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16.12.08

CHA-CHACK!

Mi sfugge il motivo per cui insisto ad andare a dormire ben oltre le due di notte anche quando il giorno dopo devo svegliami a orari improbabili (che so, le cinque) per affrontare viaggi interminabili. Però lo faccio, e parto quindi sempre bene. Sedici ore dopo essermi svegliato alle cinque, atterro a Los Angeles. Nel mezzo, un viaggio in taxi, l'incontro casuale in Malpensa con dei brutti ceffi diretti a un altro evento in quel di Londra, le due ore di volo verso Londra, il ritardo nell'uscita dall'aereo perché non sta arrivando la cazzo di scaletta, la corsa per raggiungere il nuovo aereo, dieci ore sopra l'oceano in cui ho letto tutte le riviste possibili, ho finalmente scritto un po' di roba da sbattere qua dentro, ho giocato a una versione NDS di Metal Slug 7 che fa sembrare curate le conversioni su PC di Konami e mi sono guardato Tropic Thunder.

Uno dice “sei atterrato, adesso sei a posto”, ma probabilmente quell'uno non è mai stato negli USA, perché altrimenti saprebbe che all'immigrazione un'oretta di coda non te la negano mai. A quel punto, finalmente, esco, piglio l'autobus, raggiungo il ristorante dove ci si becca con la gente di Koch Media e gli altri giornalisti e mangio chiacchierando un po', fra l'altro narrando meraviglie sugli aspetti più affascinanti del mio Bel Paese (che so, Berlusconi, la mafia, Berlusconi, la crisi, Berlusconi, queste cose qui). Dato che evidentemente una minchiata tira l'altra, si abbandona il ristorante alle 16:30 invece che alle 15:00. Grosso errore.

Due ore di traffico solo per uscire dalla ridente cittadina, poi si parcheggia in una stazione di sosta a caso e si aspetta un altro autobus, perché al nostro, sai com'è, s'è rotta la batteria. Intanto si cena a patatine e coca cola. Ore dopo, all'arrivo nel resort in mezzo al deserto, mi aspetta una bistecchina che mangio anche volentieri. Ma siccome sto crollando, subito dopo mi infilo in camera, ovviamente gelida, perché il deserto, di notte, se non accendi il riscaldamento, è gelido. Una camera gelida, nel deserto, ventisette ore dopo essere uscito di casa, ventotto ore dopo essermi svegliato, con due ore di sonno sulle spalle. Ah, che figata di lavoro che fai, ah, i viaggi gratis in giro per il mondo, ah! Ah! Ah! A-ha!

Detto che come mio solito subisco il jet-lag svegliandomi alle sei, o qualcosa del genere, devo ammettere che la giornata intera trascorsa sul luogo è stata una bella giornata. Il deserto, mamma mia, ancora non capisco bene per quale motivo ma è un genere di paesaggio che adoro. Sarà il silenzio, sarà il nulla, sarà il caldo asciuttissimo e piacevolissimo (certo, magari non ad agosto), ma veramente ci sguazzo. E infatti, dopo una colazioncina basata su due o tre bicchieri di beverone contenente credo della caffeina e un dolce dagli ignoti ingredienti, ingurgitati chiacchierando con dei californiani a caso, un tedesco che vive a San Francisco e una francese grossa il doppio di me, me ne vado a fare un giro. Tanto l'incontro per vedere il gioco ce l'ho a mezzogiorno.

Il giro consiste prima in un tour guidato di 'sto posto assurdo dove mi hanno portato, il Joshua Tree Retreat, sorta di eremo per ritiri spirituali, riunioni, assembramenti, magari anche orge e suicidi di gruppo, vai a sapere. Ah, progettato e costruito da Lloyd Wright, architettone di quelli grossi. Dopodiché piglio e mi metto a vagare nei dintorni, incontrando varie amenità (che so, palline da golf, scarpe da tennis, leprotti in fuga, polvere... ) e fidandomi del fatto che, a quanto dicono, l'aria è sufficientemente fredda da non farmi correre il rischio di incontrare serpenti a sonagli. Effettivamente non ne incontro.

Se a qualcuno interessano foto della giornata, le trovate qui, che facciamo prima. Una volta sbrigata la pratica lavorativa, io e gli altri giornalisti "stranieri" raggiungiamo gli yankee, che han passato la mattinata a vagare su ATV fra sassi e sterpaglie. C'è solo mezzora di tempo e devo sostanzialmente scegliere se farmi un giro sulle quattro ruote o mangiare. Ovviamente scelgo di mangiare. E poi via, verso l'incredibile poligono di tiro. Ah, che bello, si spara davvero, chi non vorrebbe sparare a un bersaglio in vita sua? Boh, non lo so, però so che in effetti prendere in mano il fucile a pompa, caricarlo e poi fare finalmente CHA-CHACK fra un colpo a pallettoni e l'altro è uno spettacolo. CHA-CHACK!

In tutto questo, segnalo che oltre a una banda di nerd pari miei, nel mucchio, ci sono anche inviati di riviste più strane. Tipo un ragazzone palestrato che viene dall'Australia e scrive per una qualche pubblicazione di armi, donne, lifestyle, sarcazzo. E pure un paio di modelle che posano tutte contente assieme ai motociclisti del luogo e che scoprono di essere amiche d'infanzia, o compagne di classe, o ex conviventi, o che comunque si conoscevano e non si vedevano da tanti anni e preferisco quella alta e mora alla nana bionda, ma insomma, fa lo stesso. Ah, sì, ci sono anche i motociclisti, come quelli che stanno nel gioco che sono venuto fino qui a provare. Quelli degli anni sessanta, che infatti, essendo degli anni sessanta, ora sono vecchi e panzoni. Simpatici, però! CHA-CHACK!

E dopo aver sparato con la pistola, il fucile (CHA-CHACK!) e l'assault rifle e il fucile (CHA-CHACK!) e la pistola e ancora il fucile (CHA-CHACK!) e poi l'altra pistola col mirino laser e poi il fucile (CHA-CHACK!) e poi PORCA PUTTANA MI STA VENENDO IL MAL DI TESTA CON TUTTO 'STO CAZZO DI RUMORE che si fa? Si torna al resort, si fa una bella scacazzata e poi via verso il saloon. Sì, il saloon, dove i motociclisti vecchi, simpatici e panzoni si moltiplicano, dove tre di loro si esibiscono pure sul palco suonando musica rock (bravi, fra l'altro!), dove si mangiano taco e spiedini piccanti da emorroidi istantanee e dove, ovviamente, si beve gratis (CHA-CHACK!).

E una volta tanto, fanculo, mi lascio andare e bevo gratis tanto, ma tanto tanto, eh, e mi ubriaco come non mi capitava, boh, da Gallipoli, a occhio. Non sbocco, perché anche se ho un po' perso la propensione all'alcolismo che avevo sviluppato nel corso della mia depressa ma vivace adolescenza, ho quantomeno mantenuto la capacità di fermarmi (quasi sempre) quando serve. Però, uah, me ne vado alle cozze, proprio, a provare due o tre volte qualsiasi cosa ci sia sulla lista dei veleni e a far casino con la piacevole combriccola di disastrati messi assieme (un tedesco che fa il corrispondente estero da San Francisco, una giornalista pettoruta di Penthouse, un tizio del Massachussets, uno che mi pare si chiamasse Aziz e altra gente che passava a caso urlando cose senza senso).

Dopo un ritorno in stanza "complesso", durante il quale per fortuna non avevamo a disposizione fucili (CHA-CHACK!), vado a letto sereno, perché sul programma c'è scritto che si fa colazione alle 9:00 e si parte alle 10:30. Ops, dev'essere cambiato qualcosa, altrimenti non si spiegherebbe il tizio che sta prendendo a pugni la mia porta dicendo che sono le 7:00 e l'autobus deve partire (e purtroppo manco posso alzarmi e fargli CHA-CHACK!). Ops, sto uscendo dalla stanza alle 7:10 e l'aereo decolla alle 17:25. Ops, in autobus a ogni curva mi sento come se stessi per vomitare l'ultima settimana di pasti (e tra l'altro qualcuno l'ha fatto sul sedile davanti al mio). Ops, arrivo in aeroporto alle 9:30, non ho un cazzo da fare, provo a prendere un autobus per farmi un giro e scendo subito perché ancora un po' vomito. Ops, il convertitore per la corrente che mi serve per attaccare il laptop costa trentacinque cazzo di dollari. Ops, la connessione wi-fi gratuita c'era solo nella parte dell'aeroporto prima dei controlli. Ops, all'HMV di Heatrow hanno finito i cofanetti della quarta stagione di Battlestar Galactica. Ops, il Malpensa Express mi chiude le porte davanti e parte, lasciandomi lì sulla banchina come un coglione (CHA-CHACK!). Ops, ventotto ore dopo essere uscito dalla stanza sono arrivato a casa, e il mio stomaco ancora non riesce a capire cosa sia successo negli ultimi quattro giorni. Beh, perlomeno, come mio solito, sul volo di ritorno ho dormito dal momento del decollo a quello dell'atterraggio. Son soddisfazioni.

P.S.
Cito comunque il saggio giornalista del Massachussets, quando dice: "My worst day working in the videogame industry is better than my better day of any other job I've done". O qualcosa del genere. E io son pure d'accordo, eh, e alla fine mi piace andare a farmi un giro nel deserto, anche se in 'sta maniera spossante. Certo, il giornalista del Massachussets non si fa cinquantacinque ore di viaggio per vedere un gioco che sviluppano qua dietro (in Austria, per capirci). Però ho fatto CHA-CHACK!

