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31.7.14

Venezia a Milano è go!


A quanto pare non si ripeteranno i drammi esistenziali della rassegna dedicata a Cannes e i milanesi potranno godersi anche quest'anno una selezione dei film dei festival di (Locarno e) Venezia. Lo deduco da un comunicato stampa arrivatomi nella casella di posta e che rimbalzo qua di seguito perché mi fa sempre piacere. Sarà che sono nostalgico.

Dopo il successo di Cannes e dintorni, a settembre sarà il momento dell’attesissimo appuntamento con i film di Venezia e di Locarno.

Da lunedì 15 a mercoledì 24 settembre, Milano presenterà infatti una ricca selezione dei film della 71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e i Pardi del 67° Festival del film Locarno, proponendo a tutti gli appassionati opere che si saranno distinte e che saranno presentate sempre in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Il programma completo di le vie del cinema sarà online su www.lombardiaspettacolo.com e su www.facebook.com/agis.lombarda da martedì 9 settembre.


La prevendita online delle Cinecard inizierà venerdì 5 settembre e a partire da venerdì 12 saranno in vendita i biglietti, sul sito www.lombardiaspettacolo.com e all’Infopoint Apollo spazioCinema.

Biglietto intero €7,50
Cinecard (max due ingressi a film) 6 ingressi €27 |10 ingressi €40 |16 ingressi €56

Io, qua, mi accontento del Paris International Fantastic Filmfest.

Oggi esce The Innkeepers in Italia (credo)


Sul sito ufficiale di Indie Pictures si parla di un'uscita per il noleggio il 19 giugno e per l'acquisto il 17 luglio. Altrove invece leggo che uscirebbe oggi. Whatever, il punto è che (credo) è uscito in Italia, con calma e direttamente in download e home video, The Innkeepers, film tutt'altro che disprezzabile. L'ho visto circa tre anni fa, al Fantasy Filmfest di Monaco, e ne ho scritto a questo indirizzo qua.

Sbaglio la tradizionale discarica degli horror estivi in Italia s'è spostata dal cinema all'home video?

30.7.14

Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie


Dawn of the Planet of the Apes (USA, 2014)
di Matt Reeves
con Andy Serkis, Jason Clarke, Toby Kebbell, Gary Oldman

Già come il sorprendentemente riuscito, per quanto magari non eccezionale, primo episodio, anche questo secondo capitolo del "nuovo" Pianeta delle scimmie prosegue nel tentativo - raro, e forse anche per questo apprezzabile e apprezzato - di recuperare innanzitutto lo spirito dei classici a cui si ispira. Uno spirito fatto sì di avventura tradizionale, ben confezionata, semplice nei ritmi e nei prevedibili sviluppi, ma anche di pellicole in grado di riflettere e stimolare, di raccontare qualcosa sulla società e sulla natura umana mentre ti mostra azione e spettacolo. Una fantascienza di qualità, insomma, che ha qualcosa da dire e porta avanti un discorso politico coerente, magari semplice, ma in ogni caso d'impatto in uno scenario in cui siamo abituati a blockbuster che, nel migliore dei casi, sono eccellenti forme d'intrattenimento e nulla più.

Lo spunto principale di questa nuova saga sta nel raccontare sostanzialmente temi simili a quelli dell'originale tramite un'ottica diversa. Si parla sempre della carica autodistruttiva della razza umana, della sua tendenza a scivolare verso lo scontro e la guerra, ma lo si fa raccontando la storia di Caesar e del suo "nuovo" popolo molto più che la fine dell'umanità. E del resto il titolo originale parla di alba, non di tramonto. Sono passati dieci anni dal primo film e Caesar, pur conservando emozioni contrastanti nei confronti degli uomini grazie alla sua forte amicizia col personaggio di James Franco, è ora a capo di una comunità di propri simili, che sta provando a crescere, rafforzarsi e vivere come famiglia allargata. Chiaramente arriveranno gli umani a rompere le scatole, ma l'inizio del film, con quei primi venti minuti "silenziosi" interamente dedicati a Caesar e ai suoi, è un'apertura fenomenale, che subito stabilisce le regole e i confini del racconto: ancora una volta gli uomini faranno da contorno poco importante e il coinvolgimento emotivo sarà nei confronti di questa nuova specie, che sta pian piano iniziando a capire come affrontare il nuovo mondo fatto a pezzi dagli errori degli esseri umani.

Matt Reeves introduce quindi il film con un pezzo di bravura che crea fin dal primo istante un forte legame emotivo e si impegna poi a seguire i passi, di nuovo, assolutamente tradizionali di una sceneggiatura solida, curata, ma che inventa poco. Di suo, il regista di Cloverfield e del remake di Lasciami entrare ci mette almeno un altro paio di passaggi visivamente efficaci, con in testa quell'agghiacciante inquadratura dalla torretta del carro armato, ma il fascino del film sta - giustamente - soprattutto nel modo in cui racconta le scimmie. Le convenzioni di linguaggio e di rapporti fra di loro applicate all'evoluzione della specie verso dinamiche da esseri umani, il rapporto fra Caesar, che conosce anche il lato positivo dell'uomo, e Koba, che del "vecchio" mondo ricorda solo ignobili torture, certi piccoli momenti come quella conversazione serale fra Caesar e Maurice, il senso di appartenenza, famiglia, fiducia, sfiducia e soprattutto la sensazione che più le scimmie imparano ad essere umane e più scivolano inevitabilmente verso quegli stessi errori e quella stessa propensione alla crudeltà che credevano non facessero parte della loro natura.

