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30.12.06

"Dai, lo Shinkansen per tornare lo prenotiamo a Kyoto, tanto che problema vuoi che ci sia?"


"Sorry, sold out." E vabbuono, dovremo assalire le carrozze per chi non ha la prenotazione carichi come muli, ma ce la faremo. Credo. Comunque, ieri ci siamo fatti una bella gita a Nara, una delle tante ex capitali del Giappone, oltre che importante meta turistica per la presenza di uno smodato Buddha, racchiuso in uno smodato tempio, contenuto in uno smodato parco. Nel parco circolano liberi un migliaio di cervi, tenuti in stato di semi-cattivita e letteralmente adorabili. Prima o poi mettero online anche qualche filmato sull'argomento. Per il resto, il posto e ovviamente uno spettacolo, e il tempo pure lo e stato, con un gran bel sole tutto il giorno. Peccato solo che la macchinetta fotografica che stiamo utilizzando da qualche giorno - causa improvvido sfasciamento dell'altra - mi crei seri problemi in termini di esposizione. Comunque, oggi ci dirigiamo a Takarazuka per visitare il museo di Osamu Tezuka (anzi, Tezuka Osamu) e poi, nel pomeriggio, si gira a Kyoto in zone ancora da decidere per bene. Vi lascio preda della solita sventagliata di foto, seguita da una primizia: un breve e conciso intervento di Elena. E ovviamente, lo avrete notato, continuo a non capire nulla di accenti e apostrofi...

Ciaooo! L'altro giorno siamo stati al tempio delle Super Dollfie, il Tenshi no Sato della Volks: purtroppo niente foto all'interno, ma la visita e stata uno spettacolo, anche se da tempo non aggiorno piu la mia collezione di Dollfie e quindi non sono neppure troppo preparata sulle novita. Comunque - nota per mamma - ho preso un paio di occhi di vetro neri e una parrucca nera dritta con frangetta (pare uno scopettone, ma e morbidissima): mi cimentero in una SD giappa tutta, inkimonata dalla testa ai piedi.

Ah, nota per Tifa :) Lo shopping procede delirante: esistono un sacco di cose ciccine a SOLO 300-400 yen. Solo che 300 yen di qua, 400 yen di la il plafond della carta e sulla via del patatrac. Miniature, gashapon, cosette da appendere su cellulari, borse... per non parlare di bambole. Allora, ho preso una Momoko Victorian Nature rossa (ottimo prezzo), una gattina Nikki ("Nikki Odeko-chan" su Google)... poi una tonnellata di libri di bambole. Alla fiera Dolls Party 16 ho preso un ABITINO PER LE PINKY - quando lo vedi diventi matta - e un'opera in miniatura, un set "tatami + pareti di legno e carta" per le bambole 1/6 e un gloriosissimo kimono unico fighissimo per Momoko pubblicato sul Dolly Dolly 12!! Poi una Rune doll sempre in kimono... poi cazzettini vari, per esempio i Walkie Bits, delle tartarughine chiccosissime che fanno "pi pi pi" e camminano, corrono, fanno le gare tra loro... ma non ho capito bene come funzionano, a casa cerchero un manuale comprensibile.

Del cibo se ne parla un'altra volta, che ci vuole la dovuta parentesona.
Stacco che c'e un corvo che gracchia sulla mia spalla.







29.12.06

La regina delle nevi


Speravamo che a Kyoto ci fosse la neve, beh, direi che ci siamo. Ha nevicato praticamente tutto il giorno, a ritmi alternati, con momenti di schiarita e altri di tormenta con regina demoniaca inclusa. Son sicuro di averla vista almeno un paio di volte nascosta fra le nuvole e intenta a tirare sassate di ghiaccio.

Comunque, Kyoto e davvero bella, totalmente diversa da Tokyo, ma bellissima lo stesso. E innevata ha proprio un atmosfera incredibile. Oggi, per cominciare, abbiamo perlustrato la spettacolare zona di Arashiyama. Again, mi scuso per gli accenti e gli apostrofi a mignotte e vi saluto con una sventagliata a caso di foto dal centinaio abbondante scattato in giornata.





Alive in Kyoto!


Infilare nelle borse tutto quanto ha richiesto un filo di fatica, ma alla fine ci siamo riusciti. Ora siamo a Kyoto, belli inzuppati nel Ryokan.


Ieri, durante il viaggio sullo Shinkansen, abbiamo anche visto da minore distanza il Monte Fuji.


Scrivo con una tastiera giapponese e mi si imputtanano tutti i simboli, quindi cerco di non usarne. Stamattina ha dato una spolverata di neve, fa un freddo boia ed e tutto bellissimo. E non so come mettere gli accenti.

