Her (USA, 2013)
di Spike Jonze
con Joaquin Phoenix, Amy Adams e la voce di Scarlett Johansson
Mentre guardavo i minuti iniziali di
Her, che chiamerò
Her perché mi piace di più, voglio fare il rompipalle coi titoli originali e mi fa strano scrivere
Lei, che poi sembra che stia parlando di qualcuno e comunque adesso ci metto un punto, ché mi sto incasinando. Dicevo, mentre guardavo i minuti iniziali di
Her, mi sono ritrovato a pensare che, in effetti, è abbastanza vero: se scavi nell'hard disk di una persona, oggi come oggi, ci trovi tanto che la descrive. Ed è ancora più vero, soprattutto oggi, se allarghiamo il concetto di hard disk e diciamo che si parla del pezzo d'hardware in cui la tal persona conserva le sue cose, poco importa se si tratta di uno smartphone o altro. E dai, infiliamoci pure il cloud, se proprio dobbiamo. Non è solo una questione di cosa ci si trova dentro, delle foto, delle e-mail o di chissà che, ma anche di come tutto questo è sparso in giro, di cosa invece non c'è e di tanti altri piccoli dettagli che poi, se li analizza un'intelligenza artificiale con la voce di Scarlett Johansson, finiscono per definirne il proprietario anche meglio di come saprebbe farlo
lo Sherlock Holmes di Benedetto.
Ma intanto il film andava avanti, senza preoccuparsi di quel che pensavo io, e a un certo punto mi sono ritrovato a pensare che, dai, l'Oscar alla sceneggiatura ci stava proprio tanto bene. Per la precisione m'è saltato alla mente durante l'amplesso, quando c'è quell'improvviso stacco sul nero che ti proietta nel mondo dell'immaginazione grazie alle perfette voci dei due attori. E non è che sia solo quello, perché poi ci sono i dialoghi frizzanti, quella scena iniziale così perfettamente costruita, l'incedere costante e impeccabile, il modo meraviglioso in cui Jonze riesce a prendere una commedia romantica assolutamente classica, aderente in tutto agli stereotipi del genere, e usarla però per raccontare qualcosa di moderno, particolare, nuovo, che riesce comunque a dire cose interessanti.
Her ragiona su cosa possa significare essere un'intelligenza artificiale e su come la sua esistenza modificherebbe il mondo e le persone attorno ad essa, racconta tante cose con cui molti si trovano in imbarazzo trattandole invece alla perfezione, trovando chiavi comiche inedite, sincere, spiazzanti e poi alla fin fine sfruttando il pretesto fantascientifico per parlare soprattutto d'altro, del suo protagonista, di amore, solitudine, rapporti umani e lotta contro i ricordi. Paradossalmente, nonostante di fondo proponga tutte le svolte narrative che ci devono essere, mentre lo guardavo,
Her riusciva a sorprendermi e farmi chiedere cos'altro si sarebbe inventato e lo faceva raccontando una semplice e prevedibile commedia sentimentale americana classica, che non mi risultava praticamente mai stucchevole e pesante, solo delicata, intelligente e adorabile.
Dopodiché, alla sua seconda apparizione, ho agitato il ditino sorridendo e indicando Chris Pratt, bisbigliando "Ma... ma... ma... " mentre mi rendevo conto che stavo ascoltando
la voce dell'omino Lego, e al mio fianco ho visto muoversi una testa a indicare un vigoroso "Sì."
Nei minuti successivi è arrivato quel momento che si manifesta ogni volta che guardo un film in cui c'è Amy Adams. È il momento in cui penso "Porca miseria quanto è brava Amy Adams". La cosa fantastica è che non arriva mai subito, perché all'inizio non ci faccio proprio caso: è troppo brava, troppo naturale, troppo calata nel ruolo, mi limito a goderne senza rendermene conto. Poi, però, succede qualcosa che mi fa accendere la lampadina e me ne ricordo. Mi ricordo anche che, ehi, lo sapevo già che è tanto brava, non è mica la prima volta che la vedo, ma non posso fare a meno di stupirmene. E porca miseria se anche qui è brava, mostruosamente naturale, perfetta, credibile, pazzesca Amy Adams. Oltre che portatrice sana di una bellezza tutta semplicina e disarmante, ancor più in un film che fa di tutto per renderla ordinaria e lo fa quando ancora ho nella capoccia la versione bomba sexy vista in
American Hustle.