 Sotto il pelo, l'uomo.

Come nel primo film, a fare da motore della storia, anche se in modi molto diversi, c'è un bel rapporto di amicizia fra Caesar e un essere umano, ma attorno a loro ruotano diversi personaggi dai caratteri semplici (specie fra il cast privo di peli) ma non per questo banalizzati o poco credibili. Soprattutto, si percepisce una forte attenzione nel dare equilibrio alle motivazioni e alla natura dei personaggi e, per quanto sia evidente una divisione fra "positivi" e "negativi", il comportamento di ognuno è perfettamente sensato, comprensibile, anche giustificabile. Di fondo succede quel che deve succedere: non è strettamente "colpa" di nessuno, ma va a finire sempre così, le piccole comunità isolate vengono spezzate dai forti contrasti e la diversità di obiettivi porta al conflitto. C'è veramente un colpevole o alla fin fine è tutto scritto e inevitabile nell'essenza stessa di ciò che significa essere umani? 

Chiaramente e banalmente, se il film funziona, oltre che per la scrittura solida e le buone intuizioni di Reeves, è perché al centro di tutto ci sono le scimmie, che portano un carico di personalità e di fascino tutto particolare a quella che, di fatto, altrimenti sarebbe la "solita" tribù in conflitto con gli uomini armati pesantemente. Ma soprattutto, c'è il lavoro pazzesco di Andy Serkis, di Toby Kebbell e di tutti quelli che ruotano loro attorno, dando vita a personaggi forti, dalla potenza espressiva incredibile negli sguardi, nelle voci, nei movimenti del corpo. Tutto il conflitto interiore di Caesar, le difficoltà del suo ruolo, l'impossibilità di rimanere aggrappato a un codice morale infranto dal "virus" dell'umanità che si sta infiltrando nella famiglia di scimmie, emerge in ogni centimetro del suo corpo. I diversi confronti fra Caesar e Koba, con quello lì in particolare verso metà film, valgono da soli il prezzo del biglietto e proprio dal loro conflitto, fra l'altro, arriva forse l'unica, piccola, sorpresa del film, una svolta che tutto sommato va contro quel che ci si aspetta da questo tipo di cinema americano e che a maggior ragione sottolinea il tentativo, almeno in parte riuscito, di fare qualcosa di diverso.

Ho visto il film qui a Parigi, al cinema, in 3D e in lingua originale. Il 3D, per quanto efficace in senso assoluto, non viene particolarmente sfruttato da Reeves. O quantomeno così mi è parso. Gary Oldman è sempre bravo anche quando ha cinque minuti a disposizione. Spero che il doppiaggio italiano renda giustizia a Caesar e Koba, perché parlano poco, ma quando lo fanno mettono i brividi.

29.7.14

The Raid - Redenzione


Serbuan maut (Indonesia, 2011)
di Gareth Evans
con Iko Uwais, Donny Alamsyah, Yayan Ruhian, Joe Taslim

Il mio rapporto con The Raid è una storia che parte da lontano e che credo abbia avuto inizio quando da ragazzino mi guardavo in TV i film con Bruce Lee ma, soprattutto, alle mie feste di compleanno piazzavo tutti gli amichetti davanti al televisore ed estraevo dal mobiletto le sacre videocassette degli American Ninja, per poi procedere con la visione di gruppo all'insegna del brofist. Probabilmente c'entra anche il fatto che mia madre, santa donna, mi portava al cinema a gustarmi i film brutali di quegli anni, fra un Predator e un Robocop, spesso convincendo a testate la cassiera di turno che sì, davvero, avevo quattordici anni e vedesse di non rompere le palle. Ma nello specifico dei film con le pizze in faccia, l'amore nasce soprattutto da quella serie lì, da American Ninja. Come in tutte le rom-com che si rispettino, però, al termine del secondo atto la storia d'amore s'è incrinata, perché da adolescente mi sono fatto prendere da quell'aria da cinefilino spocchioso che agitava un carico di puzza sotto il naso e, sì, OK, John  McTiernan va bene, i film cinesi con la gente che si avvita e quelli con le sparatorie, ma solo se col nome famoso alla casella "regista". Ma il resto, eh, insomma.