28.12.06

Bye bye Tokyo


La permanenza a Tokyo sta per concludersi. In sette giorni abbiamo camminato come dei deficienti, ci siamo stancati a morte, abbiamo visto una marea di roba splendida perdendocene altrettanta, ci siamo divertiti come pazzi, abbiamo conosciuto tanta gente adorabile, abbiamo mangiato praticamente solo cose deliziose, abbiamo speso una vagonata di soldi facendo shopping, abbiamo fatto quasi seicento foto. Fra un paio d'ore zomperemo sullo Shinkansen, per spostarci a Kyoto. Kazuhisa dovrebbe unirsi, dato che per la fine dell'anno va a trovare la sua famiglia a Hiroshima. A Kyoto staremo in un Ryokan e non avremo la connessione in camera. Forse ci sarà un PC utilizzabile nella lobby, ma insomma, difficilmente avrò modo di pubblicare i piccoli aggiornamenti fatti questi giorni. Comunque vada, male che vada, ci si legge fra una settimanina. Buon anno a tutti!

27.12.06

Fujisan

Ieri sera abbiamo fatto tardi

Giornata piovosissima, ma comunque ottima. Tutta la mattina allo Studio Ghibli Museum (fra l'altro qua dicono "Zuribi" o qualcosa del genere), un posto delizioso e affascinante, dall'atmosfera struggente. Poi, nel pomeriggio, volevamo andare a vedere il Monte Fuji, ma c'era davvero troppa pioggia, e allora siamo andati in giro con Kazuhisa, abbiamo fatto un po' di shopping e in serata siamo andati alla prevista festa con lui e i suoi amici. Spalancate il post per ammirare qualche foto della giornata...







Ah, non c'entra nulla, ma gli Eagles hanno sturato Terrell Owens e i Cowboys per la seconda volta in stagione e, con la quarta vittoria in fila, han conquistato i play-off e si sono piazzati in testa alla division. Son bei momenti.

25.12.06

Oggi ho comprato delle cose molto belle


Per esempio...

24.12.06

Commozione culinaria


Oggi ho mangiato una cosa commovente. Ma non "commovente" per modo di dire: ogni volta che ne mettevo in bocca un pezzo rischiavo di mettermi a piangere. E non "mettermi a piangere" per modo di dire: avevo proprio gli occhi gonfi di lacrime. Una roba impressionante. Cosa? Tonkatsu, amici miei, nel ristorante "specializzato" Maisen (questo il sito web). Spettacolare. Fra l'altro, all'uscita ci han pure dato il regalino di Natale, quattro deliziosi panini contenenti, per l'appunto, tonkatsu (in foto potete ammirarne una sezione). Sigh...

Comunque, oltre a voler condividere questo momento così importante della mia vita, ci tenevo anche a fare un piccolo annuncio. Ho deciso di raccontare approfonditamente questa vacanza giorno per giorno, come mio solito. Magari non proprio dettagliatamente, come mio solito, ma insomma, ci siamo capiti. Solo che, ovviamente, non ho intenzione di passare le serate attaccato al PC, quindi non so dire quando potrei cominciare a pubblicare raccontini. Comunque prendo appunti, tranquilli. E adesso vi saluto, che me ne vado a mangiare.

22.12.06

Shimbashi


Siamo arrivati e siamo vivi. Stiamo cercando di sopravvivere all'allucinante jet-lag, e non è affatto facile. Ci siamo installati per bene in albergo (in foto potete ammirare il pannello di controllo per la tazza del cesso, il risciacquo del buco del culo è un'esperienza formativa), e adesso ce ne andiamo a farci un giro. Più tardi, primo incontro con Kazuhisa, che per domani pomeriggio mi ha organizzato il partitone di calcetto coi suoi amici. Seguiranno, forse, aggiornamenti.

21.12.06

Big in Japan


Ok, ci siamo. L'ultima volta che sono andato in vacanza in questo periodo dell'anno, mi ci aveva portato mia madre. Si parla probabilmente di oltre un decennio fa. Insomma, non è che sia proprio abituato, ad andarmene in giro d'inverno, e infatti sono secoli che non metto piede su una pista da sci (e questa, fra l'altro, è un'altra cosa pessima che bisognerà correggere, prima o poi). Ma sto divagando, il punto è che fra qualche ora sarò in aereo assieme alla Rumi. Destinazione Tokyo. Sei giorni abbondanti lì e altrettanti (sempe abbondanti) a Kyoto, con qualche probabile e inevitabile gita fuori porta. Il ritorno a Milano è previsto per il quattro di gennaio.

