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31.8.14

Lo spam della domenica pomeriggio: Ciao Gamescom 2014

30.8.14

La robbaccia del sabato mattina: Giarrettiera


Fun fact: questa settimana sono usciti in Francia due film arrivati in Italia a inizio agosto. E poi vi lamentate dei distributori italiani! Comunque, mentre cerco di capire quando andare a guardarmi 22 Jump Street  e AI EM ERCHIULIIIII, leggo in giro che Joaquin Phoenix sarebbe nelle fasi finali delle trattative per interpretare il ruolo del Dottor Strange al cinema. Detto che non sono sicuro di quanto lo trovi adatto, la cosa è se vogliamo interessante perché, a occhio, sarebbe l'attore più "grosso" scelto fino a oggi per fare il protagonista in un film Marvel. Nel mentre, si sono manifestate delle foto forse dal set col green screen in cui si intravede il Dottor Destino dei nuovi Fantastici 4. E abbiamo anche una foto di Karen Page dal Daredevil targato Netflix che si sistema la giarrettiera, sta qua sopra. A proposito, Netflix. Oddio che bello Netflix. Mamma mia Netflix.



Questo qua sopra è una specie di trailer, per modo di dire, del nuovo cortometraggio Pixar, che immagino accompagnerà il nuovo lungometraggio Pixar. Dove eravate, voi, quando la Pixar è improvvisamente diventata irrilevante e pienamente immersa nel regno dello sticazzi? Io ero in Germania, credo. Non so bene cosa stavo facendo.



Rosewater, il primo film da regista di Jon Stewart, autore. Non riesco a decidere se sia una roba che mi farà innervosire, e di certo la scena con Gael García Bernal che balla in cella spinge fortissimo in quella direzione, ma insomma, Jon Stewart, voglio crederci.



Questo, invece, è The Woman in Black: Angel of Death, seguito del film che ha segnato il ritorno della Hammer, ci ha consegnato un Harry Potter adulto e padre a cui non credeva nessuno ma soprattutto, almeno per come la vedo io, non era malaccio. Questo è ambientato quarant'anni dopo ed esce a febbraio dell'anno prossimo, tant'è che il trailerino non mostra ancora nulla.



Nightcrawler, esordio da registra di Dan Gilroy, fino a oggi sceneggiatore non proprio di un capolavoro dietro l'altro, però il trailer mi ha messo addosso una gran voglia. Esce fra un mesetto in Italia, fra un paio di mesi in Francia. E vi lamentate.



Si intitola White Bird in a Blizzard, è il nuovo film di Gregg Araki (motivazione sufficiente), c'è Shailene Woodley (motivazione sufficiente) e c'è Eva Green (motivazione sufficiente). E il trailer promette molto, molto bene. In Francia esce a ottobre, in Italia boh. Lamentatevi.



E niente, per questa settimana è bene o male tutto. Mi limito a segnalare anche questa bella sbroccata sul rapporto fra sviluppatori indie e videogiocatori e quest'articolo sulle difficoltà nel trovar lavoro nel settore dei videogiochi dopo una certa età.

Netflix. Ah, Netflix. Mamma mia. Netflix.

29.8.14

Into the Storm


Into the Storm (USA, 2014)
di Steven Quale
con Richard Armitage, Sarah Wayne Callies, Matt Walsh

A me hanno sempre raccontato questa leggenda metropolitana secondo cui in Francia sarebbero stra-nazionalisti, legati alla loro lingua, poco interessati alla colonizzazione da parte delle stelle e delle strisce. E, intendiamoci, magari sotto molti punti di vista è anche vero, però devo dire che, da quando vivo qui, sotto molti altri punti di vista il mito mi è un po' crollato. O quantomeno mi è un po' crollato per quanto riguarda Parigi, dove gli Starbucks escono dalle fottute pareti (vicino a casa mia c'è una zona in cui se ne trovano cinque o sei nel raggio una piazza e mezzo), ci sono tutte le catene americane possibili e immaginabili e quando a gennaio ha aperto l'unica che mancava - Burger King - per giorni c'è stata la coda fuori. Non scherzo, la coda, tipo le processioni fuori dalle mense per i poveri che si vedono nei film americani. E, sempre in questo fantastico paese che ci tiene a tradurre tutto in francese, si verifica quello stesso fenomeno che tanto odiamo in Italia, quello dei titoli di film americani tradotti dall'inglese all'inglese. Cosa che fra l'altro mi crea sempre un sacco di confusione, perché io vedo un titolo in inglese su un manifesto in metropolitana, lo cerco su IMDB e lui mi risponde con la faccia che faceva Arnold quando suo fratello diceva scemenze. Son problemi.

