceneggiatura. E a tutto questo si aggiunge anche il fatto che, come detto, il punto di vista raccontato è estremamente soggettivo, non solo nella realtà di quel che effettivamente i due vedono e vivono, ma perfino nella lettura degli eventi. I due film hanno chiaramente alcune scene parzialmente condivise, quelle in cui i personaggi si incontrano, ma anche quelle che magari da una parte si vedono, dall'altra vengono raccontate per bocca di terzi. E spesso le cose non coincidono, perché la memoria è fallace, perché talvolta si mente a se stessi o agli altri per meccanismo di protezione o anche semplicemente perché in certi casi è difficile capire dove finisca la realtà e dove inizi quel che vogliamo vedere.

Insomma, si può discutere del soggetto piuttosto classico, o magari della scrittura a tratti un po' zuccherosa, seppur quasi sempre stemperata da sane dosi di ironia nei momenti in cui si rischia di esagerare, ma è difficile negare il fascino dell'idea e i molti modi intelligenti secondo cui è stata messa in pratica. E proprio per questo la versione "fusa" dei due film è non solo superflua, addirittura dannosa. Presa per i fatti suoi, probabilmente, lascia addosso la sensazione di un film poco originale ma tematicamente interessante, dalla bella fotografia, scritto in maniera dignitosa seppur un po' sconclusionato nello svolgimento, tenuto in piedi dalla bravura degli attori: dimenticabile, se non fosse che fa comunque piacere vedere attori di grido impegnati in film che raccontano il quotidiano. Guardandolo dopo aver visto i due "veri" film, ci si rende conto della porcheria che è, messa assieme cercando di limitare i danni nell'assecondare gli obblighi imposti dalla produzione, mescolando assieme del girato che nasceva per due film separati. Tutto il senso del progetto finisce per direttissima alla discarica, con una valanga di materiale che scompare nel nulla, il gran lavoro sullo sguardo soggettivo che ovviamente svanisce, decisioni impossibili prese per bilanciare fra i due punti di vista e tante, troppe mancanze nello sviluppo dei personaggi e del racconto. Insomma, i due "veri" La scomparsa di Eleanor Rigby sono, seppur imperfetti, film interessanti, ricchi di spunti, ben diretti, che vanno assieme a formare un progetto riuscito, compiuto, di personalità. Il pastrocchio che li unisce è roba da evitare con cura e disgusto.

L'intera operazione arriva questa settimana in Italia, direttamente sul mercato dell'home video. La scomparsa di Eleanor Rigby: Lui e La scomparsa di Eleanor Rigby: Lei vengono venduti separatamente e c'è poi un pacchetto che, con una piccola aggiunta, include anche La scomparsa di Eleanor Rigby: Loro. Non vale quella piccola aggiunta.

26.3.15

Agents of S.H.I.E.L.D. 02X14: "Love in the Time of Hydra"


Agents of S.H.I.E.L.D. 02X14: "Love in the Time of Hydra" (USA, 2015)
creato da Joss Whedon, Jed Whedon, Maurissa Tancharoen
puntata diretta da Jesse Bochco
con Clark Gregg, Ming-Na Wen, Chloe Bennet, Iain De Caestecker, Adrianne Palicki, Elizabeth Henstridge

Una maniera abbastanza efficace in cui gli autori di Agents of S.H.I.E.L.D. stanno girando attorno ai limiti di una produzione da network "tradizionale" e dei suoi venti episodi abbondanti a stagione sta nel modo in cui vengono portati avanti più discorsi contemporaneamente, al fine di avere sempre qualcosa da raccontare anche nel momento in cui devi rallentare un po' su un fronte per non bruciarti tutto subito. Nulla di mai visto prima, eh, non si sta reinventando la ruota, però funziona e spazza via uno fra i problemi più forti che avevano caratterizzato la prima stagione, permettendo a questa seconda annata di risultare interessante e coinvolgente anche quando, come qui, il racconto forse si ferma un po' per introdurre discorsi, piazzare in giro elementi e preparare quel che sta arrivando.

Nelle scorse settimane abbiamo seguito prevalentemente le vicende degli inumani/mutanti, mentre veniva pian piano introdotto il discorso supplementare dello S.H.I.E.L.D. alternativo. In questa puntata la situazione si ribalta, le faccende degli inumani passano in secondo piano (nonostante il cliffhanger su cui abbiamo lasciato Calvin, qui del tutto assente) ed esplode invece tutta la faccenda del gruppo di dissidenti capitanati dal Gonzales di Edward James Olmos, ma viene anche riproposta la terza questione, con Ward e l'agente 33 che finalmente tornano in scena. E in tutto questo non sappiamo in che situazione si trovi quel che è rimasto dell'Hydra (o se magari abbia legami con il gruppo che sta tramando alle spalle di Coulson).

È un bel minestrone, che porta avanti tante cose assieme e può grazie a questo permettersi di sviluppare pian piano tutte le vicende, facendole evolvere con calma da una puntata all'altra mentre conserva comunque la struttura da "caso" della settimana che tende ad essere inevitabile in serie di questo tipo. Poi, certo, non tutto funziona per forza alla perfezione e non tutti i fili narrativi sono interessanti alla stessa maniera, ma è anche abbastanza inevitabile. In tutto questo viene poi da chiedersi se e quanto di quel che vediamo qui avvenga anche in funzione di Avengers: Age of Ultron: arriverà nelle sale americane subito prima che venga trasmessa la penultima puntata, è lecito immaginarsi una qualche forma di collegamento, magari proprio generata dalle faccende appena introdotte. O magari no. Vai a sapere. Nel mentre, Agents of S.H.I.E.L.D. rimane una serie molto godibile, anche quando non si mantiene al livello dei picchi che ha dimostrato di poter raggiungere.

In generale, comunque, l'inevitabile lavoro di name dropping, con citazioni sparse in giro a personaggi ed elementi dei fumetti e dei film, continua a sembrarmi fatto molto meglio che in passato. Ed è divertente. Bene così.

