Live Free or Die Hard (USA, 2007)
di Len Wiseman
con Bruce Willis, Justin Long, Timothy Olyphant, Maggie Q, Cliff Curtis, Mary Elizabeth Winstead
Quando, venti giorni fa, sono andato a vedere questo nuovo Die Hard, sono uscito dal cinema convinto di volerlo commentare sul blog con una specie di parodia, una presa per i fondelli sullo stile di quanto fatto con Episodio III. Di elementi da perculare ce ne sarebbero del resto non pochi: penso per esempio all'inascoltabile doppiaggio, al fatto che uno dei terroristi è identico a Roberto Donadoni e a tante altre cose che, già mentre guardavo il film, mi immaginavo parodiate. Però, ringraziando lo scazzo, sono appunto passati venti giorni e sinceramente non penso ne valga poi tanto la pena.
C'è comunque da dire che questo Die Hard 4.0 mi ha stupito, innanzitutto perché su Len Wiseman, dopo essere rimasto scottato dal soporifero Underworld, non avrei puntato un soldo. E poi, diciamocelo, la semplice solidità del primo Die Hard è ineguagliabile, anche per il posto mitologico che quel film occupa nell'immaginario collettivo e che gli proietta addosso meriti se vogliamo pure superiori al dovuto. Tant'è che i pur decorosi precedenti sequel vengono - forse ingiustamente - considerati inferiori, anche di ampie spanne.
Ed è pure tenendo in mente questo che considero decisamente riuscito il tentativo di Wiseman, autore di un action movie solido, efficace, divertente. Certo, più che in un regista obiettivamente anonimo e non confrontabile con un vecchio marpione come John McTiernan, i meriti del film stanno soprattutto in Lui. Bruce, uno che a cinquant'anni suonati tiene la scena come quando ne aveva trenta, anche se magari con un filo di atletismo in meno e un pizzico di granitica fisicità in più. Invade lo schermo col suo faccione e la sua presenza, domina il film e lascia gli spiccioli ai suoi compagni di sventura.
Gli sceneggiatori lo sanno e gli costruiscono tutto attorno, ricamando una lunga serie di scene in cui permettergli di sfottere i suoi avversari a suon di battutone e strizzare l'occhio "autocitandosi" senza tregua. Oltre a lui, comunque, sono efficaci un po' tutti i personaggi, a partire da un Timothy Olyphant che non ha il carisma elegante di Alan Rickman e Jeremy Irons, ma svolge bene il suo ruolo di impreparata vittima del sarcasmo di McClane. E poi ci sono una spalla giovane e simpatica, una figlia che si rivela personaggio azzeccato ed efficace contraltare alle battute del padre e una terrorista dagli occhi a mandorla insopportabile come il ruolo richiede.
Ma oltre all'azione spettacolare, devastante, completamente fuori dal comune e dal credibile, Len Wiseman si concede perfino di sbattere dentro al film qualche vago accenno di contenuto. Una lieve riflessione sullo scomparso eroismo, una fugace e magari anche involontaria simbolica genialata in quel trucchetto della Casa Bianca brasata al suolo, un banale ma sempre efficace contrasto fra il vecchio e romantico protagonista di celluloide e la nuova era digitale, nella quale il nostro eroe si trova inizialmente spaesato e impreparato, ma che alla fine sconfigge dall'interno, come e peggio di un virus informatico.
Insomma, i veri problemi di questo quarto Die Hard, al di là delle solite forzature di sceneggiatura che, purtroppo, sono ormai congenite nel genere "puttanatona hollywoodiana", vengono da fuori. Per esempio nel fatto che - prima volta nella serie - si è voluto schivare il rating R e, come suggerisce simpaticamente il sempre ottimo Roger Ebert, sembra di guardare la versione del film censurata per la proiezione in aereo. E poi c'è il doppiaggio.
C'è la scelta di voci una più sbagliata dell'altra, tutte distanti dall'originale come peggio non si potrebbe. C'è la figlia, che siccome è la figlia, deve avere la vocina, mica il vocione da scaricatore di porto della Winstead (che peraltro ben si adatta alla linguaccia del personaggio). C'è Kevin Smith che parla come lo stereotipo che interpreta, e ovviamente non può che avere quella voce. C'è John McClaine costantemente fuori giri, sopra le righe, che sbraita sempre, nonostante il Bruce in originale abbia sempre un tono calmo, duro, freddo. E ci sono una serie di volgari e tristi battute, inventate, infilate a caso, perfino in punti nei quali i personaggi dovrebbero starsene zitti, nate da non so cosa, anche se mi viene da pensare che si tratti di presunzione. Io al cinema a queste condizioni non so se ci voglio ancora andare.