Ed è stato più o meno lì, da qualche parte durante la fase centrale del film, mentre ero affascinato e sedotto, mentre ascoltavo la voce di Scarlett Johansson un po' roca e mi dicevo che se non la inquadrano è proprio brava pure lei, che mi sono ritrovato a pensare a Roger Ebert. O, meglio, a quanto mi sarebbe piaciuto leggere una recensione di questo film firmata da Roger Ebert. Ho proprio una voglia matta di leggerla, quella recensione, e invece non potrò mai farlo, a meno che non saltino davvero fuori le intelligenze artificiali capaci di ricreare lo spirito, il cuore e la passione di chi non c'è più. Cacchio, se mi manca, poterlo leggere. Oddio, ho già capito, adesso vado a saltellare fra un link e l'altro e a rileggermi cose di e su Rogerino Ebert. Torno subito.
Tic-toc-tic-toc-tic-toc...
A un certo punto, mentre guardavo il film, mi sono ritrovato a pensare a queste cose qua, a queste cose che avrei scritto nel post sul blog, un po' così alla rinfusa, invece di mettermi a chiacchierare del film in maniera normale, perché in fondo che ne vuoi dire? Pensavo anche a quel che sto scrivendo in questo paragrafo qua, e adesso mi si sta arrotolando il cervello. E uno potrebbe chiedersi perché non stessi invece pensando al film. Ma in verità ci stavo pensando, al film, contemporaneamente. E me lo stavo anche guardando e vivendo con passione, senza pensare ad altro. In pratica funzionavo come l'intelligenza artificiale, mille cose assieme a compartimenti stagni intercomunicanti, indipendenti ma anche collegati, con Joaquin Phoenix che si siede sulle scale e osserva tutti quelli che passano di fianco a lui, non più zombi con lo sguardo affossato dentro l'app di Facebook ma comunque ipnotizzati a chiacchierare con persone fatte di numeri e virgole, mentre lui si chiede quali fra di loro siano le persone che condividono l'amore che sta perdendo.
E poi, pian piano, sono arrivati i titoli di coda e io mi sono ritrovato a pensare che, ehi, pure Joaquin Phoenix è di una bravura e una naturalezza come al solito fuori scala, che qui mette in mostra tenendo in piedi tutti quegli scambi a due con il suo solo volto, dovendo affidare unicamente alla propria espressività tutte le emozioni trasmesse. Pazzesco. E mentre pensavo a questa cosa, mi sono ritrovato a sorridere per l'omaggio a James Gandolfini e a ridacchiare scoprendo che quelle due altre voci erano di Kristen Wiig e Brian Cox. Poi son tornato a casa chiacchierando con la mia
Her, giungendo alla conclusione che il film ci era piaciuto da matti. Abbiamo mangiato qualcosa, mi sono dovuto mettere a lavorare per finire un paio di robe che m'ero lasciato alle spalle in un pomeriggio convulso e ho deciso che, prima di andare a dormire, dovevo scrivere questo post. Poi lo rileggo e pubblico domani, non importa, ma avevo bisogno di scriverlo subito. Così, un po' a caso.
L'ho visto al cinema, qua a Parigi, in lingua originale. Solo ieri, perché è andata così. Leggo in giro che oltre un terzo delle copie distribuite in Italia era in lingua originale. Bravi. Fra l'altro si sono fatte quasi le due, magari dovrei anche andare a dormire, ché mi aspetta un'altra giornata pesante. Buonanotte.