15.12.08

Battlestar Galactica - Stagione 3

Battlestar Galactica - Season 3 (USA, 2006/2007)
creato da Ronald D. Moore
con Edward James Olmos, Mary McDonnell, Katee Sackhoff, Jamie Bamber, James Callis, Tricia Helfer, Grace Park, Michael Hogan, Aaron Douglas, Tahmoh Penikett, Lucy Lawless


L'approccio alla terza stagione di Battlestar Galactica è stato per me accompagnato da qualche timore di troppo. Il ricordo di quella oscena manciata di episodi che precedeva il gran finale della precedente annata era ancora ben vivo nella mia testolina e mal si conciliava con certe critiche lette in giro sulle troppe puntate riempitive e sull'eccessiva insistenza sugli aspetti da soap. Col senno di poi, i timori si sono rivelati esagerati, ma forse mi hanno fatto bene, perché al solito le aspettative non elevatissime mi hanno fatto godere assai di quel che poi ho visto.

A conti fatti questa terza stagione abbraccia sicuramente l'idea di approfondire meglio i personaggi e le relazioni che li legano, mettendo a tratti anche da parte lo sviluppo della storyline principale. Ma d'altra parte la cosa è decisamente realizzata meglio rispetto al timido e maldestro tentativo della seconda annata. Lì, molto semplicemente, a un certo punto ci si è ritrovati a mettere in pausa la fuga dai Cylon per dare spazio a (orrendi) episodi autoconclusivi, che oltretutto in un paio di casi si permettevano anche di risolvere completamente a cazzo storie e personaggi di lungo corso. Qui, invece, si è lavorato molto meglio sulla struttura narrativa e, sebbene in certi frangenti si abbia comunque l'impressione di qualche stiracchiamento per allungare il brodo, l'insieme è molto più compatto, omogeneo.

Le storie dell'equipaggio, gli approfondimenti sui singoli personaggi, gli intrecci amorosi, le sottotrame politiche non sono più siparietti aperti e chiusi fra un colpo di scena e l'altro, ma vanno a costituire parte integrante del racconto, che li porta avanti in parallelo all'epica lotta per la sopravvivenza (di quel che resta) dell'umanità. E ne viene fuori una serie che magari non riesce a scrollarsi di dosso qualche ingenuità e qualche caratterizzazione un po' schizofrenica, ma si riprende alla grande da certi scricchiolii di troppo.

E i Cylon? I loro dubbi, i loro piani, le loro motivazioni, la loro controversa guerra all'umanità? Difficile parlarne senza svelare troppo, cosa che non ho esattamente voglia di fare. Di sicuro, comunque, se si chiude un occhio su qualche passaggio poco convincente e ci si lascia coinvolgere dagli eventi, il crescendo narrativo è spettacolare. Splendido l'avvio di stagione, che risolve in maniera soddisfacente il cliffhanger su cui ci si era fermati e rilancia la serie nel suo rinnovato viaggio. Appassionante il caos di misteri ed emozioni, costruito in maniera molto abile ma tutto sommato non portato all'eccesso, con la saggia scelta di svelare altri misteri in una chiusura d'anno che ancora una volta spiazza gettando chili di carne al fuoco.

C'era il rischio di forzare la mano, prolungando a dismisura i dubbi e le relative soluzioni, come tanto spesso si è visto e si vede ancora fare in altri serial. E a tratti l'impressione di essere un po' presi per il culo, diciamolo, c'è anche. Ma nel complesso, forse anche grazie alla chiusura forzata imposta dai produttori sul termine della quarta stagione, non ci si può proprio lamentare.

12.12.08

Cambia la tua vita con un click

Click (USA, 2007)
di Frank Coraci
con Adam Sandler, Kate Beckinsale, Christopher Walken, David Hasselhoff, Henry Winkler


Io, lo ammetto, ho un debole per Adam Sandler. Per la sua figura da fesso pacioccone e bambinone, per il suo modo biascicato e adorabile di parlare, per la sua comicità fisica, sboccata, sopra le righe e senza alcuna vergogna, per il fatto che – quando si mette in mano a registi capaci di tenerlo a bada – riesce anche a dimostrare di essere un interprete intelligente, efficace, intenso. Certo, tutto questo non mi impedisce di notare che la maggior parte dei suoi film fanno pena.

Ma d'altra parte è un far pena quasi programmatico. Sandler è uno che si fa i cazzi suoi, si produce (e talvolta scrive) buona parte dei suoi filmetti, realizza opere risibili ma coerenti, probabilmente divertendosi come un matto. In questo, in fondo, non è molto diverso da un Quentin Tarantino, no? A parte il fatto che Tarantino è uno che comunque anche la cazzata più infame te la confeziona con una regia da Dio del cinema, mentre la maggior parte dei film che coinvolgono Sandler, si diceva, fanno pena. A questo punto potrei dilungarmi sul fatto che perlomeno lui non cerca di far passare le sue stronzate per opere d'autore, ma insomma, si entra in un campo minato, e teoricamente qui dovrei scrivere di Click.

Ecco, (Cambia la tua vita con un) Click, è la classica commedia americana per famiglie, che prende una singola idea, la fa spiegare da un grande attore a caso che ha bisogno di pagarsi le ferie, ci costruisce attorno mezzo film e poi si butta sulla svolta moralista e sentimentale, ricordando a tutti che dobbiamo apprezzare quello che abbiamo davanti agli occhi (o qualcosa del genere). Come al solito, la maggior parte delle trovate divertenti sono riassunte nel trailer - anche se qualche altra gag simpatica si vede - e la moralina finale è abbastanza stucchevole.

La svolta melodrammatica, però, pur nella sua pacchianaggine, è talmente forte, insistita, esagerata, da farmi quasi dire che per brevi tratti funziona e riesce a solleticare un filo d'immedesimazione. D’altra parte siamo in ogni caso ben lontani da robe impresentabili come Little Nicky e, pur non avendo niente a che spartire con le migliori commedie di Sandler (che solitamente coinvolgono Drew Barrymore), alla fin fine questo Click si lascia guardare. Ma probabilmente la cosa è dovuta alla presenza di Kate Beckinsale.

11.12.08

Sunshine

Sunshine (2007, UK/USA)
di Danny Boyle
con Cillian Murphy, Chris Evans, Michelle Yeoh, Cliff Curtis, Hiroyuki Sanada


Se tre indizi fanno una prova, possiamo serenamente dire che Danny Boyle dovrebbe smetterla di lavorare con Alex Garland. Dopo The Beach e 28 giorni dopo, Sunshine è il terzo film in cui il regista britannico riesce nell'impresa di proporre un approccio interessante, intelligente e fuori dagli schemi al film di genere, per poi sputtanare più o meno tutto. Nelle fasi risolutive quando va bene, nell'intera seconda metà quando va male.

Sunshine racconta di un equipaggio di astronauti in missione per la salvezza della razza umana. Il sole si sta spegnendo e c'è bisogno di ravvivarlo facendo brillare al suo interno la bomba atomica definitiva. Non essendo disponibile Bruce Willis, per portare a termine l'impresa già fallita da una precedente spedizione si sceglie di mandare nello spazio Cillian Murphy (e una serie di altri scienziati e piloti).

Per buona parte del film il taglio del racconto è assolutamente realistico, con grande attenzione alle psicologie dei personaggi e alla situazione estrema che vivono. Ritmi lenti e compassati, atmosfere lugubri, opprimenti, voglia di far vivere allo spettatore l'angoscia di stare affrontando non solo una missione da cui si potrebbe non tornare e dalla quale già qualcuno non è tornato, ma anche le sensazioni tremende di un viaggio monotono, interminabile, asfissiante, della lontananza dagli affetti, della responsabilità di avere l'intera razza umana sulle proprie spalle.

Fra i protagonisti non ci sono grandi eroi spacconi e donnicciole coinvolte in storie d'amore strappalacrime. I momenti di crisi non generano scene d'azione e si limitano invece a spingere sul pedale dell'intenso dramma. Addirittura fra gli attori non appaiono né Steve Buscemi né Peter Stormare! Sunshine è, insomma, un gran bel film, che ha poco a che vedere col genere “catastrofico” e si rivela davvero fuori dagli schemi non per il semplice gusto di esserlo, ma con un senso e delle valide ragioni. Solido nella scrittura, intenso nelle emozioni che genera, seducente nelle suggestive immagini che Boyle mostra. Purtroppo, però, a un certo punto la magia finisce.

Salta fuori il cattivo, aumentano i morti, ci sono un paio di inseguimenti al buio e in sostanza si rovina quasi del tutto la bella atmosfera del film. Nonostante tutto – penso per esempio alla bella scena in cui Mace incontra il suo destino – Sunshine riesce comunque a mantenere una sua dignità fino in fondo. Ma lo fa purtroppo lottando contro la solita perdita di controllo del Boyle, che sembra quasi voler chiudere con la sua rilettura (inevitabilmente stronza) di 2001 odissea nello spazio.

10.12.08

Nip/Tuck - Stagione 3

Nip/Tuck - Season 3 (USA, 2005)
creato da Ryan Murphy
con Julian McMahon, Dylan Walsh, Joely Richardson, Bruno Campos, John Hensley, Roma Maffia, Kelly Clarkson


La terza stagione di Nip/Tuck è una creatura strana, enigmatica, schizofrenica, che fa di tutto per non farsi amare, ma contro la sua stessa volontà riesce comunque a offrire alcuni fra i momenti migliori della serie. L'avvio è strepitoso, come del resto era lecito attendersi. Si riallaccia al bastardissimo finale dell'annata precedente e ne racconta le conseguenze, mostrando un fantastico Christian Troy, sempre in crescita, sempre impegnato a maturare come personaggio e a non fossilizzarsi sullo stereotipo in agguato dietro l'angolo.

