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30.6.15

Macbeth


Macbeth (UK, 2015)
di Justin Kurzel
con Michael Fassbender, Marion Cotillard, Jack Reynor, David Thewlis

Se c'è un singolo filo conduttore che lega Snowtown, placida, angosciante, ruvida, quasi documentaristica cronaca di una famosa tragedia australiana, e Macbeth, è la passione di Justin Kurzel per la recitazione basata sulla voce bassa, i grugniti, l'espressione quasi animalesca della personalità, con improvvisi scatti d'ira e momenti di furia. C'è ovviamente anche altro, ma questo aspetto spicca forse anche perché Macbeth vi unisce l'inglese shakespeariano e l'accento scozzese, generando un borbottio che a tratti perfino parecchi spettatori madrelingua hanno ammesso di interpretare a fatica. D'altra parte, Kurzel è anche un fantastico direttore di attori, che qui tira fuori da Fassbender, Cotillard e tutti gli altri interpretazioni pazzesche, capaci di comunicare con gli occhi, il corpo, le movenze, tutta la furia delle devastanti emozioni che vivono nei loro personaggi.

L'interpretazione di Marion Cotillard, ovviamente, è impressionante anche per il fatto di stare recitando in una lingua non sua, ma il modo in cui trasmette quello strano miscuglio di lucido calcolo, disperazione e rabbia ha dell'incredibile. E non è comunque da meno Michael Fassbender, che sembra nato per questo ruolo e comunica in maniera meravigliosa l'altalena d'insicurezza, arroganza, crudeltà e ambizione che definiscono il personaggio. Attorno a loro si sviluppa un film che unisce la filologia dell'ambientazione medievale scozzese, una volta tanto rispettata anche nella scelta delle location, a un'interpretazione molto moderna sul piano visivo e in alcune rielaborazioni a livello di sceneggiatura, per esempio nel tentativo abbastanza riuscito di dare maggior sostanza al personaggio di Lady Macbeth.

Dove però Kurzel lascia veramente di sasso è nella pazzesca carica visiva che riesce a tirar fuori, magari intuibile nella sua opera prima, ma forse non attesa a questi livelli. Aiutato dal "solito" Adam Arkapaw alla fotografia, Kurzel apre e chiude il film con due battaglie pazzesche per potenza evocativa, forza delle immagini, capacità di far muovere il racconto fra una testa mozzata e l'altra, e popola l'intera pellicola con una brutalità estetica fuori misura. Il suo Macbeth è un adattamento tosto, intenso, che replica il sapore della lingua shakespeariana, riproduce gli ambienti con uno spettacolare lavoro sui costumi e sui luoghi e trasporta il tutto in una dimensione visiva da moderno blockbuster, se non nei ritmi, certamente compassati, di sicuro nella forza delle immagini. Imperdibile.

Io l'ho visto al cinema, qua a Parigi, durante la rassegna locale del Festival di Cannes. La distribuzione nelle sale italiane è prevista per novembre 2015. Intanto, Kurzel è al lavoro con Fassbender e Cotillard sul film di Assassin's Creed, che dovrebbe arrivare l'anno prossimo. La cosa, onestamente, mi spiazza e non so cosa attendermi. Un regista addomesticato per staccare l'assegno in serenità? Un film pazzesco e la miglior pellicola mai tratta da un videogioco? Un divorzio per differenze creative? Vai a sapere.

24.6.15

Mountains May Depart


Shan he gu ren (Cina, 2015)
di Zhangke Jia
con Tao Zhao, Yi Zhang, Jing Dong Liang

Due anni dopo aver portato a casa il premio per la miglior sceneggiatura con Il tocco del peccato, Zhangke Jia è tornato sul luogo del delitto, ancora una volta a Cannes, per l'ennesima volta a raccontare, con un taglio e un'ispirazione sempre diversi, i mutamenti subiti nei decenni dal suo paese e dal suo popolo. Questa volta la via scelta è quella del melodramma, del triangolo amoroso con due vertici distantissimi, il proletario romantico tutto d'un pezzo che lavora in miniera e il testa dura innamorato dell'occidente, che si cambia nome in Peter, chiama il figlio Dollar e si trasferisce appena può in Australia, alla ricerca di un sogno capitalista che troverà forse solo nella propria testa. Nel mezzo, una donna tesa fra i due estremi, la cui storia non rimane al centro dell'azione per tutto il film ma fa comunque da filo conduttore che unisce apertura e bellissima chiusura sulle note di Go West.