25.3.15

The Interview


The Interview (USA, 2014)
di Evan Goldberg, Seth Rogen
con Seth Rogen, James Franco, Randall Park, Lizzy Caplan, Diana Bang

A suo tempo si è discusso a lungo sulla natura e sulle conseguenze di un po' tutta la "faccenda" The Interview e non è che abbia poi molto senso tornare a farlo oggi solo perché il film arriva dalle nostre parti, distribuito per altro direttamente sul mercato dell'home video (e dopo essersi manifestato il mese scorso sul servizio di streaming Chili). L'unico dato a questo punto abbastanza certo ci dice che, se dobbiamo dare retta a chi tira di gomito e pensare che sia stata tutta una manovra pubblicitaria da parte di Sony, beh, la manovra non è stata poi 'sto gran colpo di genio. Magari è vero che ha finito per garantire fama extra al film sui mercati internazionali (ma siamo sicuri che il nuovo film con il protagonista di un successo del calibro di Cattivi vicini ne avesse bisogno?) e sì, ha mostrato come un film "grosso" distribuito quasi esclusivamente online possa tirar su cifre altrimenti impensabili sul mercato digitale. Ma il punto, forse, è proprio quello: The Interview è un film "grosso". E quando le due precedenti commedie con Seth Rogen sul poster hanno sfracellato i cento milioni di dollari con i loro passaggi in sala, beh, il dubbio che rinunciare alla grossa distribuzione cinematografica sul territorio americano sia stato a conti fatti un grosso danno ti viene. O forse no. Forse The Interview era destinato in partenza a non replicare quelle vette. Vai a sapere. Ho detto che non volevo parlarne, Basta.

In realtà a me interessa chiacchierare di un'altra cosa, soprattutto considerando che il precedente film della magica coppia m'è piaciuto non poco: com'è The Interview? Eh, insomma. Da un lato è un altro film degli autori, per l'appunto, di Facciamola finita, quindi una commedia bassa, lurida, sboccata, acida e senza vergogna, che prende in giro tutto e tutti senza alcun riguardo per temi e vittime. Rogen e Goldberg sono due comici più intelligenti di quanto, forse, vogliano far vedere e dietro il loro muro di scorregge e volgarità nascondono una satira spesso estremamente centrata, cattiva, pungente, oltre che uno spirito comico capace di trovate davvero esilaranti. Certo, la barriera all'ingresso può non essere facile da superare, perché serve una soglia di tolleranza per il volgare e lo stupido che, comprensibilmente, non appartiene a tutti, ma la sostanza rimane: more than meets the eye.

E The Interview riesce a conservare quell'equilibrio fuori di cozza, a dipingere di monnezza qualcosa che non è necessariamente tale. Il problema, però, è che questo assurdo racconto su due cretini della TV americana inviati ad assassinare il presidente Kim funziona molto meno rispetto al fulminante e sorprendente film apocalittico di due anni fa. Certo, le risate sono una questione assai soggettiva, ma l'impressione è che The Interview si sforzi tantissimo di farti ridere come un matto e riesca invece a tirar fuori al massimo qualche sorrisino. Ma soprattutto la satira appare un po' spuntata e, paradossalmente o forse no, a conti fatti Rogen e Goldberg sono riusciti ad essere molto più cattivi e scorretti quando hanno deciso di prendere in giro loro stessi. O forse quando hanno deciso di prendere in giro solo loro stessi, perché in fondo anche qui i primi bersagli sono soprattutto loro (e James Franco, nel ruolo del cretino fuori misura, è fantastico, tanto quanto è perfetto Seth Rogen con la sua recitazione totalmente opposta, placida, misurata e "normale"). Fatto sta che manca qualcosa e The Interview, seppur gradevole, seppur con Lizzy Caplan che fa sempre venir voglia di salvare qualsiasi cosa la includa, seppur abbastanza divertente e ancora una volta con una canzone conclusiva centrata alla perfezione, non riesce a ripetere il miracolo.


L'ho visto al cinema, qua a Parigi, lo scorso gennaio, perché al cinema in Francia esce qualsiasi cosa, figuriamoci se non usciva questo. In Italia, come detto, ci è arrivato qualche settimana fa in streaming e sbarca oggi sul mercato dell'home video.

24.3.15

The Walking Dead 05X15: "Provare"


The Walking Dead 05X15: "Try" (USA, 2015)
con le mani in pasta di Scott Gimple e Robert Kirkman 
puntata diretta da Michael E. Satrazemis
con Andrew Lincoln, Steven Yeun, Danai Gurira, Melissa McBride, Chandler Riggs, Sonequa Martin-Green

Vogliamo dire che il ciclo di Alexandria sta diventando molto, molto in fretta il più bel "blocco" di puntate che The Walking Dead abbia saputo offrire da quell'ormai lontano episodio pilota a oggi? Magari ci sono state in passato puntate migliori di qualsiasi cosa si sia vista in questa stagione, ma un gruppo di episodi consecutivi di questa qualità? No, faccio davvero una gran fatica a ricordarmelo e probabilmente è perché non c'è mai stato. Ad ogni modo, tutto 'sto giro in tondo è per dire che anche questa settimana la serie zomba più seguita del pianeta è stata un gran bel vedere, dall'avvio sulle azzeccatissime note dei Nine Inch Nails fino all'attesa (da chi ha letto il fumetto o anche solo da chi ha una punta d'intuito) conclusione, con Rick che perde definitivamente la brocca e costringe chi gli sta attorno a intervenire.

A voler essere superficiali si potrebbe dire che se queste puntate stanno funzionando è per la decisione di seguire i fumetti in maniera più fedele rispetto al passato ma, per come la vedo io, si starebbe raccontando solo parte della faccenda. Perché da un lato è vero che buona parte di quel che c'è di buono arriva da lì, ma dall'altra non si può sminuire l'ottimo lavoro di adattamento che ci stiamo gustando, così come il modo in cui viene intrecciato ad altri elementi inediti, o rimaneggiati, dal ruolo di Sasha al coinvolgimento di Carol nelle faccende "famigliari". Insomma, il punto è che The Walking Dead sembra essersi improvvisamente e finalmente trasformato in ciò che nelle passate stagioni ha spesso faticato ad essere: un signor adattamento, che sa cosa conservare, cosa modificare, cosa miscelare e cosa mettersi ad inventare di sana pianta. Non è poco.