Cercavo altro. Non so bene cosa, ma lo cercavo. Forse altre esperienze prima di concedermi al matrimonio, può essere. Ogni tanto m'appariva davanti un Jet Li in Arma Letale 4, sobbalzavo e mi rendevo conto di stare perdendomi qualcosa. Ma non capivo bene cosa e lasciavo stare. Poi, però, come in ogni rom-com che si rispetti, è arrivato l'amico un po' strano ma che ci tiene tanto al protagonista, quello che sa sempre tirar fuori la battuta azzeccata un po' scurrile e che se lo guardi in maniera superficiale (o con la puzza sotto il naso) può sembrarti un cretino ma che in realtà ne sa tantissimo, c'ha una cultura che levati e ti dice sempre la cosa giusta. Sono arrivato a conoscerlo percorrendo mille vie che vanno da it.fan.studio-vit alla creazione di questo blog, passando per un link di qua e di là e un qualcuno che segnalava qualcos'altro, ma evidentemente era destino. Credo sia successo quattro anni fa, o forse pure qualcosina in più: sono arrivato su I 400 Calci, ho scoperto uno dei siti più belli, divertenti e ricchi di roba interessante che ci fossero, mi sono subito trovato a mio agio grazie alla mai sopita passione per i film con la gente che muore male e quelli con le astronavi, ma soprattutto ho (ri)scoperto un mondo che per qualche motivo avevo brutalmente perso di vista. Quello dei film con la gente che si tira le pizze in faccia.

Due anni fa, poi, appare la recensione, quella di The Raid. Mi sale addosso una gran voglia di vederlo, come non potrebbe. Ma per qualche motivo finisco per rinviare, rimandare, non fare ciò che devo. L'anno scorso, a un certo punto, vado a recuperare il Blu-Ray al noleggio vicino a casa in quel di Monaco della Baviera. Sì, pazzesco, videonoleggio, nel 2013, non ci si crede. Torno a casa e mi rendo tragicamente conto del fatto che l'ha pubblicato Koch Media. Quelli che mettono i sottotitoli solo in tedesco. E, boh, sono fatto così, non ci posso fare niente, mi dà fastidio, voglio capire quel che si dicono anche in un film come The Raid. Attenzione: lo riporto indietro senza guardarlo. Pazzia. Poi, però, qualche tempo dopo, durante un viaggio di lavoro a Londra, afferro il Blu-ray con la copertina tutta olografica in un negozio a caso e lo tengo stretto al cuore. Arriva poi la visione, ed è un tripudio. Ma per qualche motivo, The Raid finisce nel gorgo dei film/libri/whatever per i quali creo la bozza qua su Blogger e poi non scrivo mai il post. Chissà come mai. Magari c'entra anche il fatto che ormai cosa vuoi scrivere, su quel film? Può essere. Poi, però, ieri accade che vado al cinema a guardarmi il seguito. Perché sai, qua a Parigi succede questa cosa che ti proiettano nel multisala un film indonesiano sottotitolato pieno di gente che viene spappolata fortissimo. E m'è venuta voglia di scrivere del primo The Raid, perché sono ossessivo compulsivo.

Mia madre alla cassa del cinema.

Mentre lo guardavo, The Raid, mentre lo guardavo per la prima volta, prima di riguardarne le sequenze chiave innumerevoli volte con un clic veloce su YouTube o rimettendo al volo il Blu-ray nella PS3, soprattutto durante la prima mezz'ora, avevo un pensiero fisso in testa. Adesso, però, m'è venuto in testa il pensiero fisso che non l'ho mai riguardato per intero. Devo farlo. Vado a farlo. Comunque, dicevo, il pensiero fisso. Mi sembrava di stare guardando Aliens. Alla fine, a pensarci bene, la struttura è quella, solo spogliata di tempi morti, bambine pestifere e istinti materni. The Raid è Aliens, con un condominio indonesiano al posto della colonia sul pianeta LV-426, una squadra di poliziotti indonesiani al posto dei marine e un'orda di indonesiani incazzati neri, armati di mitra e machete, al posto degli alieni. Iko Uwaiss è Sigourney Weaver, Donny Alamsyah è Michael Biehn, Joe Taslim è Bill Paxton, Pierre Gruno è Paul Reiser e Yayan Ruhian e Ray Sahetapy si dividono rispettivamente braccio e mente della regina aliena.

Il minuto di romance iniziale è la chiacchiera prima di partire per lo spazio, la parte in camionetta è quella sull'astronave, quindi c'è l'ingresso verso l'ignoto della squadra speciale convinta di fare il culo a tutti che si ritrova assalita dall'alto e fatta a fette dagli autoctoni senza capirci sostanzialmente nulla e da lì in poi è una lotta per la sopravvivenza. È una somiglianza voluta? Ce la vedo solo io? Vai a sapere. Il punto è che improvvisamente mi sono ritrovato a guardare un Aliens tesissimo in cui i conflitti si risolvevano con i combattimenti più belli, brutali e coinvolgenti che abbia forse mai visto in vita mia. Oddio, magari esagero, ma insomma, di certo era il meglio che mi capitava davanti agli occhi da tanto tempo. Perché poi, alla fin fine, il punto di The Raid sta soprattutto lì, nel manico di Gareth Evans, che se ne va in Indonesia (lo ammetto: non ho ancora visto quel che ha diretto prima di The Raid) e realizza un film vero e proprio, non uno di quei showcase circensi dei quali magari ci si accontenta anche ma, ehi, insomma, ci siamo capiti..