Mountains May Depart è un film bizzarro, forse a tratti perfino sconclusionato. Si apre con un taglio leggero, sciocchino, che sembra quasi uscito da certi anime anni Ottanta (probabilmente difficile, per gente della mia generazione, non pensare a Orange Road/È quasi magia Johnny), e si fa via via sempre più drammatico e intenso, mentre salta da un decennio all'altro provando a raccontare passato, presente e futuro della Cina Moderna. Dagli ingenui anni Ottanta, carichi di aspettative per un futuro travolgente, si passa all'incasinato oggi e quindi a un domani un po' scassato, nel quale il figlio dell'uomo che ha "vinto" il triangolo si riscopre cinese senza una patria, esportato in un paese che non è il suo, incapace di rapportarsi con la lingua, la nazione e la famiglia da cui ha avuto origine.

Non tutto il film funziona allo stesso modo e soprattutto la parte ambientata nel 2025, con quel futuro dalla mobilia lucida targata Google e la sua ricerca di simbolismi fin troppo semplici, non riesce a trasmettere fino in fondo la potenza di ciò che racconta. Ma nell'imperfetto film di Zhangke Jia c'è comunque la forza di un melodramma delicato, intenso e toccante, una storia molto personale, tutta costruita attorno alla grande prova della protagonista Tao Zhao e più riuscita nel (ma forse anche più interessata a) parlare delle sue vicende, invece che del paese in cui vive. E a raccontare tutto al meglio ci pensa anche una cornice visiva e sonora fantastica, basata sull'utilizzo di tre formati diversi per le tre epoche (un po' come in Grand Budapest Hotel), ma anche su una composizione dell'immagine che raggiunge vette strepitose in quei momenti che raccontano tutto con lo sguardo, i movimenti degli attori, le musiche, senza alcun bisogno di affidarsi alla parola.

L'ho visto qualche tempo fa alla rassegna parigina del Festival di Cannes 2015. Non sembra essere ancora prevista una distribuzione italiana e, fra l'altro, i film di Zhangke Jia, sarà un caso, paiono arrivare dalle nostre parti a corrente alternata. Vai a sapere.

4.6.15

The Lobster


The Lobster (Grecia/UK, 2015)
di Yorgos Lanthimos
con Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly, Ben Whishaw, Léa Seydoux

Ci sono sicuramente tanti motivi diversi per i quali la giuria del Festival di Cannes ha assegnato un premio a The Lobster, ma fra i principali mi sento tranquillamente di inserire la sua natura totalmente fuori di cozza e il modo in cui sceglie di raccontarla. Per questo, e anche per il fatto che il film inizierà il suo regolare percorso nei cinema mondiali a ottobre, voglio dire il meno possibile in questo primo paragrafo: io mi sono presentato in sala sapendo solo che era il nuovo film di Yorgos Lanthimos, che i protagonisti erano quelli elencati là sopra e che si trattava di un film di fantascienza. Avevo in mente la foto promozionale con Colin Farrell e Rachel Weisz che corrono in un campo e fine. E, beh, guardare questo film senza saperne nulla in anticipo è davvero qualcosa di spettacolare. Quindi, come faccio in questi casi, chiudo così il primo paragrafo: se quanto detto fino a qui vi intriga, smettete di leggere, aspettate il film, guardatevelo e poi ne riparliamo.

Una Rachel Weisz di spessore per invogliare ulteriormente. Nel film non la trovate così.