Ma anche al di là del discorso in generale su come sta procedendo la serie, questa è una signora penultima puntata se mai ce n'è stata una, capace di sviluppare personaggi, rapporti ed elementi del racconto in maniera significativa pur nel contesto inevitabile dettato dal dover soprattutto preparare i vari elementi in previsione del gran finale in arrivo fra una settimana (e più lungo del solito). Da un lato, appena accennate, ci sono le faccende "esterne" ad Alexandria, presumibilmente pronte ad esplodere, e dall'altro c'è un turbinio di questioni irrisolte che potrebbero arrivare al dunque, con una Deanna costretta ad affrontare decisioni impossibili e un Rick ormai totalmente perso nel vortice di chi, pur essendo in larga misura nel giusto, sembra essere infine crollato sotto il peso immane delle responsabilità. E hai detto niente. Poi, certo, ora serve un punto esclamativo di gran spessore, per chiudere come si deve una seconda metà di annata da applausi a scena aperta e non rovinare tutto. Il ruolino di marcia di The Walking Dead, sul fronte dei finali di stagione, non è esattamente impeccabile, ma insomma, voglio crederci.

Improvvisamente ho brutte sensazioni per Sasha e Aaron. Tutto sommato spero di sbagliarmi.

23.3.15

Men, Women and Children


Men, Women and Children (USA, 2014)
di Jason Reitman
con Adam Sandler, Jennifer Garner, Ansel Elgort, Kaitlyn Dever, Rosemarie DeWitt, Judy Greer, Dean Norris e la voce di Emma Thompson

Qualche anno fa, Jason Reitman veniva acclamato come uno fra i migliori nuovi registi americani, un grande narratore dei nostri tempi venuto fuori dal nulla (o da suo padre, che però non ha mai esattamente goduto della stessa stima). Del resto, con una tripletta clamorosa come quella composta da Thank You For Smoking, Juno e Tra le nuvole, tutti amati da critica e pubblico, che gli volevi dire? Poi, però, qualcosa si è incrinato. Young Adult è un film meraviglioso, forse il suo che preferisco, ma è stato un discreto flop e ha convinto solo in parte la critica. Successivamente è arrivato Un giorno come tanti, che ha preso schiaffi da tutte le parti per aver osato buttarla sul melodrammone sincero e convinto fino in fondo, finendo bastonato forse oltre quanto fosse lecito per un film non riuscitissimo ma certo non disastroso. E si arriva quindi a Men, Women and Children, sua sesta opera, che torna a parlare del giorno d'oggi e ad affrontare argomenti non facili, creando grandi aspettative ma rivelandosi un tonfo di critica e pubblico. Giusto? Sbagliato? Vai a sapere. A me sembra che tirar pomodori al povero Jason sia diventato pratica facile e che il suo ultimo film abbia sì dei problemi, ma sia comunque interessante, ben realizzato e lontano dalla porcheria per cui viene fatto passare.

In Men, Women and Children si parla di società moderna, del rapporto che genitori e figli hanno con la tecnologia e con la socialità online (e, di riflesso, quella "reale), delle implicazioni che questo mondo totalmente interconnesso rovescia sulla sessualità, sui rapporti interpersonali, sull'adolescenza e sull'età adulta. I temi sono insomma tanti, potenti, complicati e difficili da affrontare senza correre il rischio di risultare pedanti, moralisti, fastidiosi o anche ridicoli. Reitman ci riesce abbastanza, senza sbilanciarsi con giudizi eccessivi e raccontando tanto la madre iperprotettiva oltre il muro della paranoia quanto il padre che prova ad essere di mente aperta e a comprendere quel che combina suo figlio. È un film corale, con diverse storie che si intrecciano, e purtroppo fra i suoi limiti c'è anche questa apertura ambiziosa, perché non tutte le vicende sono centrate e approfondite come meriterebbero e, anzi, sono forse quelle meno interessanti ad avere più spazio. Inoltre c'è un problema di tono, perché Reitman cerca di bilanciare dramma e commedia, senza riuscire a trovare un equilibrio che regga fino in fondo, soprattutto nel raccontare i personaggi più estremi.

Fra metaforoni spinti a badilate e improvvise, prevedibili e nonostante questo un po' fuori luogo botte di melodramma, in Men, Women and Children, c'è tanto che non funziona, a cominciare dalla voce narrante di Emma Thompson che fornisce pratiche didascalie per veicolare il "messaggio", già fin troppo chiaro per i fatti suoi. Eppure, vuoi perché non si ha mai l'impressione del moralista che tratta in maniera manichea argomenti difficili, vuoi perché si percepisce il tentativo di non demonizzare e neanche di difendere a tutti i costi, ma solo di raccontare, vuoi perché Reitman è comunque sempre bravo a dirigere gli attori e far rendere tutti al meglio, Men, Women and Children finisce per essere un film comunque interessante, gradevole e capace di raccontare qualcosa in maniera intelligente. Non è Trust, che si concentrava su un singolo discorso e riusciva ad approfondirlo molto meglio, ma una chance se la merita.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, in lingua originale, lo scorso dicembre. Ne scrivo oggi perché questa settimana arriva in Italia direttamente sul mercato dell'home video. Il che rappresenta fra l'altro un'ottima occasione per guardarselo direttamente in lingua originale. Poi, certo, se vuoi guardatelo in lingua originale, probabilmente, non hai aspettato l'uscita italiana. Mh.

22.3.15

Lo spam della domenica mattina: Michelino Mann


Questa settimana su Outcast ho prodotto una discreta serie di solite robe: un Videopep dedicato agli occhialoni di cartone Google, il nuovo Outcast Popcorn, il nuovo The Walking Podcast, il Librodrome sui fumetti di Hotline Miami e l'Old! sul marzo del 1995. Su IGN, invece, una roba che non facevo da un po': una chiacchierata sul recente trailerino televisivo di Avengers: Age of Ultron.

Forse mi sono ripreso dal jet lag. Forse. Vai a sapere.