Durante queste due settimane avrò molto probabilmente più di un'occasione per accedere a Internet, ma come al solito non so dire se, quanto e quando avrò anche voglia di aggiornare il blog. Probabilmente, comunque, la risposta è "poco", dato che l'idea sarebbe di prendermi una pausa dalla vita frenetica di tutti i giorni. Magari potrei metter su qualche foto, le sere in cui non sarò troppo sfatto. Male che vada, comunque e come al solito, ci si rilegge al mio ritorno, quando sicuramente di cose da raccontare ne avrò parecchie.

Ciao, bello


Ti ho voluto bene e te ne voglio ancora. Hai tirato la carretta per un decennio, senza avere praticamente mai una squadra attorno. E quando l'hai avuta, te la sai caricata sulle spalle e l'hai portata quasi fino in fondo, in maniera davvero commovente. Ti danno per morto da anni, e son tre anni che fai la tua miglior annata di sempre. Certo, le puttanate, i casini e le lamentele, i litigi e le mazzate. Ma non importa, perché già mi manchi. So cosa significa vederti giocare dal vivo e mi viene il magone a pensare cosa significherà vederti giocare con un'altra maglia. Spero ti vada bene, penso ti andrà meglio, ma non so fino a che punto. In ogni caso, grazie.

19.12.06

Ju-On - Rancore


Ju-On (Giappone, 2003)
di Takashi Shimizu
con Megumi Okina, Misaki Ito, Misa Uehara, Yuya Ozeki, Takako Fuji

In un sobborgo di Tokyo c'è una casa resa maledetta dal tremendo rancore che ha causato un fattaccio parecchi anni prima. Gli spiriti che infestano la casa tormentano chiunque abbia la sventura di mettervi piede, facendolo fuori senza neanche troppo perder tempo e rendendo le proprie vittime parte integrante della maledizione. Il rancore (Ju-On, per l'appunto) si propaga - più come un virus che come una maledizione - falcidiando in breve tempo la popolazione del quartiere.

Da queste poche righe si può capire come lo spunto di partenza di Ju-On sia, nel panorama dell'horror giapponese ormai neanche troppo recente, abbastanza "fedele alla linea". C'è una presenza malvagia che non guarda in faccia a nessuno e fa fuori chiunque le capiti fra le mani, senza farsi troppi problemi. C'è una vicenda triste e dai toni melodrammatici a fare da punto di partenza. Ci sono tutti quegli stereotipi visivi tanto originali che, inutile negarlo, funzionano tanto bene anche perché tremendamente esotici per l'occhio occidentale.

Shimizu, però, partendo da basi che potrebbero dare vita a un banale clone di Ringu, sputa in faccia alle regole e si dirige in tutt'altra direzione, facendo letteralmente di tutto per dimostrare che è possibile terrorizzare lo spettatore anche senza seguire gli stereotipi più classici del genere. E così evita di offrire un protagonista forte in cui immedesimarsi, scombina la scansione temporale degli eventi limitando il trasporto emotivo, costruisce un film a episodi che si "autospoilerano" annunciando la vittima nel titolo, rifugge da uno sviluppo melodrammatico, che pure sembra sempre essere lì dietro l'angolo.

Fa insomma tutto ciò che, teoricamente, un regista di film horror non dovrebbe fare, ma riesce comunque a far venire letteralmente la cacarella, almeno per la prima mezzoretta di film, con una serie di sequenze da manuale, costruite a regola d'arte, con uno strepitoso senso del ritmo e un magistrale utilizzo di immagini forti e suoni agghiaccianti. Un bell'esercizio di stile, insomma, che però sulla distanza perde un po' di mordente a causa della sua ripetitiva prevedibilità. Una volta capite le regole del gioco, le "motivazioni" con cui si sviluppa la maledizione, quando il panico dovrebbe raggiungere l'apice con quella lunga sequenza finale, ci si rende invece tristemente conto che il fantasma di Kayako ha in realtà smesso di far paura tre o quattro apparizioni prima.

E allora non si può fare a meno di chiedersi se dando maggior spazio a qualche personaggio - per esempio il poliziotto e la sua manza figlia - non ne sarebbe potuto venir fuori un film terrorizzante dall'inizio alla fine. A tal proposito, leggo che il secondo episodio ha una struttura più tradizionale e meno riuscita. Son comunque curioso di vederlo, così come di vedere i due televisivi e i due remake, ma sarà duretta convincere la Rumi, che appena vede un fantasma collassa al suolo per il terrore, figuriamoci con un film che per lunghi tratti sa mostrarne in maniera tanto incisiva.