In uno dei picchi più alti nel suo maltrattare gli uomini che racconta, Ryan Murphy mostra qui l'ombra del Christian che avevamo imparato ad amare, un uomo violato nel fisico e nella mente, che fatica a rialzarsi sulle sue gambe. In questa situazione rientra in gioco Quentin Costa, personaggio azzeccato e divertente, che ha forse l'unico vero limite di scivolare con troppa facilità nella macchietta e sovrapporsi per certi versi all'Escobar Gallardo della prima stagione.

Dopo il bell'avvio, però, nel blocco centrale di episodi emergono i limiti di questa terza annata, che mostra un certo imbarazzo nel trattare argomenti poco interessanti e storie deboli, introdotte forse con leggerezza e non a caso quasi tutte poi chiuse in maniera impacciata e frettolosa. La nuova storia di Matt, il coinvolgimento di Sean nel programma di protezione testimoni, la ricerca di stabilità di Christian, l'affermazione d'indipendenza delle varie figure femminili... davvero troppi sono i discorsi che non riescono a convincere fino in fondo. Alcuni, molto semplicemente, sono mal concepiti. Altri, pur divertenti e azzeccati nella sostanza, non trovano sbocco e finiscono poi per svanire nel nulla, pur con qualche strascico nella quarta stagione.

Eppure riesce difficile bocciare quest'annata. Un po' perché, nonostante quella manciata di episodi centrali davvero malriusciti, ci sono comunque delle puntate strepitose, a cominciare dalla clamorosa Sal Perri. Un po' perché il triangolo Sean-Christian-Quentin è molto ben orchestrato, soprattutto nel mostrare l'evoluzione psicologica del personaggio interpretato da Julian MacMahon, adorabile nel suo tentativo di vestire gli scomodi panni di Sean per resistere all'ondata travolgente di Quentin. Un po' perché torna il Carver, una maschera davvero strepitosa, anche se le rivelazioni finali abbattono il fascino suo e del personaggio che ne veste i panni.

A sipario calato, l'impressione non è necessariamente negativa, ma certo rimane in bocca un retrogusto amarognolo, in parte dovuto alle enormi aspettative. Del resto, non era facile arrivare dopo una stagione strepitosa come la precedente e forse certi buchi nell'acqua sono dovuti anche al tentativo di non esagerare nel vivere di luce riflessa.

9.12.08

Nip/Tuck - Stagione 2

Nip/Tuck - Season 2 (USA, 2004)
creato da Ryan Murphy
con Julian McMahon, Dylan Walsh, Joely Richardson, John Hensley, Famke Janssen, Roma Maffia, Kelly Clarkson


Scrivere della seconda stagione di Nip/Tuck dopo aver guardato le due successive è strano, perché all'entusiasmo della visione si aggiunge la consapevolezza di stare parlando probabilmente del miglior anno della creatura di Ryan Murphy. O perlomeno di quello che più mi ha convinto in ogni suo aspetto. C'è tutto il meglio della serie: il dramma, intenso e spiazzante, l'assurdo umorismo, la voglia di stupire e sconvolgere, delle fantastiche prove di attori meravigliosi, una Vanessa Redgrave fuori scala come suo solito e un cattivo incredibilmente efficace, che si muove dietro le quinte ed esce sbavando da sotto il letto.

È l'anno di Ava Moore, splendido personaggio che regala finalmente un senso al giovane Matt e chiude la stagione con un paio di "colpi" spettacolari (compresa una guest star da leccarsi i baffi). Ma è anche l'anno in cui esordisce il Carver, meravigliosa maschera horror che ogni tanto appare, rovina l'atmosfera da soap dell'assurdo e svanisce poi nel nulla. Ed è poi l'anno nel quale l'aspetto più drammatico delle vicende viene sviscerato forse meglio, con intensità, autoironia, sviluppi credibili nelle relazioni fra i personaggi, voglia di stupire senza per questo scivolare per forza nella follia a effetto.

Una stagione dagli equilibri sottili e perfetti, in cui ogni episodio s'incastra a meraviglia con gli altri. Tutto, o quasi, ruota attorno ai figli. Al loro imminente arrivo, al desiderarne, al non saperli affrontare. Figli strappati ai propri genitori, padri disperatamente aggrappati ai propri pargoli, donne alle prese con la loro incapacità di essere madri. E tutto viene raccontato tramite gli sguardi, le labbra, i corpi di personaggi fantastici, ricchi, che crescono di episodio in episodio e affrontano cambiamenti fondamentali nelle loro vite.

Un arco narrativo perfetto, punteggiato dalla solita formula del caso della settimana, sempre affascinante, sempre interessante, sempre intrecciato nel tessuto narrativo per rispecchiare distorti i drammi affrontati dai vari personaggi. Insomma, nella seconda stagione di Nip/Tuck funziona tutto a meraviglia. Funzionano i singoli episodi (Mrs. Grubman, Rose & Raven Rosenberg, Julia McNamara fra i migliori), funzionano le varie storyline, funziona l'arco narrativo, funziona il tremendo finale, che ti lascia proprio lì come un fesso. Qui davvero la serie di Ryan Murphy era "A disturbingly perfect drama."

28.11.08

Coma profondo

Va bene, anzi, non va bene, due settimane di nulla si meritano il canonico post da stronzi, scritto per rassicurare non si sa bene chi, probabilmente me stesso. Non è che non abbia cose di cui scrivere, è che proprio non ce la faccio. Un po' il lavoro su Next mi succhia forze, voglia e creatività. Un po' il tempo libero lo sto dedicando ad altro, dove incidentalmente "altro" è spesso roba che sto giocando per Next. Un po', semplicemente, ho poca voglia di stare davanti al PC pure a casa, dopo averlo fatto tutto il giorno per Next. Insomma, se qualcuno ci tiene davvero tanto a leggermi, può farlo su Next, che tanto i link ai miei articoli stanno sempre lì, nel triplo menu a tendina sulla destra. E dopo questo bieco accenno di pubblicità inutile che tanto non mi si caca nessuno, segnalo che la prossima settimana me ne vado in California. Figata!

Insomma, parto martedì mattina da Malpensa alle 8:00, atterro a Los Angeles verso le 13:00, riparto da Los Angeles giovedì pomeriggio, atterro a Milano venerdì pomeriggio. Sempre meglio che (avere appena perso per colpa della crisi) un lavoro in fabbrica, ci mancherebbe. Però son sbattimenti, eh! Comunque, vado a vedere i motoclisti, spero non mi menino. Magari quando torno scrivo qualcosa di più interessante. Magari no. Nel frattempo, in una nota di nerdaggine totalmente priva di attinenza, segnalo che a me il trailer del nuovo Star Trek piace, anche se sembra un film di Michael Bay. Tanto ormai tutti i film americani, nei trailer, sembrano film di Michael Bay. A volte però vengono fuori meglio dei film di Michael Bay. Per dire, Mission: Impossible III, che era pure quello diretto da Peppino Abrams, era meglio dei film di Michael Bay. Il bello è che nel tempo impiegato a scrivere 'ste minchiate avrei già potuto scriverlo, qualcosa di più interessante. Sono proprio un coglione.

In foto, uno scorcio del Joshua Tree National Park, ritratto poco più di due anni fa, quando si era giovani e ci si divertiva. I motociclisti vado a incontrarli lì. Magari becco di nuovo il road runner, vai a sapere.

14.11.08

Phoenix Wright: Ace Attorney - La trilogia

Phoenix Wright Ace Attorney
Phoenix Wright: Ace Attorney - Justice for All
Phoenix Wright: Ace Attorney - Trials and Tribulations

Capcom, 2005/2007
sviluppati da Capcom - Minae Matsukawa, Atsushi Inaba, Shinji Mikami


I giapponesi sono adorabili per il modo in cui se ne sbattono delle convenzioni e praticamente s'inventano un genere per classificare ogni nuovo videogioco che esca anche solo un attimo dal seminato. E così, mentre noi occidentali ci affanniamo a classificare i tre Phoenix Wright come avventure grafiche, o quantomeno evoluzioni delle stesse, loro li chiamano "Courtroom Battle Game". Ovvio, no? In fondo è questo che si fa in Phoenix Wright. Si investiga in giro raccogliendo prove, si interrogano testimoni e si battaglia a colpi di obiezioni.

E infatti il bello di questa serie, come di parecchi altri titoli per DS, sta proprio nel suo fare genere per i fatti propri. Sicuramente è vero che le sezioni "investigative" ricordano parecchio le avventure grafiche punta e clicca, con il giocatore impegnato a parlare con chiunque gli capiti davanti e ad esplorare da cima a fondo le ambientazioni per trovare prove scottanti. E certo hanno molto di "avventuroso" anche gli sviluppi processuali, fondamentalmente incentrati sull'utilizzo delle risposte giuste al momento giusto.

Ma è il mix a creare qualcosa di folle e completamente fuori dagli schemi. Un mix fatto anche delle assurde regole di gioco e di linguaggio su cui si basa il demenziale mondo di Phoenix Wright. Un universo narrativo in costante e crescente delirio, che col passare dei casi, e degli episodi, mostra personaggi sempre più assurdi e sopra le righe. Nell'avvicinarsi alla serie Capcom non ci si può certo aspettare una simulazione rigorosa di un vero processo, quanto piuttosto una versione simpatica, stupidina, divertente del mondo giudiziario. Una versione comunque governata dalle sue brave regole ferree e punitive, che richiedono solo di saper entrare nella logica perversa che le domina.

Se se ne accetta l'impostazione demenziale e si sopravvive all'incontenibile verbosità, si trova un racconto ricco e pieno di personaggi ben caratterizzati, capace di dipanarsi in maniera coerente nell'arco di una trilogia ottimamente progettata. Il crescendo da un episodio all'altro è ben orchestrato sia negli sviluppi narrativi, sia nel ritoccare con belle aggiunte la struttura di gioco (per esempio i lucchetti psichici che appaiono a partire dal secondo capitolo). E al termine di una vera e propria epopea, quando si affronta l'ultimo caso e, nel momento chiave, i riarrangiamenti del terzo episodio lasciano posto al tema musicale ascoltato sulla primissima arringa di Phoenix, beh, è davvero difficile non gasarsi.