The Raid è innanzitutto un film che cura molto bene il suo - esilissimo, per carità - aspetto narrativo, dandogli l'importanza minore che ha ma senza trattarlo a caso come spesso si vede. Il che, se vogliamo, è paradossale: Gareth Evans racconta una storia che potrebbe stare scritta su un angolo di un post-it, ma lo fa con cura, sintesi e rispetto, mentre Michael Bay impiega due ore a raccontare il nulla prima di far partire le esplosioni e, già che c'è, lo fa utilizzando personaggi, situazioni e trovate il cui unico fine sembra essere dar fastidio a chi guarda. Ma non divaghiamo. Gareth, il caro Gareth, mette assieme un crescendo di tensione pazzesco con pochissime trovate e lo fa esplodere in maniera brutale, pazzesca, ogni volta che iniziano a volare i ceffoni, mantenendo un ritmo inarrestabile dall'inizio alla fine. E i ceffoni, mamma mia. Li riprende come poca altra gente al mondo, seguendo l'azione in maniera chiara, gestendo i traballamenti, i movimenti, gli scatti improvvisi non allo scopo di non far capire nulla ma per seguire il gesto atletico, farti viaggiare assieme al cazzotto, e poi alla faccia della povera vittima, giù giù fino allo schianto contro il pavimento.

Mettici in mezzo delle coreografie dalla spettacolarità - e dal tasso di dolore per gli stuntman - fuori scala, una gestione degli spazi e dei tempi che levati e la bravura pazzesca di bene o male tutti quelli che si agitano sullo schermo. Spruzzaci sopra il carisma di Yayan e la maestria con cui il suo personaggio viene tratteggiato grazie a due gesti e quattro sguardi. Inserisci la cura per i dettagli, la capacità nello sfruttare e reinventare costantemente una location tanto fascinosa ed efficace quanto teoricamente limitata nelle soluzioni che offre. Rifinisci con uno scontro finale due contro uno semplicemente pazzesco per potenza, coinvolgimento e brutalità. Ed ecco il capolavoro, un film che stupisce non solo per la carica atletica e la bellezza delle coreografie, ma anche e soprattutto per il talento e l'ingegno di chi lo dirige, oltre che per la capacità di donare ai combattimenti una personalità e una forza molto particolari. Quelle di chi si fa malissimo e te lo fa sentire con tutta la sua violenza. Perfino le musiche realizzate da Mike Shinoda per la versione occidentale funzionano benissimo e, diciamocelo, non è che l'istinto mi stesse suggerendo di aspettarmelo. Insomma, The Raid è un film pazzesco e, per quanto dichiararlo il 29 luglio del 2014 lasci un po' il tempo che trova, il blog è mio, me lo gestisco io e, per l'appunto, lo dichiaro. Ciao.

L'ho visto in lingua originale sottotitolata in inglese e devo ammettere che le voci indonesiane, immagino per scarsa abitudine, mi fanno un po' sorridere, quando son lì che dicono le cose tutte serie e melodrammatiche emettendo quei suoni strani. Ma insomma, eh.

28.7.14

Gli ultimi mesi a fumetti di giopep


La periodicità completamente casuale di questa rubrica è uno fra i motivi per cui continuo a portarla avanti, perché mi diverte troppo. E che ci vogliamo fare, mi diverto con poco. Comunque, lo scorso giugno ho scritto dei fumetti che ho letto durante il mio soggiorno pasquale in Italia, adesso scrivo dei fumetti che ho letto fra Pasqua e inizio luglio, la prossima volta scriverò di quel che ho letto mentre ero in ferie in Italia a luglio. A posto così.

iZombie ****
Ci ho messo mano - ma soprattutto mi sono accorto della sua esistenza - sostanzialmente solo perché CW ha annunciato una serie TV che, col senno di poi, pare proprio esservi molto vagamente e liberamente ispirata. Però, insomma, perché no, considerando che si parla bene o male di zombi, che così ne abbiamo tirato fuori un episodio di The Walking Podcast e che, ehi, Mike Allred. Ebbene, lettura gradevolissima, impreziosita ovviamente da dei disegni adorabili e che ha il pregio di essere paradossalmente molto credibile e realistica nelle situazioni, nei dialoghi e nei rapporti fra i personaggi pur essendo follemente sopra le righe e tirata verso l'assurdo nelle situazioni, nei dialoghi e nei rapporti fra i personaggi. Non so bene cosa questo voglia dire, quindi mi sembra una descrizione perfetta.

Les japonais ne savent pas parler le japonais #1 ****
Dunque, questo è una cosa bizzarra: un manga più o meno (non so fino a che punto, ma credo molto) autobiografico realizzato da un'insegnante di giapponese che lavora in patria e ha come alunni gente che arriva da tutto il mondo. Sono tre volumi, ho letto il primo, comprerò gli altri due perché è davvero divertente. In sostanza, si chiacchiera di lingua giapponese, delle difficoltà da parte degli stranieri (occidentali e non) nell'impararla, di similitudini, equivoci, espressioni arcaiche, modi di dire, modernità. È molto interessante, gradevole, autoironico e, se interessa l'argomento (e masticate una delle lingue in cui è stato tradotto), lo consiglio, anche se non sono purtroppo a conoscenza di eventuali versioni italiane.