Ora, tutto questo, giustamente, uno potrebbe chiedersi cosa c'entri con Into the Storm, al di là del fatto che, per l'appunto, qua in Francia l'hanno intitolato Black Storm, forse per evitare che i cassieri dei cinema vengano seppelliti di sputacchi quando ogni singolo spettatore chiede un biglietto per Into ze Storm. E la risposta è che non c'entra molto, ma mi sembrava comunque più interessante rispetto a iniziare raccontando la trama di un film in cui la trama è una serie di pretesti vuoti appiccicati con lo sputo a personaggi vuoti interpretati da attori vuoti per far sì che si ritrovino a scappare da disastri naturali dopo il cui passaggio i territori in cui è ambientato il film rimangono vuoti. L'aspetto più interessante della "storia" e del "cast" di Into the Storm, almeno per quanto mi riguarda, sta nel rendermi conto che Sarah Wayne Callies (che ai tempi di Prison Break mi stava simpatica e addirittura mi piaceva come donna) è stata distrutta da The Walking Dead e ormai non si riesce più a vederla sullo schermo senza sperare che venga travolta dal primo camion di passaggio. E pure nel fatto che ho osservato e ascoltato intensamente per un'oretta il protagonista maschile pensando che fosse la versione del discount di Hugh Jackman prima di rendermi conto che si trattava di Richard Armitage, solo senza il trucco da nano e in un film in cui erano tutti alti come lui.

Comunque, lo "spunto" di Into the Storm sta anche nel fatto che si tratta di un found footage, quindi di un film che in teoria dovrebbe essere il montaggio di una serie di filmati girati dai personaggi stessi con vari mezzi e messi assieme per realizzare un documentario sull'evento raccontato (una cittadina brasata al suolo da una serie di tornado senza precedenti nella storia dell'universo). Tant'è che il film si chiude su una manciata di interviste ai sopravvissuti. I pretesti utilizzati per farci credere che una banda di cretini continui a far riprese mentre sta per essere lanciata nella stratosfera dal tornado del dito di Dio sono diversi. C'è il team di documentaristi che lo fa per professione e ha tutta l'attrezzatura di spessore. Ci sono gli studenti che si dividono fra chi sta girando un filmino assegnato dal vicepreside e chi si diverte con lo smartphone. C'è la coppia di redneck che riprende tutto nella speranza di diventare famosissima su YouTube. E ovviamente c'è qualche ripresa fatta dalla TV locale a bordo di un elicottero. Insomma, è il minimo indispensabile della "giustificazione" per questo genere di film, poi sta allo spettatore bersi la faccenda e non rompere le palle con i soliti "ma", dalle batterie che non si scaricano alla gente che continua a riprendere sempre e comunque, passando per il fatto che un ragazzino con la videocamera del discount cura la fotografia come il professionista che fa documentari da quarant'anni. Ma insomma, sono le basi del filone, ci stanno. Il problema, casomai, è che la cosa viene messa in piedi un po' a caso.

E questa foto chi l'ha fatta? Eh?

Sarà una fisima mia, ma sono dell'idea che, se ti imbarchi in un film del genere, poi devi avere le palle di portare avanti la cosa fino in fondo. Non è che puoi fare il found footage per infilarti in un filone consolidato però, poi, quando devi fare la scena spettacolare, te ne freghi e piazzi l'inquadratura dove solo Superman potrebbe stare facendo riprese. Devi essere coerente. Per dire, un film come Cloverfield, piaccia o meno, ha dalla sua anche e soprattutto questo genere di coerenza e il modo in cui la sfrutta per mettere in piedi la sua atmosfera particolare. Into the Storm per ampi tratti ci prova anche, ma poi, quando la cosa rischia di farsi troppo complicata o, addirittura, di mettere i bastoni fra le ruote al tentativo di mostrare il tornado più fico nella storia del cinema, ecco che Steven Quale si abbandona placido allo sticazzi e crea le sue inquadrature come vuole, con buona pace della coerenza stilistica e narrativa. E intendiamoci, il risultato è che si vedono effettivamente su schermo degli effetti speciali pazzeschi (del resto, basta scorrere il profilo di Quale su IMDB per capire che l'unico senso dell'esistenza di questo film sono, appunto, gli effetti speciali pazzeschi). Quindi, alla fine, si può tranquillamente dire che va bene così.

Il problema, però, è che allora mi chiedo perché cacchio mi devi rompere le palle con le inquadrature sghembe, la grana a schermo e la visione in stile found footage, se poi la verità è che di fare il found footage non te ne fregava poi molto. Soprattutto, poi, considerando che ci sono, immancabili, tutte le forzature possibili e immaginabili che si manifestano in una situazione del genere e delle quali, a questo punto, potevamo fare anche a meno. Tipo il personaggio messo lì solo per avere un membro del team di documentaristi che possa far riprese dall'inizio alla fine e che non fa e non dice praticamente mai nulla, si limita ad andarsene in giro con la videocamera in spalla e il vuoto nel cuore. Praticamente è la versione cinematografica del Lakitu di Mario 64, che stava lì solo per inseguire l'idraulico e riprenderlo con la videocamera. Oppure quel momento delirante in cui, subito dopo la morte di un cameraman, il capo dei documentaristi - l'unico personaggio con un vago accenno di personalità - si mette a controllare le foto, la Callies gli urla dietro perché non ha un cuore, come può guardare le foto mentre son tutti lì a struggersi per il morto... e intanto uno del gruppo sta riprendendo tutta la scena con la videocamera.