Andiamo avanti, cercando comunque di svelare sempre il minimo indispensabile, perché davvero è giusto così. Innanzitutto, bisogna dire che quell'immagine promozionale là, quella di loro due che corrono, forse un po' mente. Magari la interpreto male io, ma mi evoca nella memoria un racconto di fantasia romantico e movimentato, con un po' d'azione. Una roba stile I guardiani del destino, magari. E invece, in The Lobster, di azione non ce n'è praticamente mai, neanche in quella scena lì con loro due che corrono. O, meglio, tecnicamente un po' di azione c'è, ma viene messa in scena nella maniera meno action possibile. E, già che ci siamo, diciamo pure che l'elemento fantascientifico è piuttosto labile: alla fin fine il punto è che si tratta di una società distopica in cui c'è un'invenzione scientifica molto particolare, ma per il resto potrebbe essere ambientato l'altro ieri. In un altro ieri alternativo, certo, ma pur sempre l'altro ieri. E quindi che cos'è? È un film che fa quella cosa che alla buona fantascienza riesce sempre tanto bene: prendere qualche tratto della nostra società, estremizzarlo e sfruttarlo per parlare di noi stessi, facendo una satira feroce e intelligente, nel caso specifico sulla natura dei rapporti coniugali, della vita di coppia e delle imposizioni dall'alto che la riguardano. È un film lento, estremamente dialogato, ricco di belle immagini, molto ben interpretato e con parecchio da dire. Se queste cose non vi spaventano, attendetelo con ansia, perché merita, nonostante il finale sia forse un po' tirato via. E smettete di leggere.

Neanche questa c'è nel film.

Siete ancora qui? E allora diciamo due cose sulla trama, ma proprio il minimo indispensabile e poi basta, eh! Nel mondo di The Lobster, essere single è fuorilegge. Se ti beccano al centro commerciale senza certificato di matrimonio, sono guai. Se tua moglie o tuo marito ti lascia o muore, sono guai. Oltre ai guai che di base derivano dall'essere abbandonati o dal rimanere soli, s'intende. I guai si concretizzano in un albergo d'alto profilo nel quale vieni spedito, con un mese e mezzo di tempo a disposizione per trovare una nuova dolce metà fra gli altri ospiti single. Se ce la fai e la coppia funziona, potete sposarvi e tornare a vivere in città. Se non ce la fai, scatta l'innovazione scientifica di cui sopra e vieni trasformato in un animale a tua scelta. Bonus: c'è chi non ci sta e decide di vivere da solitario nel bosco, ma ogni tanto gli ospiti dell'albergo vengono mandati a caccia dei ribelli e per ognuno di loro che catturano ottengono un giorno di permanenza in più. Ovviamente succedono tante altre cose, ma la sostanza è questa, una situazione in cui i sentimenti diventano secondari, l'affinità è una questione di forzature e si è disposti a tutto pur di accoppiarsi, perché ce lo dice la società, ce lo dice la legge, ce lo dicono la saggezza popolare e il sentire comune. Perché si fa così. Ne viene fuori un film incredibile, che nella sua maniera totalmente fuori di testa piazza uno specchio estremamente lucido di fronte al modo un po' stonato in cui spesso interpretiamo il rapporto fra noi picchiatelli esseri umani. Colin Farrell è fantastico nel suo vacillare in bilico proprio al centro di questa situazione assurda, un concentrato di emozioni represse e pronte ad esplodere in un mondo popolato da gente ridotta ad automi che sopravvivono rinunciando a loro stessi. Ma un po' tutto il cast funziona a meraviglia e il film è una vera bomba, anche se sì, lo ripeto, il finale sembra fare fatica a trovare una conclusione. Oppure no, magari è fantastico anche perché si conclude così.

L'ho visto un paio di settimane fa durante la rassegna parigina dei film del Festival di Cannes. In lingua originale è tutto un tripudio di gente che parla con accento irlandese, più un paio di francesi, un americano, un inglese... sembra una barzelletta. Non so ancora quando uscirà in Italia ma, come dicevo, dovrebbe manifestarsi in giro per il mondo a partire da ottobre.