Come Prima *****
Un fumetto francese che racconta di due fratelli italiani, residenti in Francia, che si mettono in viaggio in auto per tornare a casa in occasione di un triste evento. L'ho comprato d'istinto nella fumetteria vicino a casa e l'ho quindi letto in francese, all'insegna del programma "impariamo la lingua del posto in cui vivo", ma l'altra settimana, durante il mio solito passaggio da Supergulp, l'ho visto in vetrina. Quindi, ehi, ne esiste un edizione italiana (curata da Bao)! La storia non è esattamente originalissima e, anzi, gli sviluppi sono bene o male abbastanza prevedibili, ma è raccontata bene e soprattutto disegnata con grande stile. Merita.

Cronache di Gerusalemme *****
Altro giro, altro fumetto francese comprato alla fumetteria vicino a casa all'insegna del programma "proviamoci". Racconta della permanenza dell'autore a Gerusalemme, pochi anni fa, per accompagnare la moglie coinvolta nel programma Medici senza frontiere. Bello, spiritoso, ricco, interessante, approfondito e purtroppamente d'attualità per motivi che hanno dominato Facebook nelle ultime settimane e non devono quindi essere spiegati. Anche questo è uscito in Italia, nella collana Graphic Journalism del Corriere della Sera ma anche in libreria per Rizzoli Lizard.

American Vampire #5 ****
Dopo un quarto volume che mi aveva lasciato molto, molto, ma veramente molto perplesso, American Vampire torna in forma con una valanga di pagine interessanti, appassionanti e che riportano in primo piano i motivi per cui in avvio era risultato così affascinante. Poi, quali siano questi motivi non lo so, però mi sono divertito a leggerlo.

East of West #1/2 *****
Una specie di fanta-western talmente allucinato e fuori di cozza che faccio veramente fatica a immaginarmi come sarebbe possibile raccontarlo (certo, gioca anche il fatto che l'ho letto ormai da qualche tempo). Alla base c'è una storia di vendette personali, amori condannati a finir male e brogli politici ai danni della povera gente. Solo che il protagonista è uno dei quattro cavalieri dell'apocalisse, i brogli politici sono fra gli altri tre e i vari padroni del pianeta Terra e in ballo c'è ovviamente la fine del mondo. Di un mondo a dir poco irriconoscibile, per altro. Assurdo, bellissimo.

Locke & Key #6: "Alpha & Omega" ***** 
OK, qua ci starebbe bene una riflessione con cui tirare le fila dopo la conclusione di una fra le serie più belle degli ultimi anni, ma la verità è che non so bene cosa dire (e d'altra parte pure questo l'ho letto ormai da qualche tempo). Diciamo che è un bel finale, capace di chiudere come si deve una situazione che non era affatto facile chiudere. Inoltre ti fa accettare (perfino apprezzare!) la sferzata di lieto fine perché inserita in un contesto in cui comunque non si è fatto problemi a picchiare duro e buttarla sul sanguinario quando e dove c'era bisogno di farlo, anche con personaggi che ti aspetteresti di vedere allontanarsi sorridenti verso il tramonto. Davvero bella roba, consigliatissimo più che mai.

Quelli che ne ho scritto o parlato altrove e quindi metto il link ad altrove
Scott Pilgrim ****
L'ho riletto per scriverne su Outcast, dato che quella settimana mi toccava Librodrome e non c'avevo nulla di meglio di cui parlare. Come la prima volta che l'ho letto, m'è piaciuto senza farmi impazzire dalla gioia.

Quelli che ho scritto in altre occasioni dei numeri precedenti e non ho niente da aggiungere e mi limito quindi a metterli qua in fila con le stelline che mi ero appuntato
Fairest #3: "The Return of the Maharaja" **** 

E niente, sono tornato dalle ferie, sto in quella classica apnea lavorativa di chi è appena tornato dalle ferie e ho centomila film che voglio andare a vedere al cinema. Poi, certo, ci sono delle priorità.

7.7.14

Ferie


No, niente. Mentre viene pubblicato questo post, io sono in macchina, direzione arrosticini. Per dieci giorni almeno, niente posta, niente lavoro, niente niente. Toh, magari un po' su Facebook ci vado, ma la posta non la apro neanche per sbaglio. Ho disattivato le notifiche sul telefono, per sicurezza. Maledetta posta! [inserire immagine di pugno stretto e agitato verso il cielo beffardo] Relax. Immagino questo voglia dire che per almeno dieci giorni il blog si fermerà. Oh, poi, vai a sapere, questo post l'ho scritto e programmato venerdì, magari nel fine settimana m'ha preso il fuoco sacro e ho scritto e programmato dodici post. Credici.

Vediamo se riesco ad ingrassare di dieci chili in dieci giorni.