18.12.06

Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy



Anchorman - The Legend of Ron Burgundy (USA, 2004)
di Adam McKay
con Will Ferrell, Christina Applegate, Paul Rudd, Steve Carell, David Koechner

Ron Burgundy è anchorman leader della squadra di reporter di Channel Four, a San Diego. Vincitore di cinque Emmy Award, eroe popolare, amato dalle donne, pomposo, spocchioso e stupido all'inverosimile, cade vittima del fascino di Veronica Corningstone, sua nuova collega particolarmente apprezzata e pronta a tutto pur di soffiargli il posto. Pare il canovaccio per un film di Garry Marshall (o della sorella Penny, o magari di Nora Ephron), e invece è il primo delirio cinematografico a firma Adam McKay/Will Ferrell.

Anchorman, così come il successivo Talladega Nights, si diverte alle spese di un microcosmo tipicamente americano, che può probabilmente trovare riscontro anche da noi, ma i cui folli stereotipi sono tremendamente radicati nella cultura e nel modo di vivere a stelle e strisce. E questo limita un po' l'impatto del suo approccio satirico perché, per quanto ci si possa divertire di fronte a quell'atmosfera stupidina e leggera, a quei personaggi tremendamente convinti e spocchiosi ma tutto sommato adorabili, rimane sempre la sensazione di non conoscere fino in fondo l'argomento di cui parla il film.

Film che comunque funziona solo fino a un certo punto anche per colpa dei limiti di una struttura che si basa sostanzialmente solo su una lunga serie di sketch messi l'uno in fila all'altro. È difficile e forse anche pretestuoso mettersi a distinguerli, ma l'impressione è che, rispetto a un Talladega Nights decisamente più riuscito, Anchorman sia il classico "film del comico televisivo", impacciato nel raccontarsi e impegnato più che altro a mettere in scena i suoi numeri famosi, i tormentoni, le apparizioni speciali degli amici. Manca insomma, la capacità di andare un po' oltre il cabaret e mettere in piedi un film vero e proprio.

O magari il problema è che due pellicole dominate da Will Ferrell viste a stretto giro di tempo sono troppe, nonostante alcune trovate divertentissime (il gobbo, la cena al club) e uno Steve Carell spettacolare.

12.12.06

Justice League Strikes Back


Formerly Known as the Justice League (USA, 2004)
I Can't Believe It's not the Justice League (USA, 2005)
di Keith Giffen, Jean Marc DeMatteis e Kevin Maguire
Edito da DC Comics

Nel 1987 DC Comics lancia un evento, il primo di tanti, finalizzato a mettere ordine nel caos di universi alternativi, paralleli, sovrapposti e scomposti che si era generato di decennio in decennio. Dopo gli eventi di Crisis on Infinite Earths, buona parte del cosmo DC viene sostanzialmente fatta ripartire da zero, col rilancio di personaggi, gruppi e serie assortite. In questo contesto nasce la Justice League International, una rivisitazione grottesca e demenziale del più importante supergruppo DC, che mette assieme, al di là di qualche significativa eccezione, solo personaggi minori, rielaborati in chiave buffonesca.

Keith Giffen, Jean Marc DeMatteis e Kevin Maguire sono le geniali menti dietro al progetto, che riesce a mescolare in maniera notevole i suoi tratti principali di delirante e dissacrante comicità con una notevole evoluzione dei personaggi e con, di tanto in tanto, perfino una discreta attenzione per i risvolti drammatici (seppur sempre smorzati da un fortissimo taglio autoironico). Basterebbe solo la splendida, cinica, tremenda partecipazione di un Batman sempre e costantemente impegnato a spararsi le pose e ad ergersi al di sopra di quella banda di dementi, per consegnare alla storia questa serie. Una serie che, purtroppo, dopo circa un decennio si conclude nell'ignominia.

Giffen e DeMatteis tirano i remi in barca con una saga (Breakdown) dai toni iper-drammatici, chi prende il loro posto non è in grado di mantenersi sugli stessi livelli e si accanisce tremendamente contro quei personaggi, facili vittime anche perché tutto sommato esponenti minori del cosmo DC, e nel giro di qualche tempo va tutto a catafascio. Un paio di anni fa, però, il team si riunisce e dà vita a due miniserie, Formerly Known as the Justice League e I Cant' Believe It's Not The Justice League, entrambe perfettamente riuscite nel non semplice tentativo di riportare in vita quello spirito goliardico senza risultare datate.

Sfruttando un pretesto narrativo ovviamente puerile, i due sceneggiatori raggruppano alcuni fra i più rappresentativi membri del cast, inseriscono la splendida esordiente Mary Marvel e regalano oltre duecento pagine totali di divertimento estremo e situazioni ben oltre il limite dell'assurdo. La sensazione, per chi a suo tempo seguì il vecchio serial, è di tornare a casa, assieme a una famiglia di adorabili fessacchiotti. Ma Giffen e DeMatteis, coadiuvati da un Maguire al solito parco di sfondi ma in grado di far recitare i suoi personaggi come forse nessun altro, vanno oltre il divertito omaggio e, soprattutto nella seconda miniserie, scavano nella psicologia dei personaggi, regalando anche momenti molto intensi.