Phoenix Wright, insomma, è un'altra "pseudo" avventura grafica per DS, che prende parecchi elementi classici del genere e li applica a una struttura di gioco particolare e fuori dagli schemi. Dal genere prende anche qualche difetto, per esempio la linearità davvero eccessiva: in più di un'occasione capita di avere l'intuizione giusta, di sapere cosa deve essere dimostrato al giudice, ma di non riuscire a farlo perché l'approccio scelto non è quello previsto dal gioco, o perché gli sviluppatori hanno deciso che la mossa dev'essere fatta in un altro momento.

Nel complesso, però, l'esperienza è davvero divertente e di qualità, senza contare che, per essere un gioco nato su GBA, le potenzialità del Nintendo DS sono ben sfruttate. Si può fare di più, come sicuramente è stato fatto nel successivo Apollo Justice e come del resto dimostra l'interessante caso aggiuntivo sviluppato appositamente per NDS e inserito in coda al primo episodio della trilogia, ma già così non ci si può lamentare: mettersi a gridare "Objection!" mentre si è seduti sulla tazza del cesso non ha prezzo.

10.11.08

La settimana a fumetti di giopep - 08/11/2008

Dopo tanti mesi di silenzio, riesumo la rubrica dedicata alle mie letture a fumetti per tentare il risveglio del blog dal torpore recente. Vediamo se funziona.

Manga
Cross Game #1 *****
Fra le cose belle dell'andare a una fiera come quella di Lucca c'è ovviamente lo scoprire volumi, serie, albi, sarcazzi che normalmente, per un motivo o per l'altro, mi sfuggono, ma che in un contesto diverso trovano maggior esposizione. Ultimamente sono tanto aggiornato sul mercato del fumetto che neanche sapevo dell'esistenza di questa Flashbook Editore. Ora lo so, e so che già li stimo, perché hanno ristampato 2001 Nights, perché hanno ripreso la pubblicazione di Katsu! e perché hanno pure lanciato questo Cross Game, che fra l'altro noto essere già al quarto volume. Cross Game, da quanto vedo, probabilmente si svilupperà nel tempo come il classico manga "adachiano" a base di sport e relazioni amorose fra sbarbatelli. Cosa che già di suo sarebbe ottima, visto che in fondo Touch e H2 son fra le opere migliori di Adachi. Ma in più Cross Game ha pure un primo volumetto splendido, tutto sommato diverso dal solito e che parte già in quarta con la capacità di emozionare. Si comincia con l'infanzia e per quasi duecento pagine si parla di bambinetti e delle loro emozioni, con la solita delicatezza e la solita adorabile capacità di raccontare. Non mi va di svelare molto dell'intreccio, dico solo che se piace l'autore, piace il genere, e non si è nel gruppo dei rompicoglioni stile "sì, ma fa sempre la stessa roba", beh, Cross Game promette molto bene.

Black Jack #1 ***
Volevo leggerlo da un secolo, ero spaventato dalle dimensioni dell'opera, finalmente mi ci sono messo. Come primo volume devo dire che non mi ha colpito tanto quanto altri manga di Tezuka. Risente ovviamente del peso degli anni, ma non so, mi dà l'impressione di scrollarselo di dosso meno facilmente rispetto a un Kirihito, un Dororo, un Adolf, un Buddha, fumetti che hanno comunque una potenza espressiva e narrativa davvero capace di lasciare il segno ancora oggi. Ecco, in Black Jack, perlomeno in questo primo volume, non ci vedo altrettanto. Sicuramente racconta di un personaggio che (quasi) quarant'anni fa era abbastanza fuori dal comune e, se piace lo stile folle di Tezuka, rappresenta comunque una lettura piacevole. Però, lo ammetto, sono un po' deluso. Ne ho comunque altri tre volumi pronti da leggere, magari cambio idea.

Altro
I tre paradossi ****
Paul è un fumettista che sta trascorrendo qualche giorno a casa dei genitori, in attesa di tornare a Chicago e incontrare finalmente Juliane, sua corrispondente di lunga data. Emozionato dalla situazione, Paul si lascia trascinare e trascina i lettori all'interno della sua mente, fra sogni, ricordi, ipotesi e fantasticherie. I vari piani narrativi sono tutti illustrati con stili diversi e danno vita a un viaggio affascinante e divertente (meraviglioso l'intermezzo "Zenone e i suoi amici") e soprattutto realistico nel modo in cui tratteggia i pensieri, i dubbi, le incertezze del protagonista. I tre paradossi è una lettura ricca, che si basa su un'idea bella e molto ben realizzata. Paga forse un eccesso d'ambizione e una certa difficoltà nell'andare oltre la sua natura sperimentale per provare ad essere anche racconto intenso e appassionante. Insomma, l'ho trovato un po' freddo.

The Walking Dead #9: "Made To Suffer" *****
Madonna che volume col botto! Made To Suffer è l'emblema di quanto The Walking Dead sappia essere uno splendido, moderno, vibrante appassionante fumetto seriale. Di come riesca a farti vivere le emozioni dei suoi protagonisti, a farti soffrire con loro, a trascinarti in un modo disperato in cui nulla può essere dato per scontato. Robert Kirkman è davvero un grande, uno che sul serio non si fa problemi a prendere a calci in faccia i suoi lettori, che ti tiene costantemente sul filo perché non sai mai cosa cazzo possa succedere. Quello di The Walking Dead è un mondo selvaggiamente fottuto, in cui le regole sono scappate via a gambe levate e nel quale non è che se non ti adatti muori: muori, punto e basta. Gizmo, lo so che mi leggi, quindi leggilo.

6.11.08

Nigga

Dopo una giornata in cui sei stato perseguitato dal mal di gola, hai preso due aerei e ti sei stancato a dovere, ma l'influenza che temevi di stare covando non è spuntata fuori, vai a letto sperando di essertela cavata. E invece poi ti svegli alle cinque del mattino con gli occhi iniettati di sangue, la gola in fiamme, il catarro che straborda e la chiara sensazione di averla presa in culo. Alla reception ti danno le pasticchette magiche di paracetamolo, quindi torni in stanza, butti giù e ti rimetti a letto con in testa il fazzoletto fradicio e davanti agli occhi la televisione accesa. E guarda caso becchi proprio il momento magico.

Già la serata, nel post cena, era stata a forte incidenza USA. Il pub selezionato per svernare era tutto a tema sportivo bostoniano, aveva le TV sintonizzate su Sky News e ospitava una mandria di americani che ad ogni poll sui vari stati tifava stile stadio. Ovvio che buona parte delle discussioni siano state sul pezzo, e ci tengo a sottolineare come fossi l'unico italiano presente a dire: "No no, non ci spero, io ci credo".

Ma quando alle cinque ti accasci in preda ai brividi e vedi davanti ai tuoi occhi un angolino dello schermo con scritto "TANTO a poco", mentre McCain sale sul palco a piangere lacrime amare, beh, è bello per davvero. E così mi son guardato i due discorsi, mi son pure mezzo commosso e mi sono rimesso a dormire, per poi trascorrere un mercoledì non esattamente piacevole, provando a filtrare fra il delirio indotto dalla febbre e le informazioni che arrivavano dai ragazzotti di SimBin.

Quella qua sopra è praticamente l'unica foto scattata, anche perché tempo di gironzolare non ce n'è stato molto. Segnalo comunque l'ottima carne (e l'ottimo salmone) mangiata martedì sera, senza dimenticare le ottime bionde viste in giro. Però, insomma, diciamo che Göteborg non mi rimarrà esattamente nel cuore.

4.11.08

Up & Away

Oggi andiamo a Göteborg, per scoprire se in quel posto sperduto c'è qualcosa, oltre a una squadra di calcio sovente presente nell'Europa che conta. Si viaggia in compagnia di Pape (courtesy of Sprea) e altri due loschi figuri dalla dubbia provenienza. Si torna domani, nel pomeriggio. Nel frattempo, se a qualcuno interessa, qua ho messo una manciata di foto da Lucca.

30.10.08

Uh!

Centoventisei anni dopo aver giocato la loro prima partita. Quindici anni dopo la precedente partecipazione alle World Series. Ventotto anni dopo l'unico titolo vinto. Venticinque anni dopo l'ultimo titolo vinto in qualsiasi sport dalla città di Philadelphia. Uorld cempions. Cazzo, ho visto Philadelphia vincere una finale. Non mi capitava da... da mai. Fico.

29.10.08

Si ricomincia


Oggi mi tocca, quel tipo di spedizione che negli anni Future/Sprea sono sempre riuscito a schivare con grande cura, sbolognandole a volenterosi collaboratori esterni. Milano-Londra, andata e ritorno in giornata (ma che dico in giornata, in dieci ore), a provare Grand Theft Auto IV versione PC. E vabbùono, ci si adatta, seguendo sempre il mantra "meglio che in miniera". Fra l'altro è solo la prima di una serie, dato che nel breve sono già previsti un passaggio a Göteborg e un altro giretto a Londra (entrambe missioni da due giorni, per fortuna), oltre a qualcosa d'altro per inizio dicembre. Insomma, si ricomincia a pellegrinare in giro.