6.7.14

The Fusion

Alla fine del 2013, Roger avrebbe potuto ritirarsi. Mettetevi nei suoi panni: eliminato nei turni preliminari degli ultimi tre slam, sconfitto dai top ten in tutte le partite che contavano, dominato negli scontri diretti dalla sua nemesi.
Il nostro, osservando il paesaggio di Bottmingen dalle ampie vetrate della sua villa, ha alle sue spalle due gemelle che si rincorrono sul parquet, una moglie che pensa già a dei fratellini, una fortuna accumulata tramite gli sponsor e uno scaffale in cui un impressionante affollamento di trofei sottolinea come non ci sia più nulla da vincere, è tutto lì.
Licenziato Annacone, lo storico allenatore di Sampras, Roger ha capito che il suo gioco non può subire ulteriori rifiniture. A tradirlo è l'età, l'impossibilità di vincere gli scontri a fuoco più lunghi di tre set. Non è bastata la nuova racchetta, non è stato sufficiente guarire la schiena, perché tormentarsi con estenuanti allenamenti mattutini? Per racimolare una manciata di giochi nei quarti di finale? Per un ultimo applauso di commiato?

Roger si avvicina al telefono. Basterebbe una chiamata e gli addetti alle pubbliche relazioni informerebbero stampa, sponsor e associazione giocatori dell'avvenuta decisione. Un bel messaggio di addio, una intervista fiume alla BBC e poi una dolce pensione, spesa guardando le finali da Royal Box, impugnando un calice di Perrier Jouet al posto della Pro Staff.
Roger si avvicina al telefono, apre l’agenda, compone un numero.

Quello di Stefan Edberg.




Stefanello, sul campo e fuori, era un signore. Un distinto e bellissimo scandinavo sempre educato con arbitri, guardialinee, raccattapalle. La sua più focosa lamentela ebbe luogo al Roland Garros, quando un lob di Jim Courier lo scavalcò su una fondamentale palla break finendo abbondantemente fuori. Il guardialinee distratto non se ne accorse. L’arbitro pavido non ebbe il coraggio di correggere la chiamata su un punto così importante. Stefanello, dopo aver identificato con precisione il punto di impatto, volse lo sguardo verso quest’ultimo e gli chiese “Are you sure?”

Questa signorilità si rifletteva nel suo gioco, composto da un servizio in kick che non impediva agli avversari di rispondere, ma si limitava a rallentarne l’azione. Il suo splendido rovescio ad una mano colpiva indistintamente di piatto, arrotato o tagliato, ma non poteva compensare un diritto sgraziato, effettuato con una presa chiusa, che nella migliore delle ipotesi restituiva palle lente e lunghe. D’altronde tutto il gioco di Stefan puntava ad una cosa e una soltanto: permettergli di scendere a rete.
La locuzione “scendere a rete” indica però una serie di pratiche motorie che poco si addicono al modo in cui Stefanello si avvicinava al net, perché lo svedese non si limitava a correre in direzione dei suoi avversari. Stefanello volava. Con tre impalpabili passi giungeva nei pressi della rete e lo faceva sulle sue prime, sulle sue seconde e sui servizi avversari. L’antagonista gli serviva un bolide? Lui rispondeva in chop una palla lenta e profonda, quindi spiegava le sue angeliche ali, visibili solo agli osservatori più attenti, e “scendeva” a rete.

Una volta giuntovi risultava insuperabile, dominando longitudinalmente l’intero campo. Inutile tirargli missili nei piedi, lui li intercettava all’altezza delle caviglie e li indirizzava nell’angolo lontano del campo. Vano sparargli dei colpi di mortaio da distanza ravvicinata. Scavalcarlo con dei pallonetti? Un suicidio consapevole.

Per Stefan il Tennis era uno sport da tre colpi: servizio o risposta, prima volée, seconda volée. I suoi avversari uscivano dal campo sconfitti, frustrati e freschi come rose. Non riuscivano nemmeno a sudare, a scaldare i loro passanti. Si ritrovavano a gestire poche palle scomode, basse e scivolose, alte e senza peso, lontane dal corpo. Riuscivano, ogni tre giochi, a tirare una sabongia angolata di diritto solo per vedersela tornare indietro una frazione di secondo dopo nell’angolo opposto. Seguivano il loro servizio e si ritrovavano a dover duellare di fioretto sottorete, finendo sempre sconfitti da un cavaliere biondo infallibile nelle stoccate.



Si potrebbero spendere migliaia di parole sulla specifica partita in cui Stefan, affrontando Mecir, decise di mettere in riga una intera generazione. Sul modo in cui rispose colpo sui colpo ad un tie break giocato alla perfezione da Pete, o scimmiottò gentilmente Ivan sotto il cielo australe restituendogli un colpo dietro la schiena effettuato dal ceco pochi punti prima.


Ai fini della nostra storia è però meglio concentrarsi sulla prima delle tre finali consecutive che resero il centrale di Wimbledon il giardino privato del nostro arcangelo e di Boris.
Sul match point del primo di quegli scontri Stefan serve una seconda: Bum Bum risponde di rovescio e si ritrova a dover fronteggiare l’ovvia volée. Ancora rovescio, ancora volée, gancio di diritto che Stefan ribatte con una palla corta. Boris corre verso la rete, sa che bucare il suo avversario ai lati è quasi impossibile, decide di tirargli la palla addosso.