Il delizioso confronto infernale fra Guy, Tora e Bea è una piccola perla di grande scrittura, intensa e drammatica pur nel delirio comico della situazione che la circonda. Nel dare dignità a una morte il cui stesso sceneggiatore si era pentito di aver firmato, I Can't Believe It's Not the Justice League piazza i suoi personaggi all'inferno, regalando al mondo una personalissima e toccante rielaborazione del mito di Orfeo ed Euridice. Ma dopo la commozione torna il divertimento, con un mondo parallelo di deriva fetish e uno stupidissimo ritorno a casa, che si chiude su una nota di amore e amicizia davvero capace di scaldare il cuore.

E finisce così, finisce (probabilmente) per davvero, dato che subito dopo - anzi, addirittura in contemporanea all'uscita della seconda miniserie - è tornato l'accanimento su quei personaggi, più feroce che mai. Allo stato attuale, sono praticamente tutti morti, dispersi, impazziti o trasformati in supercriminali (e successivamente morti, ovvio). Perché tanto odio?

11.12.06

Uomini & donne


Trust the Man (USA, 2006)
di Bart Freundlich
con David Duchovny, Julianne Moore, Billy Crudup, Maggie Gyllenhaal, Eva Mendes

David Duchovny è sposato con Julianne Moore, che è la sorella di Billy Crudup, che un tempo usciva con Eva Mendes ma adesso sta assieme a Maggie Gyllenhaal. Sono tutti in crisi, litigano un po', dicono battute molto intelligenti e raffinate, scherzano su pompini e scorregge e mettono addosso una gran tristezza, non tanto per l'asfissiante e oppressiva condizione della vita di coppia moderna che provano a raccontare, quanto per la ridicola pretenziosità di questo filmaccio. E Crudup si esibisce in una pessima imitazione di Jack Black. E c'è il lieto fine.

Difficile dire altro su 'sta robetta, se non che è davvero impossibile non pensare male, nello scoprire che il regista Brad Freundlich e Julianne Moore son sposati, e che incidentalmente lei appare in tre dei suoi quattro film. Comodo avere la moglie ricca, famosa, riverita e rispettata, quando sei un caprone della macchina da presa. E sì, un po' la paraculaggine glie la invidio, anche se Julianne Moore mi fa abbastanza cacare.

10.12.06

Ricky Bobby


Talladega Nights: The Ballad of Ricky Bobby (USA, 2006)
di Adam McKay
con Will Ferrell, John C. Reilly, Sacha Baron Cohen, Gary Cole, Michael Clarke Duncan, Leslie Bibb, Amy Adams

Mi sfugge come si possa pensare di sostenere - l'ha fatto qualcuno su it.arti.cinema - che questo film abbia il difetto di "prendersi sul serio". Casomai sono i personaggi, a prendersi sul serio, come del resto praticamente sempre avviene in parodie di questo tipo. Fa parte del gioco, no? E il gioco funziona, perché Talladega Nights non si limita a fare uno "spoof" a episodi modello Scary Movie e non attacca dei film in particolare, ma fa piuttosto il verso a un'intera categoria, quella dei "biopic" sportivi. Ne assale vizi, virtù e stereotipi, con un taglio che si può solo definire stupido e scemo, ma che stupido e scemo non è nella sceneggiatura.

McKay e lo stesso Ferrell han fatto un gran bel lavoro nello scrivere dialoghi totalmente assurdi ed esagerati, sopra le righe oltre ogni limite, ma divertenti proprio perché presi sul serio da chi li pronuncia. Le scemenze declamate da Ricky Bobby, Cal Naughton, Jean Girard (uno splendido Sacha Baron Cohen) e compagni - da ascoltare tassativamente in lingua originale - sono un delirio di suoni gutturali e accenti caricati, emessi da persone che trascorrono tutto il film sparandosi le pose e prendendo in giro ciò che raccontano. E il bello è che proprio questa assurda carica demenziale rende Talladega Nights un ritratto molto fedele del circo sportivo americano. Molto più che un Days of Thunder, per capirci.

Il film di Adam McKay non travolge di risate dall'inizio alla fine e non lascia certo senza fiato, ma piace per l'atmosfera stupida e spensierata, convince grazie ad alcuni momenti tremendamente riusciti (l'incidente e la "paralisi") e vince grazie alla simpatica antipatia dei suoi personaggi. E Will Ferrell, beh, saprà anche fare solo questo - ma vedremo come sarà in Stranger than Fiction - però è molto buffo e io non lo trovo antipatico, ecco, uffa.