E insomma, tutte 'ste menate io me le sorbisco anche volentieri (si fa per dire) se il film ha una sua coerenza e magari funziona proprio anche grazie al fatto di essere un found footage. Ma se poi, quando fa comodo (e talvolta anche in sequenze di dialogo, mica solo durante i disastri) il found footage si mette in pausa, mi chiedo se non sarebbe stato molto meglio realizzare un film "normale". E mi rispondo anche: sì. Anche perché, parliamoci chiaro, Into the Storm è un filmetto di poco conto, in cui le scene di raccordo fra un disastro e l'altro servono solo ad avere minutaggio a sufficienza per catalogarlo come lungometraggio. Sono superflue, banali, per nulla interessanti e interpretate da dei ceppi di legno, ma non particolarmente noiose, grazie anche alla saggia decisione di assestarsi appena al di sotto della sacra quota novanta minuti. E i disastri, invece, sono davvero ben fatti e tutto sommato meritevoli, se non altro perché appartenenti a un sotto-filone del disaster movie molto poco frequentato. Mancano magari di una testa pensante in grado di dare un taglio davvero affascinante alla loro messa in scena, ma, insomma, fanno la loro figura. E, parliamoci chiaro, se a fine agosto vai al cinema per guardati il film sui tornado, beh, alla fin fine quel che conta è che i tornado siano fatti bene e quel che li separa non sia di una noia micidiale. Fossimo a ottobre, magari, mi aspetterei qualcosa di più. Credo.

L'ho visto l'altro giorno al cinema, qua a Parigi, dove è uscito un paio di settimane fa. In Italia, invece, è uscito ieri. A conti fatti non ho mica capito se ne sto consigliando la visione o no. Magari può aiutare sapere che su IMDB gli ho messo 5.

28.8.14

Veneziame incoming


Dato che oggi c'ho troppo da fare, sto in apnea e fatico a uscirne, mi gioco il post quotidiano portando avanti il sano lavoro di copia & incolla dalla newsletter Agis. Che poi, giustamente, uno potrebbe anche chiedersi che caspita me ne faccia della newsletter Agis se vivo all'estero da ormai tre anni abbondanti, ma, ehi, sono fatto così, disiscrivermi dalle robe in mail è faticoso. E poi, per qualche bizzarro motivo, mi fa piacere continuare a ricevere notizie sulle rassegnine milanesi, tanto più che, quando mi ero appena trasferito a Parigi, in un paio di occasioni sono capitato a Milano proprio in corrispondenza delle stesse e sono riuscito a frequentarle un po'. Magari ricapita. Vai a sapere. Comunque, rimbalzo i comunicati qua un po' perché magari a qualcuno interessa leggerli (qua) e un po' perché appunto mi alimenta la nostalgia. Ad ogni modo, quelle che seguono sono le informazioni che mi sono giunte in mail sulla rassegna di Locarno e Venezia prevista fra un paio di settimane. Il copia & incolla è abbastanza brutale e quindi formattato a caso, ho solo spostato un paio di cose che altrimenti non ci stavano, ma insomma, ce lo facciamo andare bene.

Da lunedì 15 a mercoledì 24 settembre, Milano presenterà più di 40 film provenienti dalla 71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e dal 67° Festival del film Locarno, in lingua originale con sottotitoli in italiano. Inoltre verranno proiettati i film vincitori della 50ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e del 32° Bergamo Film Meeting.

Le prime anticipazioni sul programma: da Locarno il Pardo d'Oro FROM WHAT IS BEFORE di Lav Diaz, il Premio Speciale della Giuria LISTEN UP PHILIP di Alex Ross Perry e THE HUNDRED-FOOT JOURNEY di Lasse Hallström
e, da Venezia, PASOLINI di Abel Ferrara, THE LOOK OF SILENCE di Joshua Oppenheimer, IO STO CON LA SPOSA di Augugliaro, Del Grande, Al Nassiry e THE PRESIDENT di Mohsen Makhmalbaf.


Prevendita

• Cinecard da venerdì 5 settembre
Apollo spazioCinema, Arcobaleno Filmcenter
e www.lombardiaspettacolo.com.
• Biglietti da venerdì 12 settembre
Infopoint Apollo spazioCinema
e www.lombardiaspettacolo.com.