21.3.15

La robbaccia del sabato mattina: Le gioie del rating R


La notizia fondamentale della settimana, senon del mese o dell'anno: Mad Max: Fury Road avrà rating R. Ora, intendiamoci, può significare tutto e niente, ma di base è una roba per cui festeggiare. Che vi devo dire, da queste parti ci si accontenta di poco. Ah, a margine, hanno ingaggiato un paio di attori per l'episodio pilota della serie TV su Preacher in lavorazione presso AMC, nelle mani di Seth Rogen ed Evan Goldberg. Ruth Negga, la fiorista inumana di Agents of S.H.I.E.L.D. sarà Tulip (e subito si scatena il moto di dissenso razziale), mentre Ian Colletti sarà Faccia di culo, del quale è possibile gustarsi un vecchio studio di make up a questo indirizzo qua. Non ho pareri da esprimere al riguardo, vedremo cosa ne verrà fuori.



Questo qua sopra è il primo trailer di Pixels e mi sento di affermare senza timor di smentita che mi sembra esattamente la cagata senza speranza che mi aspetto da un film (comico) con Adam Sandler e Kevin James. Un paio di gag simpatiche ci sono anche, ma vengono seppellite dal peso della barzelletta sentita raccontare mille volte e che ormai non fa più ridere. Ah, da un lato mi fa piacere l'idea che si omaggi Toru Iwatani in un film hollywoodiano, dall'altro ci terrei comunque a sottolineare che quello è un attore, a scanso di equivoci.



Il nuovo trailer di Insidious 3, che onestamente non mi dice molto, ma va anche puntualizzato che - lo ammetto - non ho mai visto un film della serie. Ho però una mezza voglia di rimediare. Sbaglio?



Un nuovo spot televisivo per Avengers: Age of Ultron, che mostra due o tre nuove cose e fa ascoltare per la prima volta l'accento da immigrato clandestino di Quicksilver. Simpatico, continuo ad avere una discreta fotta ma ammetto che stiamo entrando un po' in zona da sovraesposizione. Ah, domani dovrebbe uscire su IGN il video in cui commento il trailer.



E infine, questo The Leviathan, un teaser trailer, o forse un proof of concept, o magari un whatever, in cui Ruairi Robinson, regista di The Last Days on Mars, mostra quel che vorrebbe e potrebbe fare con un progetto tutto suo personale. Ed è una gran bella roba, direi. Dategli i soldi.

Ciao, volevo aggiungere che mi sono iscritto ai ribelli. 14 luglio. Ciao.

20.3.15

Chi è senza colpa


The Drop (USA, 2014)
di Michaël R. Roskam
con Tom Hardy, James Gandolfini, Noomi Rapace

A meno di clamorose sorprese, Chi è senza colpa dovrebbe essere l'ultimo film con James Gandolfini a manifestarsi postumo nelle sale italiane. Non è il massimo chiacchierarne partendo da questo aspetto, ma di fondo è inevitabile, perché si tratta comunque dell'ultima occasione per gustarsi in sala un ottimo attore, forse un po' sottovalutato, che da adesso in poi rimarrà confinato alle repliche, allo streaming e, insomma, a quel piccolo schermo che l'ha reso immortale con I Soprano. Ma Gandolfini ha in realtà un ruolo di secondo piano in un film soprattutto di Tom Hardy, protagonista come al solito eccellente in un ruolo non banale, quello di un uomo apparentemente semplice, barista in un locale utilizzato dalla mafia cecena per i suoi scambi di denaro sporco, che tiene la testa bassa, fa il bravo ragazzo e sembra avere anche qualche problema mentale, ma sotto sotto potrebbe nascondere molto più di quanto appaia in superficie.

Tratto da un racconto di Dennis Lehane (Mystic River, Gone Baby Gone, Shutter Island... ), Chi è senza colpa rappresenta l'esordio come sceneggiatore cinematografico per il romanziere americano ed è anche il primo film hollywoodiano diretto dal belga Michaël R. Roskam, candidato all'Oscar per il miglior film straniero qualche anno fa con la sua opera d'esordio. Ed entrambi non sfigurano: il loro è un film intelligente, solido, dalla bella atmosfera e dal ritmo pacato, che si sviluppa senza guizzi sorprendenti, seguendo linee molto classiche nel cinema di genere "criminale" americano, ma riuscendo comunque a infilare un paio di svolte non necessariamente banali e conducendo in maniera placida verso la sua inevitabile conclusione.

La sostanza del film sta comunque tutta nell'interpretazione di Tom Hardy, che ancora una volta "entra" nel personaggio e scompare al suo interno, tratteggiando una figura intrigante, ingannevole e alle cui contraddizioni è difficile non affezionarsi. Lo fa con uno sforzo totalizzante, composto da sguardi, accento, cambi nel tono di voce, lavoro sul fisico e sui movimenti... l'ennesima grande interpretazione per un attore che forse non viene ancora abbastanza celebrato, magari perché, stellina, fatica a trovare il franchise in grado di metterlo davvero sulla bocca di tutti. Magari ce la farà con Mad Max. Speriamo. Nel mentre, Chi è senza colpa, pur nella sua esile semplicità, sta lì per ricordare quanto Hardy sappia essere bravo, oltre che per offrire un'ultimo sguardo sulla naturalezza con cui James Gandolfini riempiva lo schermo di carisma.

Uscito un po' dappertutto lo scorso anno, il film arriva in questi giorni nelle sale italiane, probabilmente di nascosto, senza farsi vedere troppo e senza rubar spazio ad altre cose. Giusto così? Vai a sapere. Comunque, se ne avete occasione, l''interpretazione di Hardy si merita di essere ascoltata in lingua originale. Non che sia una novità, ma insomma, ci tengo sempre a dirlo.