8.12.06

THIS IS SPARTA

6.12.06

Marie Antoinette


Marie Antoinette (Giappone/Francia/USA, 2006)
di Sofia Coppola
con Kirsten Dunst, Jason Schwartzman, Steve Coogan, Danny Huston, Marianne Faithfull, Jamie Dornan


Il più grande pregio di Marie Antoinette rappresenta forse anche il suo principale difetto. Il terzo film di una Sofia Coppola sempre più padrona dei propri mezzi e sempre meno aggrappata all'insopportabile didascalismo che caratterizzava la sua opera d'esordio racconta di una quattordicenne come tante, condannata a non essere come tante. Strappata dal suo ambiente naturale, infilata a forza in un contesto cui non sente di appartenere, vive un'adolescenza fatta di fastidiosi obblighi, superflui vizi e stupidini divertimenti. E alla lunga osservare la sua vita annoia, esattamente come annoierebbe osservare una ragazzina barcamenarsi fra monotoni pomeriggi davanti a MTV, frivoli party notturni e stucchevoli attese dell'alba in riva al mare.

Che il racconto riguardi un personaggio storico appare quasi incidentale, perché Sofia Coppola, pur contestualizzandolo più di quanto non sembri a uno sguardo superficiale, lo universalizza il più possibile. In maniera anche un po' grossolana e fin troppo evidente, se vogliamo, con questa colonna sonora attuale, questi dettagli moderni infilati qua e là e questa sottolineata "consapevolezza", fatta anche di un fugace sguardo verso la macchina da presa. Ma l'idea di fondo rimane quella già espressa anche ne Il giardino delle vergini suicide e Lost in Translation, quella spocchiosetta voglia di raccontare la bellissima e malinconica solitudine, intima compagna dell'essere donna, creatura meravigliosa, incomprensibile e inattaccabile da tutto ciò che la circonda (e che tende fatalmente a rivelarsi sempre inadeguato).

Se in Lost in Translation c'erano però anche la storia di una bella amicizia, l'irresistibile gigioneria di Bill Murray e il fascino di un'ambientazione talmente lontana e stuzzicante da tenere la scena per i fatti suoi, qui il racconto tende un po' troppo a svanire nella nebbia. Una nebbia fatta di splendide immagini, dipinti curati nel minimo dettaglio e messi in scena con un'attenzione e un senso estetico impressionanti, che alla lunga lasciano però addosso un senso di vuoto. Vuoto che rispecchia forse l'esistenza di questa ragazzina strappata con violenza al suo vivere e impegnata a dare un significato alla sua adolescenza. Ma vuoto, anche, che colpisce lo spettatore con l'ammorbante assenza di un qualsiasi racconto, un qualsiasi personaggio, una qualsiasi "cosa" narrativamente interessante.

5.12.06

Appunti per una storia di guerra


Appunti per una storia di guerra (Italia, 2005)
di Gipi
Edito da Coconino Press/Rizzoli

L'aspettativa, quando caricata, esagerata, alimentata senza tregua, finisce spesso per essere una brutta bestia. Negli ultimi mesi ho letto ovunque meraviglie di Gipi e non ho potuto fare a meno di provare un grande interesse nei confronti delle sue opere. La mostra a lui dedicata in quel di Lucca, poi, con quelle tavole per certi versi simili a quelle di Ben Templesmith, sembrava aver fatto definitivamente scattare il colpo di fulmine. Mi accaparro quindi il volume che più m'ispira, lo leggo tutto d'un fiato e... mi trovo a chiedermi cosa ci sarebbe voluto per lasciarmi addosso reale entusiasmo. Perché di entusiasmo, lo dico, non ne provo poi molto.

Certo, Appunti per una storia di guerra è un signor fumetto - anzi, tiriamocela, un signor romanzo grafico - splendidamente illustrato, con un senso della narrazione incredibile e una totale capacità di affascinare tramite i dettagli, le piccole cose. Racconta di una guerra fittizia in un futuro prossimo, seguendo le vicende di tre giovani vagabondi e mantenendo un taglio umano e terra terra, che rifugge la spettacolarizzazione e le iperboli. Ricorda forse un certo tipo di buon cinema da festival, fatto di piccole storie e bei personaggi. E, non dimentichiamocelo, ha pure vinto ad Angoulême il premio come miglior romanzo. Eppure...

... eppure ha qualcosa che mi ha infastidito profondamente, vale a dire quella forzata e insistita ricerca del poetismo che talvolta mette in scena. Ogni tanto Gipi sembra fermarsi, preparare il palco, mettere da parte il racconto e declamare un grande verità. Poi lascia il lettore in mano a quel breve momento di inevitabile silenzio drammatico, che fa ben macerare il poetico concetto espresso, e riprende quindi con la narrazione.