di Len Wiseman
con Bruce Willis, Justin Long, Timothy Olyphant, Maggie Q, Cliff Curtis, Mary Elizabeth Winstead
Quando, venti giorni fa, sono andato a vedere questo nuovo Die Hard, sono uscito dal cinema convinto di volerlo commentare sul blog con una specie di parodia, una presa per i fondelli sullo stile di quanto fatto con Episodio III. Di elementi da perculare ce ne sarebbero del resto non pochi: penso per esempio all'inascoltabile doppiaggio, al fatto che uno dei terroristi è identico a Roberto Donadoni e a tante altre cose che, già mentre guardavo il film, mi immaginavo parodiate. Però, ringraziando lo scazzo, sono appunto passati venti giorni e sinceramente non penso ne valga poi tanto la pena.
C'è comunque da dire che questo Die Hard 4.0 mi ha stupito, innanzitutto perché su Len Wiseman, dopo essere rimasto scottato dal soporifero Underworld, non avrei puntato un soldo. E poi, diciamocelo, la semplice solidità del primo Die Hard è ineguagliabile, anche per il posto mitologico che quel film occupa nell'immaginario collettivo e che gli proietta addosso meriti se vogliamo pure superiori al dovuto. Tant'è che i pur decorosi precedenti sequel vengono - forse ingiustamente - considerati inferiori, anche di ampie spanne.
Ed è pure tenendo in mente questo che considero decisamente riuscito il tentativo di Wiseman, autore di un action movie solido, efficace, divertente. Certo, più che in un regista obiettivamente anonimo e non confrontabile con un vecchio marpione come John McTiernan, i meriti del film stanno soprattutto in Lui. Bruce, uno che a cinquant'anni suonati tiene la scena come quando ne aveva trenta, anche se magari con un filo di atletismo in meno e un pizzico di granitica fisicità in più. Invade lo schermo col suo faccione e la sua presenza, domina il film e lascia gli spiccioli ai suoi compagni di sventura.
Gli sceneggiatori lo sanno e gli costruiscono tutto attorno, ricamando una lunga serie di scene in cui permettergli di sfottere i suoi avversari a suon di battutone e strizzare l'occhio "autocitandosi" senza tregua. Oltre a lui, comunque, sono efficaci un po' tutti i personaggi, a partire da un Timothy Olyphant che non ha il carisma elegante di Alan Rickman e Jeremy Irons, ma svolge bene il suo ruolo di impreparata vittima del sarcasmo di McClane. E poi ci sono una spalla giovane e simpatica, una figlia che si rivela personaggio azzeccato ed efficace contraltare alle battute del padre e una terrorista dagli occhi a mandorla insopportabile come il ruolo richiede.
Ma oltre all'azione spettacolare, devastante, completamente fuori dal comune e dal credibile, Len Wiseman si concede perfino di sbattere dentro al film qualche vago accenno di contenuto. Una lieve riflessione sullo scomparso eroismo, una fugace e magari anche involontaria simbolica genialata in quel trucchetto della Casa Bianca brasata al suolo, un banale ma sempre efficace contrasto fra il vecchio e romantico protagonista di celluloide e la nuova era digitale, nella quale il nostro eroe si trova inizialmente spaesato e impreparato, ma che alla fine sconfigge dall'interno, come e peggio di un virus informatico.
Insomma, i veri problemi di questo quarto Die Hard, al di là delle solite forzature di sceneggiatura che, purtroppo, sono ormai congenite nel genere "puttanatona hollywoodiana", vengono da fuori. Per esempio nel fatto che - prima volta nella serie - si è voluto schivare il rating R e, come suggerisce simpaticamente il sempre ottimo Roger Ebert, sembra di guardare la versione del film censurata per la proiezione in aereo. E poi c'è il doppiaggio.
C'è la scelta di voci una più sbagliata dell'altra, tutte distanti dall'originale come peggio non si potrebbe. C'è la figlia, che siccome è la figlia, deve avere la vocina, mica il vocione da scaricatore di porto della Winstead (che peraltro ben si adatta alla linguaccia del personaggio). C'è Kevin Smith che parla come lo stereotipo che interpreta, e ovviamente non può che avere quella voce. C'è John McClaine costantemente fuori giri, sopra le righe, che sbraita sempre, nonostante il Bruce in originale abbia sempre un tono calmo, duro, freddo. E ci sono una serie di volgari e tristi battute, inventate, infilate a caso, perfino in punti nei quali i personaggi dovrebbero starsene zitti, nate da non so cosa, anche se mi viene da pensare che si tratti di presunzione. Io al cinema a queste condizioni non so se ci voglio ancora andare.