19.3.15

Agents of S.H.I.E.L.D. 02X13: "One of Us"


Agents of S.H.I.E.L.D. 02X13: "One of Us" (USA, 2015)
creato da Joss Whedon, Jed Whedon, Maurissa Tancharoen
puntata diretta da Kevin Tancharoen
con Clark Gregg, Kyle MacLachlan, Ming-Na Wen, Chloe Bennet, Iain De Caestecker, Adrianne Palicki, Elizabeth Henstridge

Con tutti gli alti e bassi della prima stagione non lo si sarebbe probabilmente mai detto, ma ormai è abbastanza ufficiale: siamo arrivati al punto che una puntata di Agents of S.H.I.E.L.D. un po' moscia fa notizia. Intendiamoci, non siamo dalle parti del completo fallimento, ma insomma, questa specie di Mistery Men del discount m'è sembrato più apprezzabile nelle intenzioni che effettivamente riuscito nel centrare l'equilibrio di tono giusto. L'idea del dottore di Kyle MacLachlan, sempre ottimo nel gigioneggiare un po' a caso col suo personaggio, che mette assieme una specie di superarmata Brancaleone composta da scappati di casa è abbastanza divertente, ma non si capisce bene quanta consapevolezza ci sia nel raccontare di questi personaggi reietti, incapaci e un po' ridicoli. Poteva essere un'occasione per mescolare realmente gli aspetti più assurdi di queste bizzarre creature con il comunque presente afflato drammatico, non è stata colta fino in fondo.

E il problema è che non ne viene fuori neanche un confronto finale coinvolgente, dato che si risolve tutto in maniera piuttosto moscia, con il crimine aggiunto di aver "sprecato" l'utilizzo in regia di quel Kevin Tancharoen che tante soddisfazioni ci ha regalato con le pizze in faccia fra le due May viste a inizio stagione. Poi, intendiamoci, non è certamente una brutta puntata, quelle sono altre, ma si torna al punto di partenza: quest'anno Agents of S.H.I.E.L.D. ci ha abituati bene, è inevitabile storcere il naso anche con discreta violenza quando il livello si abbassa un po', pur mantenendo la giusta dose di fiducia nei confronti di quel che arriverà nelle prossime settimane.

Di buono c'è che comunque la puntata, magari un po' debole sul fronte del "caso della settimana", non si dimentica di ruotarvi attorno per portare avanti i vari discorsi, fra le faccende dello S.H.I.E.L.D. nello S.H.I.E.L.D., le apparizioni e sparizioni degli inumani, i dettagli aggiunti al personaggio del dottore e l'evoluzione del personaggio di Skye. Su quest'ultimo fronte, poi, l'utilizzo degli inumani come jolly per tappare il buco lasciato dai mutanti in mano alla Fox diventa sempre più insistito, con tanto di conversazione fra Coulson e Simmons in cui sembra davvero che abbiano quella parola sulla punta della lingua ma non riescano a dirla. Magari sovrainterpreto, ma insomma, non sarebbe certo la prima volta che gli autori infilano chiacchierate "meta" in bocca ai personaggi di questa serie.

E la prossima settimana arriva il colonnello Adama. Frack!

18.3.15

Guerra alla droga in Italia (ma solo in home video)


A quanto pare domani arriva in Italia, ma solamente sul mercato dell'home video (qualsiasi cosa voglia dire), Drug War, il bel film poliziesco di Johnnie To che ho visto un paio di anni fa al Fantasy Filmfest di Monaco e del quale ho scritto a questo indirizzo qua. Lo segnalo: magari qualcuno lo aspettava in lingua intellegibile e ora può andarselo a recuperare tutto contento.

Ecco, Johnnie To è uno che ho sempre approfondito poco. Devo segnarmi di recuperare tutta la sua filmografia nella mia prossima vita, o perlomeno quando sblocco la feature delle giornate da trentasei ore.

17.3.15

The Walking Dead 05X14: "Trascorrere"


The Walking Dead 05X14: "Spend" (USA, 2015)
con le mani in pasta di Scott Gimple e Robert Kirkman 
puntata diretta da Jennifer Lynch
con Andrew Lincoln, Steven Yeun, Danai Gurira, Melissa McBride, Lauren Cohan, Michael Cudlitz

Questa puntata di The Walking Dead è stata diretta da Jennifer Lynch. Ma ci pensi? Sì, proprio lei, Jennifer Lynch, la figlia di David, quella che vent'anni fa ha firmato quella cosa assurda di Boxing Helena e ha immediatamente visto morire sul nascere la sua carriera. Mentre guardavo l'inizio della puntata, non mi sono neanche accorto che fra i titoli di testa c'era il suo nome, però poi l'ho visto su IMDB mentre raccattavo i dati da piazzare qua sopra e ci sono rimasto di sasso. Pensa te. Non che sia una cosa completamente assurda, in fondo negli ultimi anni la Lynch ha ripreso a lavorare con una certa costanza in TV, però, insomma, un po' mi ha sorpreso. O forse mi ha sorpreso il fatto che sia stata lei a dirigere una fra le migliori puntate recenti di The Walking Dead. Forse è quello, sì.

In parte, per carità, è anche merito del buon lavoro svolto nelle scorse settimane dell'ottimo accumulo di tensione e contrasti portato avanti pian piano in questo incontro fra due gruppi così diversi e dalla difficile integrazione. Ma l'accumulo si può sempre far risolvere in un nulla di fatto, e invece qui abbiamo una punatata eccellente, dal gran ritmo, che porta avanti con ottima padronanza tre (quattro?) situazioni diverse, che fa evolvere in maniera intelligente un paio di personaggi e che regala pure un paio di morti non necessariamente banali, ma soprattutto trattate come si deve, in una maniera eficcace, forte e pure piuttosto brutale. Il tutto mentre si porta ancora più avanti il discorso di accumulo di cui sopra, presumibilmente in attesa di un'esplosione definitiva ormai prossima, figlia di quelle crepe fortissime che si sono spalancate nel rapporto tra i due gruppi.