24.10.08

Gone Baby Gone

Gone Baby Gone (USA, 2007)
di Ben Affleck
con Casey Affleck, Michelle Monaghan, Ed Harris, Morgan Freeman


Cosa fai, se sei l'attore chiamato Ben Affleck, quindici anni fa hai vinto l'Oscar per una sceneggiatura, hai trascorso oltre un decennio a farti perculare per le tue doti d'attore, ma ti sei appena tolto lo sfizio di vincere la Coppa Volpi per una tua interpretazione? Semplice, ti scrivi e ti dirigi un film della madonna, facendolo interpretare da quel grandissimo (lui per davvero) attore che è tuo fratello. E mentre noi rinunciamo a capire la logica dietro a tutto questo, speriamo ardentemente che Ben ci resti, dietro alla macchina da presa, e tiri fuori altri film della madonna.

Perché Gone Baby Gone è proprio questo: un film della madonna. Un noir spento, smorto, che mostra il brutto umano di un'America provinciale sfatta e sfiatata. Un tuffo nel torbido e nel marcio, nella disperata impotenza di fronte alla crudeltà e alla tristezza umana. Un film difficile e crudele, forse anche per questo proiettato col contagocce in un'Italia sempre meno interessata (perlomeno negli occhi dei distributori) a un cinema fuori dalle righe.

Gone Baby Gone racconta dei detective scalcagnati Patrick e Angie, protagonisti in una serie di romanzi di Dennis Lehane (quello di Mystic River). Lei è la splendida Michelle Monhagan, lui è il bravissimo, biascicante, meraviglioso Casey Affleck. Investigatori privati volenterosi e sognatori, che cercano di dare una mano nel risolvere un caso di rapimento di bambini. Provano a portare del bene in un mondo fallato e irreparabile, che li prende in giro e si trastulla con loro, facendoli malamente finire gambe all'aria e faccia nella merda.

Affleck, il fratello (mica tanto) scemo, quello dietro alla macchina da presa, circonda i suoi due improbabili eroi di personaggi sfumati e intriganti, racconta di un mondo in cui non vorremmo mai vivere, ma che incidentalmente è proprio il nostro. Lo racconta con fare stanco e straniante, appiccicandosi al bieco realismo dei suoi protagonisti, scegliendo una via credibile e anti-drammatica. E proprio per la sua scarsa voglia di abbandonarsi al manierismo sferra devastanti pugni nello stomaco.

Affonda le unghie nella natura umana e ne tira fuori situazioni tremende, ingestibili, dalle quali non è possibile uscire a testa alta. Non c'è un modo giusto per cavarsela, c'è solo la difficoltà di avere a che fare con decisioni più grandi di noi e di pagarne le conseguenze. E alla fine si rimane lì, con quell'assurdo groppo in gola, con il cervello pieno di domande e lo stomaco a pezzi. Abbandonati sul divano, in uno squallido salottino, da soli con l'angoscia.

23.10.08

Ricomincio da capo

Groundhog Day (USA, 1993)
di Harold Ramis
con Bill Murray, Andy McDowell, Chris Elliott


Cosa ci vuole per prendere una semplice rielaborazione del Canto di Natale e farla diventare un film di culto, un piccolo gioiello adorato da generazioni di spettatori e ricordato quindici anni dopo come una roba divertentissima e geniale? Beh, avere un Bill Murray all'apice della forma certo aiuta, specie se lo si piglia e gli si permette di fare sostanzialmente quel che vuole, dandogli in mano le redini del film.

Parecchi anni prima di trasformarsi in quella specie di vecchio rincoglionito tanto adorabile e ammiccante a cui tutti vogliamo bene, Murray era un rincoglionito di mezz'età tanto adorabile e ammiccante, ma anche un po' stronzo, a cui tutti volevamo bene. In Ricomincio da capo viene infilato in una situazione assurda (rivivere continuamente lo stesso giorno, essendo però consapevole di quel che sta accadendo), che lui interpreta alla sua splendida maniera.

Phil è un personaggio fantastico, un pezzo di merda colossale, perso nella sua malinconica boria, convinto di essere superiore a chiunque gli stia attorno, incattivito e inacidito nei confronti della propria vita. Un uomo detestabile, che Bill Murray interpreta meravigliosamente, non limitandosi a una macchietta sbraitante, ma lavorando invece sulle piccole cose, sull'espressività, sul tono di voce, sul fare ammiccante e, ovviamente, su una sceneggiatura azzeccatissima.

Insomma, Ricomincio da capo è soprattutto una bella prova d'attore, che tiene in piedi un film fatto di tanti piccoli sketch e di tante splendide idee. Nel giro di cento minuti Murray e Ramis raccontano tutte le possibili reazioni che un uomo può avere in una situazione folle, dal panico iniziale al cinico approfittarsene, dal disperato tentativo di uscirne in tutti i modi al delirio d'onnipotenza, fino alla triste rassegnazione.

Un continuo turbine di idee, tenero, malinconico e divertentissimo, il cui tratto principale sta forse nella capacità di seguire le regole senza tradirsi. Ricomincio da capo racconta una parabola di crescita morale, regala un lieto fine in tema col genere e col racconto, ma non mostra un fastidioso voltafaccia. Phil cresce e cambia, ma rimane anche fondamentalmente se stesso, fino in fondo, fino all'ultimo. Un se stesso migliore, certo, una persona migliore. Ma non un'altra persona.

21.10.08

Wall-E

Wall-E (USA, 2008)
di Andrew Stanton


Wall-E è una splendida storiella d'amore, il racconto del colpo di fulmine fra un robottino e una robottina, della furia di un essere dolcissimo che vuole a tutti costi conquistare la sua bella e riportarsela a casa, per coccolarsela e spupazzarsela. Parte con una mezz'ora abbondante che è fra le più belle mezz'ore abbondanti che si siano mai viste al cinema, che si racconta evitando del tutto il dialogo e mostrandosi per immagini, colori, suoni, musica, espressioni. Wall-E, il film, sta zitto per oltre trenta minuti, eppure parla, sbraita, urla fortissimo negli occhi e nelle orecchie degli spettatori, prendendoli a ceffoni con un carico pazzesco di emozioni e tenerezza.

SPOILER (dai, ci ho preso gusto)

Poi prende una piega diversa, rimane un bellissimo film d'animazione, con momenti di genio fulminante, lampi di bella poesia e il giusto compimento per la storia d'amore fra i due protagonisti. Purtroppo, però, ci sbatte di mezzo anche gli esseri umani, il solito racconto morale disneyano che punta sull'ambientalismo, sui buoni sentimenti, sul messaggio positivo e sulle citazioni dotte. C'è anche un bel tentativo di criticare la piega squallida che sta prendendo la razza umana e il triste destino che ci stiamo costruendo, ma il tutto è immerso in una storiellina ordinaria e che lascia addosso una certa impressione di "dovuto".

Per un po' ci speri e quasi ci credi, che il pilota automatico non si ribelli e non si metta a fare il cattivo di turno, ma poi accade e non ci puoi fare nulla. E ti chiedi come sarebbe stato un film tutto giocato sui toni della prima parte. Ma ti adatti a quel che vedi, e trovi un raccontino più ordinario, ma comunque a modo suo riuscito nel veicolare un messaggio, oltre che simpatico e dolce fino in fondo. E poi c'è quel qualcosa, quel tocco magico, quella capacità di narrare in maniera semplice, diretta, poetica, adatta sul serio a tutte le età (e senza bisogno di usare scoregge, rutti e citazioni come punteggiatura). Un altro film Pixar, insomma, che non è poco. Ma quella prima mezz'ora...

20.10.08

The Mist

The Mist (USA, 2007)
di Frank Darabont
con Thomas Jane, Marcia Gay Harden


"Il termine spoiler (dall'inglese To spoil) è spesso usato in ambito cinematografico per segnalare che un testo riporta delle informazioni che potrebbero svelare i punti salienti della trama del film." In genere evito, ma qui spoilero, quindi avviso, per prevenire.

Spesso, quando un libro ha un finale aperto, la trasposizione cinematografica tende a dare una conclusione più netta, in genere con un bel lieto fine rassicurante. Ecco, The Mist non fa esattamente questo. Sì, sicuramente rinuncia al finale aperto, anche se lascia dei begli interrogativi su che caspita sia successo, ma lo fa per regalare uno dei finali più cupi, tristi, disperati e malignamente ironici che si siano mai visti. Roba che o la prendi sul ridere o veramente ti rimane in gola un groppo di quelli pesanti.

Tante volte tendo a salvare un film interessante nonostante il finale pessimo, qua mi vien voglia di fare il contrario, perché il finale è di quelli davvero potenti, e viene comunque dopo un film tutto sommato gradevole. Non è esattamente il terzo miracolo King/Darabont in cui magari qualcuno osava sperare, ma è un bel filmetto di mostri. Ha qualche scena di tensione riuscita e vanta uno stile pacato e classico, che evita - con mio grande piacere, perché sto diventando vecchio - gli estremismi ipercinetici e i montaggi sincopati di certo cinema di genere recente.

Darabont segue un po' tutte le regole classiche del genere, ci infila tutti i personaggi che devono esserci e non offre una sorpresa che sia una (seguendo fedelmente il racconto di King, almeno per quel poco che mi ricordo). Mette su pellicola in maniera abbastanza coraggiosa tanta roba ai margini del ridicolo e rischia, ma tira fuori pure qualche idea azzeccata, a cominciare dalla calma serafica, agghiacciante, micidiale di quella prima apparizione dei tentacoli, che molti altri avrebbero raccontato in maniera ben più esagitata.

C'è qualche lieve incongruenza, manca un po' la capacità (o la voglia?) di tenere alte la tensione e la paranoia dall'inizio alla fine, ma ne viene comunque fuori un bel revival dell'horror di serie b. Quello semplice e diretto, che ti fa incazzare per gli errori dei personaggi, ti fa odiare a morte il rompicoglioni di turno (ed esultare con l'applauso di tutto il cinema nel momento in cui si leva dalle palle), che ti spaventa con un paio di "buh" e, caso più unico che raro, ti tira un bel ceffone con 'sto finale assurdo. Non è Le ali della libertà, ma insomma, non è neanche Brivido.