E quindi Stefan dice ciao ad Annette, mette le vecchie Wilson in valigia e raggiunge Roger. Sin dalle prime interviste i due spiegano che Stefanello non intende snaturare il gioco di Dogana. Impensabile suggerirgli di attaccare su tutte le palle, i suoi avversari tirano troppo forte e troppo angolato. Certo ci sarebbero un paio di modi per fuggire dalla diagonale della morte sul rovescio… Ma no, niente voli pindarici. Stefan svolge il ruolo di motivatore, costringe Roger a dare il meglio davanti agli occhi del suo idolo giovanile. Si limita a suggerire un maggiore utilizzo del back.

La cura porta a qualche timido risultato. Si torna a vincere a Dubai, si conferma la tradizionale vittoria ad Halle. Roger attacca su qualche palla in più, ma non così tante. Gli Slam rimangono comunque un ricordo del passato.


È la semifinale di Wimbledon e Roger affronta Milos Raonic, un cristone canadese capace di affondare i suoi avversari sotto trenta Ace. Sono i primi punti della partita, Milos serve un bolide centrale a 220 km/h. Roger risponde con una palla tagliata di rovescio, lenta e profonda.

La segue a rete con tre passi. Per un istante i suoi capelli sembrano imbiondirsi. La volée è corta, Milos ci si avventa come un bufalo, carica il diritto per colpire il suo avversario.

Roger lo guarda con l’aria di chi ha, solo ora, finalmente compreso. Muove la racchetta con nonchalance, senza nemmeno guardare, guidato da una mano educata.

Oggi, sul centrale e sul 203, c’è Fedberg.

Enjoy.

Lo spam della domenica mattina: Ferie


Questa settimana ho solo tre cose da segnalare. Del resto, ho passato la settimana dedicandomi al Japan Expo 2014, preparando tonnellate di roba che serviva pronta per la mia imminente assenza e, in generale, per l'appunto, preparandomi alle ferie. E si sa, la settimana prima delle ferie è sempre di una brutalità tale che, quando finalmente parti per le ferie, beh, di sicuro hai bisogno di andare in ferie. Ferie. No, niente, è che volevo scriverlo un'altra volta. Ferie. Comunque, a proposito di Japan Expo, l'altro giorno è uscita su IGN la mia intervista a Hironobu Sakaguchi, che, OK, free to play, mobile, buuu, cattivo, però personaggino delizioso e, credo, intervista gradevole. Sta a questo indirizzo qua. Su Outcast, invece, ho uscito il Videopep dedicato al Saitek X52 Pro e l'Old! in cui chiacchiero del luglio di quarant'anni fa. Ma ci pensate? Quarant'anni fa! Pazzesco. Ferie.

Da domani sono in ferie. Martedì, comunque, esce il nuovo Tentacolo Viola. Ferie.

5.7.14

La robbaccia del sabato mattina: Ciao, eh


Bene, ultima Robbaccia prima di andarmene in ferie, quindi probabilmente ultima Robbaccia per due o tre settimane. Ah. Che bello. Per altro scrivo queste righe ieri, stanco morto, accaldato, devastato dalla terza giornata di Japan Expo, con la valigia ancora tutta sfatta, con un forte desiderio addosso di svenire, e il post viene pubblicato, immagino, mentre sto finendo di preparare la valigia. Sarò breve.



Child of God, diretto da James Franco, tratto da Cormac McCarthy, mi attira non poco, vedo che è uscito da tempo in Gran Bretagna, attendiamo notizie per il resto del mondo. Per altro, su IMDB, per quel che vale, non è che abbia esattamente un voto incoraggiante. Mbah, non so, comunque mi attira. Boh. Al di là di questo, non ho altri trailer da segnalare. Magari ci sarebbe anche qualcosa di ganzo che m'è sfuggito, ma questa settimana è andata così, in apnea, e non m'è caduto l'occhio su altro. Oddio, ci sarebbe quello di Home, che però m'ha fatto pietà, e quindi...

Segnalo, in compenso, questa interessante intervista in cui si parla di sistemi di rating per bocca di due ex impiegati dell'ente di regolazione americano. Ne escono diverse considerazioni interessanti. Credo. Non lo so. Sono brasato. Segnalo anche la prima foto di Henry Cavill in costume da Batman V Superman: Dawn of cento film sui supereroi DC, che poi sarebbe quella là in cima, e già che ci siamo metto il link a una presunta fuga di notizie sul fatto che, per completezza, oltre a centododici supereroi, nel film avrebbero infilato centododici supercriminali. Poi, che altro... a questo indirizzo si parla di una foto twittata da James Gunn relativa a Guardians of the Galaxy e ci si fanno un sacco di pippe mentali su cosa potrebbe significare. Riflettiamo insieme sulla cosa guardando il video scemo della settimana.



Torno a preparare la valigia.