Ed è così che, per paradossale che sia, un'opera stilisticamente tanto particolare e ricercata finisce per scivolare un po' nella maniera, nella strizzatina d'occhio, nell'autocompiacimento. Si tratta di una cosa voluta? Non lo so. È solo un'impressione soggettiva e personalissima? Può essere. Ma c'è e non posso proprio ignorarla. Non cancella certo quel totale senso del ritmo, quella bella atmosfera decadente, quell'ottima caratterizzazione dei personaggi, quell'angosciante tavola finale, ma un certo senso di fastidio e disappunto me lo lascia. Rimandato a settembre.

4.12.06

The Departed - Il bene e il male


The Departed (USA, 2006)
di Martin Scorsese
con Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Vera Farmiga, Mark Wahlberg, Martin Sheen, Ray Winstone, Alec Baldwin


Difficile, forse impossibile, rendermi conto di quanto l'essermi presentato in sala fresco della visione dei tre Infernal Affairs possa aver influenzato il mio giudizio e il mio godimento dell'ultimo film di Scorsese. Da una parte è certamente vero che conoscere già tutti gli snodi principali della trama ha sostanzialmente cancellato buona parte della tensione e della suspence. Ma dall'altra è vero anche che molti aspetti a mio parere negativi lo sono a prescindere da un confronto col film di Lau e Mak. Ma sì, è indubbio, l'insoddisfazione nasce anche dall'inevitabile parallelo e dalla consapevolezza di preferire il modo in cui certe sequenze e certi personaggi sono stati affrontati nelle tre pellicole cinesi.

ATTENZIONE, QUESTO ARTICOLO POTREBBE CONTENERE DETTAGLI RIGUARDANTI LA TRAMA DI THE DEPARTED E DEI TRE INFERNAL AFFAIRS. VEDIAMO DI NON ROMPERE LE PALLE.

Eppure The Departed è un film che funziona, che funziona decentemente anche per chi Infernal Affairs l'ha visto, ma che certo risulta dirompente per chiunque altro. La potenza del soggetto e la cruda, inattesa, assurdità del finale lasciano di stucco e non possono che colpire. Scorsese, poi, compie una scelta per certi versi molto saggia e si distacca parecchio dal modello originale, non tanto nello sviluppo degli eventi - quasi identico - quanto piuttosto nella risoluzione delle piccole cose e nella caratterizzazione dei personaggi. E nel confezionare una pellicola assai più occidentale rispetto a quella che, comunque, per quanto molto hollywoodiana, rimane una trilogia dall'anima estremamente orientale. Il risultato, sulla carta, è un film che presenta svariati motivi d'interesse anche per chi non può certo essere sconvolto dai colpi di scena. Il problema, però, sta nella deprimente sceneggiatura di William Monahan.

A deludere è soprattutto quello che al contrario di norma è fra gli elementi distintivi delle pellicole di Scorsese: la caratterizzazione dei personaggi. Piatta e, nonostante una passata di grigio nel finale, abbastanza manichea, rifugge i caratteri sfumati e ambigui dell'originale cinese e si appoggia su una divisione schematica e monodimensionale. Chi è cattivo è cattivo, magari è simpatico, magari fa un po' pena, ma cattivo è e cattivo rimane. E lo stesso vale per i personaggi positivi che, pur talvolta ammantati di qualche tinta fosca, non escono dal loro schematismo. Certo, Sullivan alla fin fine vorrebbe uscirne pulito, ma non sfugge mai dalla sua gabbietta di inguaribile bastardo. Certo, Costigan si concede qualche violenta deriva verso una troppo "convinta" interpretazione del ruolo di mafiosetto, ma non va mai oltre il limite. E cosa rimane? Un Nicholson come al solito esagerato, strabordante e molesto, una bella psicologa la cui scomoda posizione (fra le poche intuizioni interessanti di Monahan) non viene sfruttata a dovere e una serie di personaggi minori, macchiette buone giusto per far da tappezzeria.

The Departed è un film efficace, appassionante, splendidamente diretto, dall'incredibile colonna sonora (per la scelta dei pezzi e per l'utilizzo che ne viene fatto), ma cui sfugge quella passionalità e quel senso del dramma che così bene caratterizzano invece Infernal Affairs. Voluta o meno che sia, questa differenza risulta micidiale per chi, come me, il film originale l'ha visto e amato. Dov'è il conflitto, dov'è l'ambiguità morale, dove stanno le difficili scelte, i dubbi e i traumi? Sullivan non è interessato a nulla che non sia il suo squallido tornaconto personale, non offre spiragli di redenzione, vuole solo sfangarla e viene - tutto sommato giustamente - punito. Costigan scivola sempre più verso il lato oscuro, ma non viene mai messo davvero alla prova, e quello che dovrebbe rappresentare il punto di rottura, la prima dimostrazione della sua delicata condizione psicologica, si risolve nel pestaggio di due delinquentelli. Tutto qui?