Per capirci, giusto per chi non ha voglia di vedere il film ma si è incuriosito, il finale è questo: cinque sopravvissuti tentano la carta disperata della fuga in macchina, finiscono la benzina e si ritrovano con una pistola e quattro proiettili. Uno di loro, il protagonista, spara agli altri (compreso suo figlio, che gli aveva fatto promettere di non lasciarlo catturare dai mostri) e poi esce dalla macchina, intenzionato a farsi ammazzare. A quel punto la nebbia si dirada e arrivano i soccorsi. Il protagonista è salvo, ma non esattamente allegro.

10.10.08

Il cavaliere oscuro

The Dark Knight (USA, 2008)
di Christopher Nolan
con Christian Bale, Heath Ledger, Aaron Eckhart, Maggie Gyllenhaal, Eric Roberts, Michael Caine, Gary Oldman, Morgan Freeman


Cacchio, quasi me ne dimenticavo. Ad agosto sono andato a vedere Il cavaliere oscuro, fra l'altro direttamente in lingua originale, come mi ero ripromesso di fare. Ed è stato gran bello, perché finalmente mi son tolto lo sfizio di guardare forse l'unico filmazzo che ho realmente aspettato tanto negli ultimi anni. Ovviamente non è stato bello come si poteva sperare, perché quando monti delle aspettative di quel genere, quando passi poi una settimana o due a leggerne meraviglie praticamente ovunque, beh, solo guardare dritto negli occhi Dio, forse, potrebbe non deluderti.

Cosa mi è piaciuto de Il cavaliere oscuro? Mi è piaciuto Aaron Eckhart, che è un attore della madonna e anche qui fa spavento, nonostante la presenza di quell'altro. Mi è piaciuto quell'altro, che no, non ho trovato "facile", ingombrante, esagerato, o che so io. No, l'ho trovato perfetto, un Joker meraviglioso, cattivo, sadico, pazzo, in quello che fa, in quello che dice, ma anche in ogni fibra della sua interpretazione, nei piccoli gesti, nel muscoletto che vibra quando meno te l'aspetti.

Mi è piaciuto, da nerd quale sono, che si sia proseguito il discorso aperto con Batman Begins, continuando a rispettare la mitologia del personaggio in tanti dettagli più o meno grandi. E che si sia deciso di sottolineare anche il concetto di serialità con l'apparizione dello Spaventapasseri, che ovviamente non ha alcun peso nell'economia del film, se non appunto quello di ricordare che, oh, stiamo facendo la serie a fumetti (sì, ok, serve anche per ribadire che i cattivoni sono un po' generati dallo stesso Batman, ma non è che fosse proprio necessario pagare ancora Cillian Murphy, per farlo).

Mi è piaciuto vedere un filmone, che ci crede, che mira alto, e magari fa anche un brutto tonfo nei momenti in cui cade, però ci prova per davvero, a fare il bel filmone, invece che la cacatina adolescenziale. Toni seri, adulti, profondità dei personaggi, stile elegante e trascinante. La rapina che apre il film è uno spettacolo, ogni singolo momento con il Joker sullo schermo fa spavento, ma in generale è proprio notevole come Nolan riesca a tenere alta la tensione senza un attimo di tregua, dall'inizio fino quasi alla fine. "Quasi", chiaro, perché c'è il problema che a un certo punto il film finisce... e poi va avanti ancora per mezz'ora. Dopo quella meravigliosa scena dell'ospedale, la tensione crolla e ci mette un po' a riprendersi. E, diciamocelo, non ce la fa mica del tutto, perché con tutto quell'insopportabile tecnoblabla di Batman si fa fatica a credere di stare guardando lo stesso film, nonostante jokerino bello continui a mettercela tutta per farsi adorare.

E in ogni caso, nonostante i difetti, che ci sono, ma su cui non mi accanisco perché sarebbe anche passato troppo tempo, rimane un bel filmone, di sicuro fra le punte massime in quell'assurdo "genere" che sono i film di supereroi. Però sarebbe meglio se la gente ritrovasse il contatto con la realtà. La gente secondo cui Il cavaliere oscuro è il quarto film della storia, quelli che ci vedono una roba degna di Padrini e Scarface vari. Oh, ragazzi, non è che se fai un film "serio" in cui ci sono i mafiosi automaticamente hai fatto Il padrino. Altrimenti pure quella robetta di American Gangster sarebbe Il padrino. Capisco che si rimanga di sasso nell'andare a vedere Batman e ritrovarsi davanti un film serio, eh, però non funziona così.

Infine, tocca dirlo, non mi è piaciuto che in questo film ci fosse Batman, perché davvero non c'entrava nulla. Non so, in Batman Begins sembrava meno fuori posto, anzi, ci stava proprio bene, forse perché si passava mezzo film a spiegarne ragioni e intenti. Ma qui, caspita, ogni volta che saltava fuori il cretino con le orecchie da pipistrello e col mantello, beh, sembrava esattamente quello: un cretino con le orecchie da pipistrello e col mantello. Magari è un problema mio, e del resto non si capisce perché il pipistrellone mi sia parso fuori posto e il giullare no, ma così è. Massima espressione della cosa, fuori da ogni dubbio, il finalino con lui che corre nel buio, verso la luce, mentre Gordon sputa fuori sentenze imbarazzanti. Se dal terzo Batman di Nolan decidono di togliere Batman, mi sa che sarà una figata. Magari anche il quarto film della storia, vai a sapere.

9.10.08

Marvel: La grande alleanza

Marvel: Ultimate Alliance (Activision, 2006)
sviluppato da Raven Software


Io, lo dico, con i due X-Men Legends mi sono divertito un sacco. Grazie alla tanta azione spensierata e a qualche momento di tatticismo equamente diviso fra gli elementi da gdr e i boss da affrontare con un minimo di strategia. Grazie a una scrittura di personaggi e intreccio certo banale e mediocrina, ma che puntava tutto il suo fascino sul nozionismo da fan e sul solleticare i ricordi dei giocatori-lettori. Quindi, com'è possibile che Marvel Ultimate Alliance non mi sia piaciuto altrettanto?

Boh, magari, semplicemente, perché va bene uno, va bene due, ma poi basta, ci si stufa anche. Ché del gusto di vedere un gioco in cui gli scontri fra supereroi sembravano davvero convincenti ero satollo ormai da tempo e l'aspetto nerd della faccenda alla lunga stanca. Ma forse anche perché al resto dell'universo Marvel sono affezionato meno che agli X-Men. O magari perché, diciamocelo, tanto era azzeccato lo stile grafico di X-Men Legends 2, quanto fa ridere i polli praticamente tutto quello che si vede in Marvel Ultimate Alliance (a parte i filmati, che non sono male).

Il problema, poi, è che si tratta forse di un gioco studiato per poter funzionare su un po' tutte le piattaforme, con un minimo comun denominatore davvero troppo basso. E allora ti chiedi perché stai giocando una cosa con 'sta grafica indecente su Xbox 360, ma anche perché, diamine, ancora sei costretto a condividere l'inquadratura mentre affronti il gioco in cooperativa su Xbox Live. Che senso ha che non ci si possa separare dagli altri, in un gioco del genere? Quanto snellirebbe e semplificherebbe le cose? Forse troppo. E quindi sei costretto ad andare a sbattere contro il muro invisibile dello schermo, mentre passi il tempo schiacciando tasti a caso per far fuori i nemici e facendo salotto in chat con i tuoi compagni di sventura.

Oh, poi, a conti fatti l'ho pure finito, in cooperativa, trovandoci anche dei passaggi divertenti, qualche piccola idea azzeccata (tipo alcune trovate nel mondo di Arcade), gustandomi la gestione dei personaggi e quei rari momenti di difficoltà che richiedevano un approccio seriamente tattico. Ripenso al boss finale, quando ci si è dovuti fermare a ragionare sull'approccio con cui affrontarlo, e mi chiedo se giocando a un livello di difficoltà più alto l'esperienza non sarebbe stata più impegnativa e divertente. Certo, poi penso che questo non è Gears of War e dubito che potrei mai avere voglia di rigiocarlo, quindi il dubbio me lo terrò.

P.S.
Non se ne può più dei quick time event, basta, BASTA.

8.10.08

Usenet Amarcord #12

Riprendo in mano una rubrica morta e sepolta da oltre un anno per chiudere una trilogia rimasta mestamente, ingiustamente, ingiustificabilmente aperta. La trilogia del curriculum, che nel mondo al di fuori di questo blog si era chiusa a giugno 2007 e che oggi trova compimento anche qui, per il piacere di chi l'aveva seguita su queste pagine e non nella sua sede originale. Per chi non sappia di cosa sto parlando, qui trovate la prima parte e qui la seconda. Senza averle lette, ve lo dico, non si capisce un cazzo di quanto segue. Leggerle, ve lo dico, è molto divertente.

Ah, ovviamente tutto questo non viene pubblicato oggi per caso: auguri, vecchio.