In tutto questo prosegue anche molto bene il lavoro di adattamento dal fumetto, soprattutto per quanto riguarda il dover giocare con le situazioni e i personaggi diversi. L'utilizzo di Carol, per esempio, il modo in cui viene coinvolta in vicende riprese dalle vignette ma che lì, per ovvi motivi, non la vedevano protagonista, è talmente ovvio da risultare perfetto e offre tutta una nuova dinamica capace di inserire spunti interessanti anche per chi, in linea di massima, sa come andranno a finire le cose. Insomma, questa quinta stagione di The Walking Dead sta crescendo sempre di più e lo sta facendo grazie a una (sorprendente) capacità di conservare un senso di dinamica evoluzione anche nel momenti in cui ci si è seduti ancora una volta a raccontare di eventi "statici", grazie soprattutto all'ottimo lavoro svolto sui personaggi e sui rapporti fra di loro. Insomma, molto bene.

E la prossima settimana abbiamo Sasha/Andrea nel campanile. Come finirà la stagione? Chi incontrerà Daryl durante i suoi giri in moto? Ah, la tensione!

16.3.15

The One I Love


The One I Love (USA, 2014)
di Charlie McDowell
con Mark Duplass, Elisabeth Moss

The One I Love appartiene a quel simpatico gruppo di film particolari, abbastanza originali e dei quali è un po' un peccato parlare in qualsiasi maniera. Perché? Perché di fondo una buona fetta del suo fascino sta nel guardarselo senza saperne assolutamente nulla, se non magari i nomi degli attori coinvolti e il fatto che merita per davvero. Lo sa bene chi al film ha lavorato e si è trovato alle prese con l'imbarazzo di una campagna promozionale in cui non voleva e non poteva raccontare dettagli di alcun tipo sulla trama, gli spunti, i temi, men che meno i colpi di scena, anche se non è certo un racconto tutto incentrato su chissà quale clamorosa rivelazione finale. Quindi, insomma, vale sempre il solito discorso: io vado avanti a chiacchierarne e, in linea di massima, cerco di non svelare molto, ma il consiglio, per chi dovesse essere capitato qui senza averlo ancora visto, è di fermarsi, recuperarlo e solo a quel punto, eventualmente, tornare a leggermi.

Mark Duplass mentre si nasconde dagli spoiler.

Il problema non è tanto la presenza di un twist finale modello Shyamalan o di svolte incredibili sparse in giro, quanto proprio l'intera struttura del film, che cambia assetto e tono a più riprese e gioca anche molto sul non far capire per larghi tratti che razza di roba si stia guardando. E in fondo il suo fascino sta anche lì, nell'approcciarlo senza saperne nulla e ritrovarti davanti a una commedia sentimentale che si evolve in studio sui rapporti di coppia, passando per le maglie della fantascienza e finendo per diventare una sorta di episodio speciale di Ai confini della realtà (o forse nel 2015 bisogna usare Black Mirror, come riferimento). Fra gli aspetti affascinanti, per esempio, c'è il modo in cui McDowell sembra quasi voler usare costantemente il tono sbagliato per quel che sta raccontando, spingendo verso un tipo di atmosfera poco coerente con quel che davvero succede. Se vogliamo, è un po' quello stesso bizzarro principio in base al quale - attenzione riferimento geek - Gone Home è a tratti un gioco horror efficacissimo e spaventoso nonostante di fatto sia tutta una burla e l'orrore non si manifesti realmente mai. Solo che in The One I Love, proprio quando ti rendi conto che non c'è nulla da temere e l'atmosfera horror si fa da parte, sono i temi del racconto e la sua evoluzione a spingere sempre più verso una sorta di inquietudine sottopelle, che non ti colpisce mai in faccia ma ti resta addosso in maniera un po' malsana.

In tutto questo, la forza del film sta inevitabilmente anche nei suoi due ottimi protagonisti, anche perché in sostanza ci sono solo loro. Tolte le veloci apparizioni iniziali di Ted Danson e di alcune comparse in una scena specifica, McDowell costruisce tutto quanto attorno a Mark Duplass ed Elisabeth Moss, trovando due interpreti perfetti per la situazione. Ne viene fuori un film intelligente, originale, che non si limita ad essere solo un pretesto assurdo trascinato per novanta minuti e anzi riesce a sfruttare l'idea fuori dal comune per raccontare sentimenti e situazioni che appartengono al reame dell'ordinario. The One I Love è efficace, vola via in un respiro e attanaglia dall'inizio alla fine grazie al fascino dei suoi misteri, alla bravura degli attori, al notevole controllo di un regista e uno sceneggiatore entrambi esordienti e alla voglia di raccontare cose interessanti in maniera fuori dal comune. E che gli vuoi dire?

L'anno scorso, dopo essersi girato un po' tutti i principali festival americani, è uscito da quelle parti in doppia distribuzione al cinema e in digitale. Ha poi iniziato timidamente a manifestarsi anche in giro per l'Europa, ma non mi risulta ancora annunciata un'uscita italiana. Però, insomma, diciamo che è moderatamente reperibile.

15.3.15

Lo spam della domenica mattina: Valanga GDC 2015

14.3.15

La robbaccia del sabato mattina: Cose varie spuntate mentre ero distratto


Mentre stavo a fare la bella vita a San Francisco sono successe tante cose. Almeno credo. Non lo so, ero distratto, per lo più me le sono perse. E quindi sbatto qua dentro un po' di cose a caso, tipo il poster qua sopra, che mi sembra molto meglio della faccia da totana che c'ha Melissa Benoist nelle prime foto della sua Supergirl per la CBS. Boh.



Dai, diciamo che Daredevil continua a promettere abbastanza bene. Ma soprattutto Vincent D'Onofrio sembra davvero mostruosamente perfetto per il ruolo. Ammetto che questa cosa mi ha fatto venire molta voglia. Anche se non so quanto mi piaccia Charlie Cox. Però mi piacciono gli altri nomi coinvolti. Boh, non lo so, vediamo, manca poco.



Nuovo trailer per Inside Out. Chiaramente questo racconta un po' la storia e quindi è meno dirompente del primo, tutto incentrato sulla trovata forte, però resto moderatamente fiducioso. Tanto lo sappiamo come va con questo genere di film Pixar: ti tirano dentro nel primo atto con la figata e poi ti diverti fino alla fine con le giostre.