Ed è (s)confortante il pensiero che anche persone cui il film cinese rimane ancora sconosciuto riconoscano a The Departed questi e altri difetti, frutto quindi non solo dell'impietoso confronto, ma della natura stessa di un film ben lungi dall'essere perfetto. E piange il cuore a vedere un soggetto tanto carico di potenziale drammatico e tanto efficace risolversi in maniera così semplice, didascalica, ridotta al genere puro e semplice, per quanto diretto con mano estramente felice.

Un parallelo vero e proprio fra The Departed e Infernal Affairs, d'altra parte, è ingiusto e complicato da mettere in piedi. Se la struttura del film di Scorsese è sostanzialmente quella del primo episodio cinese e quindi con esso andrebbe confrontata, l'affresco narrativo va anche a pescare dagli altri due film, ma comprime circa sei ore di materiale in una pellicola da due ore e mezza. Ovvio quindi che i personaggi della saga di Lau e Mak finiscano per essere meglio tratteggiati e approfonditi. E questo vale non solo per i due "equivalenti" di Costigan e Sullivan, ma anche e soprattutto per i personaggi minori e le relazioni fra di loro.

Eppure i principali motivi di delusione nel film di Scorsese vanno oltre questi limiti e non possono che essere considerati come vere e proprie scelte. Basti pensare al diverso impatto della morte di Anthony Wong/Martin Sheen. Da una parte un personaggio ricco, il cui rapporto paterno con Yan è meravigliosamente tratteggiato senza dover scivolare nel didascalico e la cui morte violenta, improvvisa e devastante lascia di stucco. Dall'altra un vecchietto dalla presenza minore, quasi per nulla approfondita, che Scorsese prova inutilmente e impacciatamente a rendere interessante con quella scena casalinga, e la cui morte è dipinta in maniera più enfatica, "preparata" e, a conti fatti, meno efficace. Per non parlare, poi, di ciò che l'evento implica.

Se nel film di Lau e Mak la morte del sovrintendente toglie ogni speranza a Yan, perché elimina l'unica altra persona al corrente dei fatti, nel remake di Scorsese troviamo il superfluo personaggio interpretato da Mark Wahlberg, che di fatto riduce ancora di più l'impatto di quell'evento. Il Dignam di Wahlberg, peraltro, vive il paradosso di essere personaggio in tutto e per tutto superfluo, posticcio, appiccicato per il solo scopo di poter chiudere il film in quel modo, e allo stesso tempo, a parte l'ovvio - e bravissimo - Di Caprio, unica vera fonte di simpatia del film. Le sue battutacce lasciano il segno e la sua interpretazione è come al solito adorabile. Ma, quando conta, finisce solo per essere dannoso.

Così come dannosa è l'interpretazione di Nicholson, efficace nella prima parte, ma fra le principali fonti di "distacco" emotivo per la sua successiva deriva à la Jack Torrance. C'è chi gradisce queste sue interpretazioni forzate, esagerate, sopra le righe. Forse fra gli estimatori c'è Scorsese, che del resto ci ha regalato un inquietantemente simile Daniel Day Lewis in Gangs of New York. Io non faccio parte del clan. Io rimpiango il sottile, amaro, adorabile Eric Tsang di Infernal Affairs. E con lui rimpiango i suoi colleghi, che però, bisogna dirlo e ripeterlo, erano graziati da personaggi più affascinanti, profondi, ambigui e ricchi delle rispettive controparti occidentali.

Ricchi come l'ispettore Lau, così ben interpretato dal suo omonimo attore e così tragicamente affascinante nella sua disperata ricerca di redenzione. Matt Damon fa il possibile, nel tentativo di dare coerenza e credibilità al suo personaggio, ma lavora con materiale molto più piatto, banale, monodimensionale e deludente. Si torna sempre lì, non c'è ambiguità, non c'è conflitto, non c'è niente di niente.

Si potrebbe andare avanti ancora a lungo cercando questa o quella differenza fra i due film, puntando il dito per esempio su quanto più tesa riesca ad essere la transazione coi thailandesi nell'originale rispetto alla scialba versione occidentale, ma in realtà il discorso è molto semplice. The Departed è un ottimo poliziesco, un discreto film di Scorsese e un mediocre remake.

 
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