Quedex, 14 giugno 2007

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teenage wasteland

Cane, io capisco che tu avevi una attività avviata.

un cospicuo numero di dipendenti, un datore di lavoro demente che adorava i tuoi servizi fotografici, una certa discrezionalità nel ricattaggio nei confronti delle giovani pulzelle

una inebriante sensazione di poter incutere sacro timore nei meschini scansafatiche che tu avresti certamente estirpato, guadagnandoti il giusto compenso.

perfino una macchina nuova

capisco che sia stato sgradevole il crollo con cui tutto è venuto giù, come neanche la torre di Sauron, tirandosi dietro dipendenti, fotoreportage, contratti pluriennali

il tutto per un rivolo di Glenlivet versato nel fiume fato

ma insomma, addirittura schiattare, mi pare una reazione eccessiva.

ora, se tu fossi morto un mercoledi mattina, di infarto, di overdose, di una delle tante cazzate disfunzionali che mettono fine alle peripezie della razza tutta, avrei accolto la notizia con distaccato disinteresse.

anzi, forse mi sarebbe dispiaciuto non essermi goduto i momenti della tua dipartita (contrattuale), che avrei certamente condito con un bel tot di prese per il culo

ma tu amico, sei morto la domenica pomeriggio, e ti ha trovato solo Grissom tre giorni dopo sfondando la porta, richiamato dal puzzo.

tu amico, sei morto durante la finale del Roland Garros.

è solo quando ho collegato il momento alla notizia, ho aggiunto il sale alle tequila, che sono scoppiato in un incontrollabile ROTFL, di fronte agli occhi un pò sdegnati dei colleghi.

ahahaha, amico, il Roland Garros.

ci ho pensato un pò prima di scrivere questo post. ci sono comprensibili motivi per cui non è granchè prendere per il culo lo schiattamento, anche quello di un solitario pezzo di merda come te.

poi però ho deciso di scriverlo. ho messo su Baba O'riley in loop e l'ho buttato giù perchè mi andava di farlo. mi andava di farlo prima di morire un qualsiasi mercoledi mattina.

comunque, se ti può essere di conforto, visti gli sviluppi vorrei poter cambiare qualcosa. tornare indietro quel tanto da poter modificare lievemente lo scorrere degli eventi.

la finale, insomma, la rigiocherei.

Il thread originale su google gruppi

X-Files - Stagione 8

The X-Files - Season 8 (USA, 2000/2001)
creato da Chris Carter
con Robert Patrick, Gillian Anderson, David Duchovny


Il bello dell'ottava stagione di X-Files è che non c'è. Il bello, dico. Non c'è. Ci sono elementi d'interesse, qua e là, ci sono anche un paio di belle idee, ma tutto viene frustrato da una realizzazione mediocre, dozzinale, da una scrittura impresentabile, da personaggi che si perdono nel vuoto cosmico di caratterizzazioni andate a puttane, dall'evidenza palese di una brodaglia stracotta e ormai insapore. Fa vomitare, l'ottava stagione di X-Files? No, non fa vomitare. E forse è questa la cosa peggiore: non puoi neanche darle la dignità trash di un prodotto completamente schifoso. No, è semplicemente insulsa.

Per quanto frutto delle paturnie esistenziali di Duchovny, levarsi dalle palle Fox Mulder poteva essere una bella idea. Perlomeno nell'ottica di cambiare un po' le carte in tavola e rilanciare una serie sotto certi versi ormai agonizzante. In fondo Doggett è un personaggio con del potenziale, invigorito dall'interpretazione passionale di Robert Patrick. E poi la svolta isterica di Scully, che cerca in tutti i modi di non far rimpiangere l'assenza del suo svanito compagno, è drammaturgicamente intrigante. Ma pure il tentativo di ritorno alle origini, col rilancio insistente del freak della settimana, ha il suo perché.

Peccato che tutto vada a puttane per colpa di sceneggiature da circo degli orrori. Peccato che la saga iniziale, dedicata al rapimento di Mulder e alla posticcia rinascita della cospirazione aliena, faccia acqua da tutte le parti. Peccato che Scully sia letteralmente insopportabile, sempre sull'orlo del pianto, sempre pronta a tirar fuori il pancione per uscire dalle peggiori situazioni, devastante nei suoi terrificanti e insostenibili monologhi. Peccato che Doggett sia mostruosamente sottosfruttato. Peccato, infine, che un personaggio forte, intrigante, cazzuto come Skinner sia ridotto a una debole macchietta, che non fa altro che parlare di alieni, strepitare e dare a Scully una spalla su cui piangere.

Insomma, l'ottava stagione di X-Files è a dir poco trascurabile, ha la sua buona dose di episodi brutti e una manciata di episodi guardabili, quasi divertenti, ma che ti lasciano addosso quel senso di mediocre incompiuto, quella fastidiosa sensazione che la serie abbia ampiamente varcato il labile confine che la separava dal ridicolo. E anche nella seconda parte di stagione, quando Mulder torna a dare un po' di pepe aizzando tafferugli con Doggett, la situazione non migliora poi molto.

Aumenta il tasso d'azione, si prova a far venire al pettine qualche nodo, si ammazza almeno un personaggio di primo piano, ma suona tutto vuoto e spento, scivolato nel mediocre e nell'adolescenziale. Proprio poca cosa, talmente poca che potrebbe essere in grado di sconfiggere la mia mania di completismo: io non lo so, se ho voglia di guardarmela, la nona stagione di X-Files.

3.10.08

N (Io e Napoleone)

N (Io e Napoleone) (Italia/Francia/Spagna, 2006)
di Paolo Virzì
con Elio Germano, Daniel Auteuil, Monica Bellucci, Sabrina Impacciatore, Valerio Mastandrea


Nel 1814 Napoleone viene schiantato sull'isola d'Elba, nelle vesti di Re. La cosa andrà avanti per dieci mesi, prima che il nano malefico riesca ad andarsene e torni a far casino in giro per l'Europa. In quel periodo, racconta Virzì adattando il romanzo di Ernesto Ferrero, Napoleone fa amicizia con un ragazzo locale, che impiega come segretario. Il giovane Martino - un come sempre ottimo Elio Germano - è cresciuto odiando il tiranno corso e vede questo lavoro come un occasione per avvicinarlo e assassinarlo, salvando il mondo dalla sua infamia. Ovviamente non ci riuscirà e finirà anzi per subire il fascino del personaggio.

N (Io e Napoleone) è un bel film, che dimostra ancora una volta come, quando ce n'è la voglia, l'Italia sia in grado di produrre cinema di qualità, curato dal punto di vista produttivo, con una regia di livello e degli interpreti degni. Virzì si conferma ottimo regista, entra fra l'altro nel ristretto gruppo di persone in grado di far recitare decentemente perfino la Bellucci e stupisce per la capacità di fare buon cinema senza dover scimmiottare l'estero, ma anzi restando ben ancorato alla sua toscanità.

Certo, come spesso avviene quando ci si lega alle radici italiche, qua e là si scivola nella macchietta (anche i protagonisti, pur ben tratteggiati, non vanno molto oltre la loro monodimensionalità) ma complessivamente siamo anni luce sopra a quasi tutto quello che mi viene in mente se metto assieme "cinema", "toscana" e "ultimi dieci anni". Io e Napoleone non fa gridare al miracolo, in un paio di punti oscilla pericolosamente sul baratro del ridicolo, ma ha qualche piccolo momento davvero riuscito e toccante (sorprendentemente perfino con Ceccherini) e ha il solo limite di non saper, o forse voler, sfruttar fino in fondo il potenziale drammatico delle sue scene madri (e ha anche un finale un po' stupido, o comunque raccontato in maniera da farlo sembrare proprio poca cosa).

2.10.08

Stranglehold

Stranglehold (Midway, 2007)
sviluppato da Midway Chicago/Tiger Hill Entertainment


Lo dico subito: il primo Max Payne l'ho giochicchiato un po' senza mai mettermici sul serio e il secondo l'ho solo visto giocare da Ualone e Paglianti in redazione. Questo, forse, considerando anche il mio gradire abbastanza una certa cinematografia orientale, mi ha messo nelle condizioni migliori per godermi Stranglehold. Perché sì, per carità, pure a me può dare l'impressione di essere una specie di figlio illegittimo di Max Payne, ma perlomeno la sensazione di déjà vu risulta meno forte che per altri.

Comunque, con Stranglehold, il punto è che si è voluto realizzare una specie di seguito (non del tutto) ufficiale di Hard Boiled, il film la cui trama è "demoliamo quell'ospedale". E cosa ne è venuto fuori? Ne è venuto fuori un gioco totalmente ignorante, tutto fatto di proiettili, sparatorie, salti, capriole e mosse speciali. Un coacervo d'azione e spettacolo, intervallato da tanti piccoli omaggi alla cinematografia cinese di John Woo e a quel modo delizioso di mettere su schermo spettacolari e dozzinali melodrammi d'azione.

In termini d'atmosfera funziona tutto molto bene. Oddio, l'impressione è che manchi qualcosa, che non si sia riuscito a cogliere in pieno il gusto per l'assurdo e l'esagerazione tipico di quei film, che ci siano di mezzo un po' troppi creativi occidentali, perché potesse venirne fuori un qualcosa dall'anima davvero "hongkonghese" (hongkonghiana? hongkongara?). Ma probabilmente sono tutte pippe mentali, figlie anche un po' dell'aura mitologica che i vari The Killer e A Better Tomorrow si portano dietro.

Quel che conta è che con Stranglehold ci si diverte a pacchi, sia dedicandosi al massacro incondizionato, sia provando a giocare con quel minimo di strategia e di attenzione in più richieste dalla ricerca degli achievement. Senza dimenticare il pizzico di varietà che gli sviluppatori si sono sforzati di introdurre con situazioni e ambienti di gioco molto diversi fra di loro e il livello di difficoltà che cresce in maniera solida e armoniosa. Ciliegina sulla torta, un sistema di combo e accumulo delle stesse molto ben pensato, che obbliga a non affrontare tutto il gioco unicamente come sparatoria senza senso e "costringe" a provare tutte le deliranti mosse rubacchiate in giro (e fra carrelli su cui sdraiarsi, lampadari a cui appendersi e minchiate varie su cui correre ce n'è davvero per tutti i gusti).