Tomorrowland non so onestamente quanto mi attiri, anche sulla base del trailer, però so che Brad Bird mi ispira sempre una gran fiducia e fino adesso mi ha dato solo gioie, quindi io ci sto. Comunque, sono l'unico a vederci qualcosa di BioShock, nell'estetica?



Ex Machina. Mi fa una voglia matta per gli attori, i temi e l'estetica. Oscar Isaac for the win. La domanda è: Alex Garland avrà scritto il suo solito mezzo film della madonna che va in malora nel finale? O per il suo esordio alla regia s'è impegnato di più?



Self/less, una roba in cui Ben Kingsley diventa Ryan Reynolds ed è colpa di Matthew Goode. O qualcosa del genere. Mah. Mah? Mah.



Questo me lo sono ritrovato davanti all'improvviso e a sorpresa al cinema a San Francisco quando sono andato a vedere The Lazarus Effect (meno peggio di quanto temessi). È stato un bel momento. È bello guardare un trailer per la prima volta al cinema senza saperne nulla. Sta diventando una roba tipo "Ti ricordi quando si giocava ai campetti?". Comunque, Avengers, Ultron, Visione, fotta. Ma poi guardarlo al cinema negli USA con la gente che si mette a urlare dal gasamento. Ah, le belle cose.



OK, il 2015 è l'anno in cui mi trovo a scrivere che un film d'azione con protagonista Owen Wilson sembra promettente. Poi cosa? Va detto che c'è Lake Bell, io a Lake Bell ci voglio bene e quindi non posso che avanzare speranzoso e ingenuo ottimismo. Il regista arriva solo da found footage. Non so se sia un buon segno. Necropolis era scemo ma girato bene. Boh.



Dark Places, un film tratto da un altro romanzo dell'autrice di Gone Girl, pieno di attori che mi piacciono e che dal trailer mi sembra una cagata. Chissà. Buon weekend.




C'ho tutto un jet lag che mi sta facendo a pezzi. Aiutatemi.

13.3.15

Le ultime due settimane di Agents of S.H.I.E.L.D.


Quando è uscita la notizia del raggiunto accordo fra Sony e Marvel Studios per l'integramento di Spider-Man all'interno dell'universo cinematografico Marvel, il pensiero è inevitabilmente volato a 20th Century Fox, che ha mollato la presa su alcune cose, ma tiene ancora stretti a sé i mutanti e sta provando a rimettere in pista i Fantastici 4. Del resto, la saga mutante condotta da Bryan Singer e compari si è rilanciata alla grande e punta ad espandersi sempre più. Anche per questo, pur sempre con la puntualizzazione che "vai a sapere", è difficile immaginarsi un accordo simile su quel fronte. Lo sanno e lo stanno dimostrando perfettamente Kevin Feige e i suoi, che con queste ultime due puntate di Agents of S.H.I.E.L.D. hanno definitivamente gettato la maschera e confermato quel che un po' tutti avevano capito ormai da tempo: si stanno giocando gli inumani per tappare il buco e lo stanno facendo in maniera palese, ai limiti del dito medio sventolato.

Non è che ci si possa girare molto attorno: l'idea dei reietti coi superpoteri che spaventano tutti, amici e familiari compresi, vengono ghettizzati e sfruttati da chi può farlo, faticano a comprendere la propria natura, affrontano un improvviso cambiamento metaforone dell'adolescenza, sono terrorizzati da quel che sta accadendo, trovano l'odio anche nelle persone che dovrebbero amarli... sono i mutanti Marvel. Poi, certo, sono tutti temi che si adattano e si sono adattati spesso anche agli inumani, ma il bello della cosa sta in fondo anche lì: permette ai Marvel Studios di giocarsi lo stesso quella carta, sfruttare tutto un filone fondamentale del loro universo, senza per questo tradire l'essenza dei personaggi che andranno a utilizzare. E pazienza se non possono puntare su Wolverine e dovranno accontentarsi di Freccia Nera: ci hanno costruito un impero, sullo sfruttare alla grande i loro personaggi teoricamente meno vendibili mentre gli altri faticavano a gestire Spider-Man.

Tutto questo, comunque, avviene in altre due ottime puntate di una serie sempre più in forma e che continua a procedere seguendo un gran bel ritmo. Le storie si evolvono, i segreti vengono svelati, le faccende non si trascinano stancamente, i personaggi sono ormai consolidati e pieni di spunti interessanti, il tono regge bene sia quando la butta sulle gag, poche e quasi sempre azzeccate, sia quando spinge sul pedale della depressione, e i momenti action funzionano bene o male tutti. In più la serie ha ormai ingranato molto bene anche nel suo ruolo più geek, quello da "contenuto extra" dei film Marvel, che chiacchiera del sottobosco di personaggi ai margini e amplia l'universo narrativo, senza contare che con la scusa degli inumani arriveranno presumibilmente sempre più personaggi variopinti e situazioni sopra le righe. Insomma, oh, io son contento. E fra un po' Daredevil.

E poi c'è Adrianne Palicki. Era un po' che non lo puntualizzavo. Ciao Adrianne.

12.3.15

Foxcatcher


Foxcatcher (USA, 2014)
di Bennett Miller
con Channing Tatum, Steve Carell, Mark Ruffalo

C'è un'atmosfera di malsana inquietudine che si respira per tutta la durata di Foxcatcher e che in parte viene da quella sensazione di destino incombente che risulta implicita nei film basati su fatti di cronaca, ma in larga misura nasce per mano del tocco di Bennett Miller e del suo approccio al racconto. Di Moneyball, altro film che raccontava avvenimenti più o meno sportivi lontani anni luce dal nostro mondo europeo, rimane l'approccio registico placido, lieve, retrò, estremamente concentrato sui personaggi, ma svanisce quel taglio allegro e in fondo un po' scanzonato. In Foxcatcher si respira l'ansia. L'ansia del disastro imminente, certo, ma anche quella di persone che cercano disperatamente di uscire dall'ombra che le opprime, della lotta disperata per l'autoaffermazione, dell'incapacità di tollerare e assimilare il rifiuto, delle difficoltà nascoste nell'amore per un fratello messo alla prova dalle circostanze della vita.