26.5.15

Youth - La giovinezza


Youth (Italia, 2015)
di Paolo Sorrentino
con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano

Una caratteristica un po' surreale di buona parte dei film in concorso a Cannes 2015 sta in quel che, forse, racconta del modo in cui oggi si produce il cinema, con registi dalla personalità fortemente incastonata nella propria nazionalità che si ritrovano a lavorare con cast e produzioni anglofone, alle prese con una lingua che non è la loro. Da un lato, forse, è un peccato, perché in fondo il bello di manifestazioni del genere sta anche nel dare spazio a cinematografie di ogni dove, nell'infilare in un megafono voci lontane dall'omogeneizzazione in lingua inglese, voci come quella di Jia Zhangke e del suo bellissimo Mountains May Depart. Dall'altro, a voler ben vedere, è forse anche un'opportunità, perché da quello che magari è un compromesso possono venir fuori creature bizzarre, che parlano una lingua non loro ma riescono comunque a conservare l'identità forte del regista e del mondo da cui arriva. È un bene? È un male? Vai a sapere. Non è una novità, intendiamoci, e del resto gli ultimi tre anni di cinema hollywoodiano hanno premiato con l'Oscar altrettanti autori giunti da altrove, ma in qualche modo il regista "internazionale" che va a lavorare a Hollywood me lo aspetto un po' di più. Immagino sia un problema mio.

Ad ogni modo, com'è andata, con questo secondo Sorrentino all'inglese? Dovunque ti giri c'è un'opinione al riguardo e vai a trovare due persone che siano d'accordo. Se lo chiedete a me, è andata molto bene, nonostante qualche perplessità. Youth, intanto, è un film dalla potenza visiva strabordante, dalla prima all'ultima inquadratura. È forse anche esagerato in questo, perché Sorrentino sembra quasi voler mandare a mille ogni fotogramma, senza dare un minimo di sosta, alzando al massimo il senso di satira surreale, anche a costo di sparare a vuoto e di perdere il controllo. E io un approccio del genere, in fondo, lo ammiro, a maggior ragione poi considerando quella che è la cinematografia italiana dell'ultimo paio di decenni. Il primo impatto è soprattutto questo qui, quello con un regista che compone immagini, sequenze, musiche in maniera fenomenale e ti sommerge con la sua bravura pazzesca. Youth è una lunga collezione di scene meravigliose, che ogni tanto cozzano un po' l'una con l'altra, ma vanno a comporre un insieme affascinante e, forse, superiore nella somma alle singole parti che unisce.

Ma non c'è solo il tripudio audiovisivo e non ci sono solo degli attori in formissima, fra il sempre eccellente Michael Caine, una Rachel Weisz fantastica nell'ingenua semplicità del rapporto che racconta col proprio padre, nella fenomenale intesa che i due mettono a schermo, e un Harvey Keitel che un ruolo da interpretare degnamente non lo vedeva da un pezzo. Youth racconta gli anni del tramonto e la difficoltà nell'affrontarli, il rapporto fra anzianità e gioventù, la difficoltà nel rapportarsi con il proprio passato e con il futuro. Ma va a toccare anche tanti altri temi, senza aver paura di porli sotto forma di domanda diretta, letterale, anche a costo di risultare caramelloso e un po' stucchevole. È un film che mira alto ma lo fa senza sentirsi in obbligo di risultare pesante nel linguaggio, anzi, affidandosi a una deliziosa e surreale leggerezza, alla capacità di schivare tante possibili scene madri archiviandole con un delicato sorriso, senza per questo evitare di andar giù pesante quando c'è bisogno dell'esagerazione evocativa. Il suo susseguirsi di meravigliose cartoline può suonare sconclusionato, sbarellato, magari un po' vuoto nell'affidarsi a personaggi piuttosto schematici, dagli archi narrativi semplicistici, figuranti tramite cui raccontare temi ben più interessanti di loro. Ma in fondo, in mezzo a tutte le sue assurdità, è forse proprio questo mettere in scena esseri umani grandiosi fuori, ma di poco conto dentro, a renderlo brutalmente vivo.

L'ho visto in lingua originale durante la rassegna parigina dei film del Festival di Cannes. Ho un po' il timore che per un film dai toni così surreali e pacchiani il doppiaggio rischi di fare dei gran danni, facendoli oltretutto a una manciata di ottime interpretazioni, e mi scatta quindi il paradosso di consigliare la visione in lingua originale (inglese) per un film italiano. E che ci vuoi fare.

 
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