Tutto quanto poi è infilato un po' a forza nel solito Unreal Engine, che fa sicuramente il suo sporco dovere nel dare un bel tono massiccio e spettacolare al gioco, pur mostrando qualche impaccio nelle animazioni di personaggi abbastanza legnosi e imbolsiti. Ma ai difetti si sopravvive, e anzi, volendo si potrebbe pure poeticamente pensare che gli impacci tecnologici si allineano a quell'aria da produzione a basso budget, grezza, povera e adorabile, che caratterizzava la cinematografia d'ispirazione. Insomma, Stranglehold non è un capolavoro, proprio no, ma fa estremamente bene quel che si era proposto di fare. Mica tutti ci riescono.

1.10.08

Black Sheep

Black Sheep (Nuova Zelanda, 2006)
di Jonathan King
con Nathan Meister, Peter Feeney, Danielle Mason, Tammy Davis


Un film neozelandese vietato ai minori di 18 anni, che parla di pecore zombi, esperimenti genetici e svariati morti ammazzati non può che far venire in mente Peter Jackson. Io non vorrei essere banale e scriverlo, però banale lo sono e scriverlo, beh, ormai l'ho scritto, quindi lo ripeto anche: Peter Jackson. Ecco, Black Sheep, dico anche questo, non ha la forza dirompente, la comicità da mal di stomaco e la girandola di trovate che si trovavano nei primi, splatterosissimi, film di Peter Jackson.

No, qui si ride, ma si ride molto meno. Ci si schifa, ma ci si schifa molto meno. E di idee ce ne sono poche, fra l'altro quasi tutte abbastanza derivative. Però, allo stesso tempo, c'è la deliziosa freschezza di un film sincero e scemotto, naturalmente simpatico senza il bisogno di sforzarsi a mille per risultarlo. E si aggiungono degli effetti speciali della madonna - ché del resto ormai WETA è sinonimo di qualità - una comicità bassa, assurda e spensierata, un bel gusto per quelle immagini totalmente assurde nella loro finta seriosità.

Ma soprattutto ci sono loro, le pecore, che non si capisce come si riesca a farle sembrare tanto minacciose facendole allo stesso tempo rimanere così adorabili e, soprattutto, divertenti. E poi c'è, diamine, un ovino che strappa a morsi l'uccello dell'allevatore che l'ha trasformato in mostro coi suoi squallidi esperimenti. Verrebbe perfino da dire che c'è dietro un positivo e giusto messaggio ecologista, se la cosa non facesse ridere.

Certo, ci sono anche tanti difetti, una sceneggiatura mica sempre brillantissima e in generale c'è l'impressione che - mi ripeto - si sia ben lontani dai livelli di certi film a cui è davvero impossibile non paragonarlo. Ma insomma, stiamo parlando di un film con le pecore mannare: quel che promette, tutto sommato mantiene.

P.S.
"Beeeeeestardo"

30.9.08

Cambio!

Venerdì è stato il mio ultimo giorno di lavoro in Binari Sonori. Dopo poco più di un anno, cambio di nuovo e faccio una mezza inversione a u. Non torno in Sprea, eh, ma vado in Edizioni Master, a occuparmi di Nextgame. Insomma, torno a lavorare nel contesto della gente che per prima ha avuto il coraggio di pagar denaro sonante per i miei scritti. Fra l'altro, seppur in minima parte, si potrebbe pure dire che ho contribuito a farlo nascere, Nextgame. Se non è un'inversione questa, non so cosa lo sia.

Comunque, il fatto è che mi è stata fatta una proposta che non potevo rifiutare, che mi permette di lavorare in un ufficio per me logisticamente assai più comodo e soprattutto di tornare a fare un lavoro che, c'è poco da fare, mi piace di più. Perché fare il PM mi piace, eh, non dico di no, in fondo soddisfa la mia sindrome da capetto, ma in quest'anno e mezzo mi è decisamente mancato qualcosa. Qualcosa che ho smesso di fare non perché me ne fossi stancato, ma perché mi ero stancato d'altro che gli gravitava attorno. E quindi, di fronte a una chance intrigante, perché non riprovarci?

Boh, magari perché sarebbe stato più "sicuro" restarmene dove stavo, ma che ci vuoi fare, sono un incosciente, io. Comunque, tanto per, posso esprimere solo estrema positività sulla mia esperienza in Binari. Ho imparato tante cose, ho trovato un'azienda solida e corretta, ho conosciuto della bella gente. Probabilmente, se qualcuno non fosse andato in pressing pesante per farmi accettare la proposta di Master, oggi sarei in ufficio a smadonnare sui file excel, invece che a casa a godermi un pochetto di relax.

Ma ormai il passo è compiuto e domani si comincia con la nuova esperienza. Non taglierò del tutto i ponti con il mondo della localizzazione, perché penso proprio che sfrutterò il tempo libero per metter mano a qualche traduzione, ma da domani ricomincio a fare il giornalista (specializzato) a tempo pieno. Vediamo che succede.

25.9.08

Sam & Max Season One

Sam & Max Season One (Telltale Games, 2006/2007)
sviluppato da Telltale Games - Brendan Q. Ferguson, David Grossman


Questa prima stagione di Sam & Max è per me molto importante. E quando dico "per me", intendo dire che è importante proprio per me, non che secondo me è importante per il resto del mondo. Perché è la prima avventura grafica "recente" a cui mi sento di dare fiducia da tempo immemore. Perché recupera dei personaggi che avevo adorato nel vecchio gioco pubblicato da Lucasarts. Perché oh, insomma, il mio tempo è importante, e non mi va di dedicarlo a una roba in sei parti così, a caso.

Se l'è meritato, il mio tempo, Sam & Max Season One? Sì e no. Sì, perché l'umorismo che ci dev'essere c'è più o meno tutto. Ci sono la demenzialità e il nonsense, c'è un delizioso gusto per l'assurdo e una vaga voglia di far satira e divertirsi con, di e per lo spettatore (ops, il giocatore). C'è una scrittura "densa" e azzeccata, piena di tanti piccoli dettagli piacevolissimi da assaporare anche solo cliccando in giro completamente a caso, proprio come si finiva per fare nelle belle avventure di una volta, quelle di quando c'era Lui.

E poi ci sono enigmi costruiti in maniera intelligente, in costante bilico fra delirio e logica, c'è una discreta varietà di situazioni e c'è un buono sfruttamento della serialità. I vari episodi sono lunghi al punto giusto, rendono per quel che costano, son brevi a sufficienza da esser giocati in una botta ("stasera mi sparo il terzo!"). E funzionano decentemente per i fatti loro anche sul piano narrativo, nonostante ci sia ovviamente un intreccio "globale", portato avanti nell'arco di tutta la stagione, che fa da filo conduttore e rende i sei episodi gustosi anche da giocare tutti insieme.

Il "no" sta innanzitutto nel fatto che, presa come pacchetto completo, questa prima stagione mi è risultata forse un po' troppo lunga. Sarà per la natura ripetitiva del seriale (eh, ma con le venti puntate di un buon telefilm non la patisci!), sarà perché in fondo ciascun episodio è comunque strutturato come un'esperienza (quasi) completa, sarà quel che sarà, ma alla fine ci sono arrivato un po' a fatica, trascinandomi, giusto perché non volevo mollare.

E certo in questo giocano anche la qualità e la strutturazione un po' disomogenea del tutto, che puzza abbastanza di (ovvi e inevitabili, ci mancherebbe) aggiustamenti in corsa. Tanto i primi due/tre episodi vanno via lisci che è una meraviglia, quanto i successivi sono un po' impestati dal dover andare avanti e indietro fra le ambientazioni diciottomila volte per compiere due azioni in croce. È stupido, inutile, barboso e puzza davvero troppo di voler allungare il brodo perché le prime puntate sembravano troppo corte (e invece eran lunghe il giusto, mannaggia!)

Per fortuna pregi e difetti tendono ad equilibrarsi abbastanza e, quando la parte giocata cala un po', ci pensa l'umorismo delirante a tenere in piedi la baracca. Max presidente degli Stati Uniti e tutto quel che ne segue è davvero una meraviglia, e pure la lunga serie di giochi, giochini e (meta)giochetti che prendono in giro frizzy, lazzy e pazzy del mondo dei videogiochi hanno il loro bel perché. Certo, un bel perché da nerd, ma comunque bello.

Consigliato? Consigliato. Ma con riserva.

24.9.08

La gang del bosco

Over the Hedge (USA, 2006)
di Tim Johnson e Karey Kirkpatrick
con le voci di Bruce Willis, Garry Shandling, Steve Carell, William Shatner, Nick Nolte, Thomas Haden Church, Eugene Levy, Wanda Sykes, Avril Lavigne


Inutile, non c'è niente da fare, i film d'animazione Dreamworks mi lasciano d'un freddo che non ci si crede. Shrek - lo dico - mi sta sui coglioni. Il primo l'ho sopportato, nonostante un finale agghiacciante. Il secondo, gatto a parte, mi ha annoiato a morte. Il terzo lo aspetto su Sky. E col resto (Madagascar, per dire), non è che vada molto meglio. Però, insomma, una chance televisiva non la si nega a nessuno, quindi perché privarsi di un film che, oltretutto, s'ispira a una striscia a fumetti molto carina?

Boh, magari perché si torna sempre lì, a guardare robetta cerchiobottista vorrei ma non posso, che vuole accontentare tutti e rimane mosciamente nel mezzo. Sicuramente fa divertire i bimbetti e bene o male qualche spunto stilistico interessante lo tira sempre fuori, assieme all'immancabile singola trovata geniale ("Playplayplayplay", stavo male). Ma mi lascia proprio addosso quel senso d'insoddisfazione. D'altra parte, suvvia, dura neanche un'ora e mezza, e non è che sia un'ora e mezza da conati di vomito. Anzi, c'è ben di peggio.

 
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