Miller racconta tutto evitando la spettacolarizzazione, anzi, normalizzando al punto di rendere la parte conclusiva perfino meno eccitante di quanto sia stata in realtà, centrando un tono agghiacciante non solo per il taglio visivo funereo,  ma anche per la bravura con cui racconta eventi di fondo straordinari allineandoli all'assurdo senso di normalità che hanno mentre si verificano. Quando una persona dà di matto, afferra una pistola e compie l'irreparabile, non si sente la musica che sale e non si viene coinvolti da un montaggio frenetico, c'è semplicemente una morte improvvisa, al momento sbagliato, di fronte agli occhi di gente che non crede a quel che vede. La forza e la debolezza di Foxcatcher stanno in fondo tutte qui, perché proprio il taglio asciutto, quasi giornalistico e poco intenzionato a dar letture o interpretazioni, ad approfondire più di tanto i perché e i percome alle spalle dei fatti, regala potenza e capacità di restarti dentro a lungo tanto quanto toglie in termini di quel facile coinvolgimento emotivo che siamo soliti attenderci al cinema.

E poi, certo, ci sono tre attori diretti in maniera meravigliosa, dei quali Miller pare quasi innamorato e a cui in un certo senso dedica un atto ciascuno, riprendendoli con lunghe inquadrature che lasciano tutto lo spazio del mondo agli sguardi, alle piccole espressioni, ai movimenti del corpo. Mark Ruffalo è pazzesco, svanisce in un personaggio così lontano dalla sua immagine solita e gli dona una vitalità che fa girare intorno a lui l'intero film, ma anche Channing Tatum è sorprendentemente bravo nel comunicare tutta la fragilità, le speranze e le emozioni del suo lottatore solitario. Assieme a loro, uno Steve Carell inquietante, sbalestrato, coperto da strati di trucco che lo fanno sembrare esagerato ma che, quando poi vai a vederti i filmati del vero Du Pont su YouTube, scopri essere sbalordente nella sua interpretazione. Ma occhio, non è solo il lavoro di tre ottimi imitatori, sono proprio attori che danno il massimo in un film costruito in larga misura perché possano farlo.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, in lingua originale, un paio di mesi fa, perché a volte qui i film arrivano in anticipo rispetto a lì, dove Foxcatcher esce in questi giorni. E, certo, perdersi il gran lavoro degli attori per bocca dei doppiatori è un po' un peccato, ma quanto sono belli, sul grande schermo, quei campi lunghi e quelle sequenze interminabili.

11.3.15

Le ultime due settimane di The Walking Dead


Ieri, ancora brutalmente preda del jet lag per il rientro da San Francisco e dalla Game Developers Conference, mi sono guardato le ultime due puntate di The Walking Dead. E mi sono piaciute (più la prima della seconda). Colpa del jet lag? Merito del jet lag? Il jet lag non c'entra nulla? Vai a sapere. Però mi sono piaciute. E mi sono piaciute nonostante le abbia viste in uno stato mentale che oscilla fra il coma etilico e l'allucinazione da droga pesante. Uno stato mentale in cui mi basta distrarmi un attimo e svengo addormentato come un blocco di cemento. Invece nulla, non un attimo di noia, nonostante per due puntate di azione praticamente non se ne veda e il monologo a tradimento sia sempre dietro l'angolo. Beh, bene, no? Spero di sì. Anche se va detto che queste righe le sto scrivendo ancora forte di una condizione psicofisica piuttosto traballante.

Perché mi sono piaciute? Perché un po' tutta questa situazione della banda di sopravvissuti cazzutissimi trapiantati nella comunità di ingenui zuzzurelloni mi pare ben gestita, nello sviluppo in generale e nelle piccole cose. È divertente Carol che si finge tonta e poi sbrocca con le minacce di morte al bambino. È deliziosa la storia del piccolo redneck dal cuor tenero che si sente fuori posto e lega con quell'altro personaggio fuori posto per motivi diversi. Son belle ed efficaci trovate come quella di Carl improvvisamente spiazzato dalla normalità dei suoi coetanei e per un attimo incapace di comunicare con loro. E in generale è ben tratteggiato quel mix di timore, dubbio, sospetto e vera e propria incapacità mentale di adattarsi alla situazione in corso. Più o meno tutti hanno il loro momento e più o meno tutti si comportano in maniera credibile e coerente con quello che è stato il loro viaggio fino a qui.

Poi, certo, alla base della faccenda ci sono anche i dubbi su cosa possa eventualmente nascondersi dietro alle mura di Alexandria, e in questo - a meno di sorprese nell'adattamento - vale sempre il fatto che, avendo letto i fumetti, mi manca un po' di tensione. Ma tutto sommato gli autori stanno lavorando bene nel rimestare le carte, cambiare piccole cose, buttar lì depistaggi, sfruttare le situazioni inevitabilmente diverse (Sasha come nuova Andrea... Daryl e le sue faccende... ) e portare avanti il racconto in maniera interessante. Insomma, il punto è che ho visto due puntate di The Walking Dead che hanno raccontato bene quel che dovrebbe essere un po' il cuore della serie: i suoi personaggi. Non sempre capita, quando capita fa piacere. Nonostante le facce buffe insostenibili di Andrew Lincoln mentre ascolta i pipponi della bionda.

Mancano tre puntate. Arriverà Negan? Le W saranno roba sua? Che fine ha fatto Morgan? Daryl incontrerà Lucille? Ah, le grandi domande!

1.3.15

Lo spam della domenica mattina: Le pippe!


Questa settimana mi sono manifestato su IGN con l'anteprima di Adventures of Pip, un gioco di piattaforme retrò piuttosto sfizioso, nato su Kickstarter e in arrivo relativamente a breve. Per Outcast, invece, ho scritto l'anteprima di Mario Party 10 e ho enucleato una discreta cofana di "solite cose": il nuovo Podcast del Tentacolo Viola, l'eXistenZ sul documentario Please Subscribe, l'Outcast Popcorn della settimana, il The Walking Podcast della settimana e l'Old! dedicato al febbraio del 2005.

E in questo momento spero di stare dormendo il sonno dei giusti nonostante il jet lag.

 
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