4.7.14

Andiamo tutti al Japan Expo


Allora, mi piacerebbe essere in grado di scrivere un racconto dei miei, di quelli che vado avanti a scrivere per un'ora, vengono fuori quarantamila caratteri e poi chi lo legge mi dice: "Uau, che bello, a leggerti sembra di essere stati lì." Il problema è che sono stanco morto, ho poco tempo, centomila cose da fare, domani parto per l'Italia e sto scrivendo questo post ieri sera, mentre faccio altre centomila (appunto) cose e boccheggio e non so se ce la faccio e cominciamo subito a fermarci altrimenti scrivo quarantamila caratteri solo di divagazioni accazzodecane. Dunque. Il Japan Expo.

Per chi non sapesse di che parlo, suggerisco di cliccare lì sopra, ma spiego anche brevemente: è una fiera, giunta alla sua quindicesima edizione, che si svolge qua a Parigi, nel complesso fieristico di Parc des Expositions de Paris-Nord Villepinte, che si trova a due fermate di trenino dall'aeroporto (per la cronaca, il biglietto per l'aeroporto costa dieci euro e qualcosa, quello per la fiera costa quattro euro e qualcosa). La manifestazione, come si può facilmente intuire dal nome, è dedicata al Giappone tutto. Ed è una roba di una bellezza commovente. Ma letteralmente, eh. Intendo proprio dire che al primo impatto, mentre iniziavo a girare lì dentro, ero commosso. Ma sul serio, eh: c'avevo gli occhi gonfi. Che esista una roba del genere è una cosa bella punto e basta. Francesi brava gente, altro che.

Lucciconi.

Ma in che senso "al Giappone tutto"? Nel senso che c'è tutto. Ora, intendiamoci, ovviamente c'è tanto marketing, c'è tanta gente che è lì solo per vendere e ci sono anche un po' di stand in mano a commercianti che ti chiedi onestamente cosa c'entrino, ma poco importa: sono due hall immense (e spiccioli) in cui trovi di tutto. C'è tanto videogioco, ovviamente, così come c'è tanto anche sul fronte di manga e anime. E in realtà già solo per il modo in cui questi tre "argomenti" sono coperti verrebbe da abbracciare forte chi organizza, e sottolineo che lo dico da persona che non sta più dietro da tempo agli anime, legge ormai pochi manga e tutto sommato anche sul fronte dei videogiochi non è che sia proprio il più grande appassionato della produzione Namco Bandai. È che proprio ti viene lo stesso da irradiare amore, di fronte a un tale dispiegamento di forze.

Ma non è solo quello, perché c'è anche il resto, c'è tutta la parte dedicata al Giappone in senso più ampio, c'è il cibo, c'è l'aspetto culturale, ci sono le mostre, c'è la musica, l'arte, l'antichità, c'è perfino lo sport, con le dimostrazioni e gli stand in cui ti fanno provare a tirare con l'arco, ad agitare bastoni e a fare altre cose strane. E poi ogni "argomento" viene trattato in maniera spaventosamente ampia. C'è tutta un'area con un palco enorme per conferenze e concerti, c'è ovviamente il cosplay, ci sono non so quanti palchi dove assistere a presentazioni, conferenze, interventi, ci sono le sessioni di autografi e c'è qualsiasi cosa possa venire in mente di sperare di trovare. Le stesse conferenze spaziano in tutte le direzioni e su tutti gli argomenti e, per dire, lato videogiochi, si va dalla "banale" presentazione alla sessione di domande e risposte di Hironobu Sakaguchi con il pubblico ad addirittura interventi in stile GDC, con Kenji Kanno che ha fatto un post mortem su Crazy Taxi.

 Mh, OK.

Potrei andare avanti per quarantamila caratteri, sto rischiando di farlo, non posso permettermi di farlo. Tra l'altro, così, lo segnalo, l'area Business/Stampa/Professionisti è forse la più organizzata e intelligente che abbia mai visto. Non che ci voglia molto, a vincere in quel campionato, but still. Poi posso aggiungere che andare alla fiera il primo giorno, di mercoledì, è stato bello perché non c'era troppa gente. Ce n'era, eh, non è che non ce ne fosse, ma si respirava. Andarci il secondo giorno, di giovedì, è stato comunque bello, ma cacchio la gente. Andarci il terzo giorno, oggi, non so come sarà, ma un po' mi mette paura. Per fortuna sabato e domenica, anche volessi (not), non ho modo di andarci, così magari non rischio di essere calpestato. Ma basta, basta, avrei ancora tanto da dire, potrei, ma alla fine a che serve? E comunque non posso, devo fermarmi. Il punto, alla fin fine, è molto semplice: se è una roba che vi attira, se magari stavate pensando prima o poi di andarci, se eravate indecisi e se, per qualche bizzarro motivo, vi lasciate talvolta influenzare dalla mia opinione, beh, date retta a me: l'anno prossimo, l'anno dopo, quando riuscite, quando vi pare, fatevi un giro al Japan Expo di Parigi. Perché merita. Porca miseria, se merita.

(Seguono foto a caso messe in fila a caso tanto per far numero. A caso.)
























































Le foto vengono quasi tutte dal primo giorno, qualcuna dal secondo. Se mi capita di immortalare qualcosa di simpatico nella terza giornata, magari, aggiungo.

 
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