 
Biglietti € 7,50
Cinecard € 27,00 (6 film) | € 40,00 (10 film) | € 56,00 (16 film)



Il programma completo delle proiezioni da martedì 9 settembre
www.lombardiaspettacolo.com


27.8.14

Fango, depressione e altro in Italia


Fra oggi e domani escono al cinema in Italia un paio di film appartenenti al filone "con calma". Uno è Mud, un film con il Matteo Maccoso pre-dimagrimento, uscito in patria due anni fa, che io mi sono guardato in Blu-ray a maggio e di cui ho scritto a questo indirizzo qua. L'altro è Out of the Furnace, dalle nostre parti ribattezzato Il fuoco della vendetta, che risale appena al 2013, via, e io ho visto al cinema lo scorso gennaio, scrivendone poi a questo indirizzo qua. Per motivi e in modi diversi, tutto sommato credo meritino entrambi. Ma questa settimana escono anche Into the Storm, che sono andato a vedermi ieri e, insomma, diciamo no, e un paio di film che mi attirano un sacco ma qua a Parigi mi sono perso perché sono usciti al cinema quando ero in ferie e/o avevo da fare e/o whatever: Under the Skin e The Rover (no, non è vero, mi hanno tratto in inganno, The Rover esce a novembre). E poi altra roba, ovviamente. È ricominciata la stagione!

Sto guardando la prima stagione di Masters of Sex ed è bellissima. Così, volevo dirlo.

26.8.14

Lucy


Lucy (Francia, 2014)
di Luc Besson
con Scarlett Johansson, Min-Sik Choi, Amr Waked, Morgan Freeman

Che percentuale del nostro cervello utilizziamo e siamo potenzialmente in grado di utilizzare? Quali animali sfruttano la propria materia cerebrale in maniera paragonabile alla nostra? I delfini sanno usare quel che hanno fra le tempie meglio di noi? Come stanno messe le scimmie? Da dove siamo partiti, dove stiamo andando e dove arriveremo? Cosa accadrebbe se, per qualche motivo, così, all'improvviso, trovassimo un modo per aumentare le nostre capacità d'utilizzo di quella prelibata pietanza che veniva servita a Indiana Jones nei dintorni del Tempio Maledetto? Il nuovo film di Luc Besson (Fun Fact: era dal 1999 che non andavo al cinema per un film diretto da Luc Besson) prova a rispondere a queste domande e la risposta che ci propone non è quella scritta nei sacri testi della scuola di Hokuto, anche se per certi versi non ci va neanche troppo lontana. Sigla!



Fra i motivi principali per cui Lucy si fa apprezzare, c'è il suo essere un raro caso di film che sa quanto deve durare. Ottantanove minuti, signore e signori, in un'epoca in cui se non sfondi i centoventi non puoi essere considerato autore. Magari può sembrare poco, ma la verità è che in quegli ottantanove minuti Besson dice tutto quel che ha da dire e ce ne avanza pure. Scarlett Johansson, ormai ufficialmente diventata il Matt Damon del gentil sesso, interpreta il ruolo di una povera cretina che finisce invischiata in un traffico di droga sperimentale orchestrato dal protagonista di Oldboy, solo che il sacchetto che le infilano nella pancia si rompe, lei assorbe qualcosa come mezzo chilo di Activia in pochi secondi e improvvisamente le si spalanca il cervello. Da lì parte la brutale salita verso il 100% e lo status divino o giù di lì.

Il modo in cui Besson sviluppa la faccenda non è particolarmente originale, anzi, è un tripudio di cliché, ma la loro somma riesce ad essere fresca, coinvolgente e soprattutto priva di tempi morti, nonostante il fatto che il film, teoricamente venduto come action, di scene d'azione praticamente non ne ha. Lucy, infatti, diventa molto in fretta qualcosa di ingestibile da qualsiasi essere umano e ogni volta che sembra si stia preparano la grande coreografia spettacolare, lei spazza via tutti con uno sguardo o il gesto di una mano. Lucy diventa quindi quasi più una riflessione da discount sulla condizione umana e sul nostro potenziale sprecato e alla fin fine i suoi limiti stanno più che altro nel potenziale che viene fatto intuire ma poi esplorato solo di sfuggita. Nel film che sarebbe potuto essere ma che non è. E per fortuna, aggiungerei, dato che quel film, scritto e diretto da Besson, non so quanto sarebbe venuto fuori bene. Ah, e poi c'è anche il fatto che ormai, quando sento la voce di Morgan Freman che fa gli spiegoni, non ci posso fare nulla, mi viene in mente l'elenco telefonico e inizio a ridacchiare. Ma quello è un problema mio.

Comunque, nella sua semplicità, o forse proprio per la sua semplicità, Lucy funziona, regala comunque almeno un paio di scene che, pur molto sopra le righe, veicolano emozioni forti grazie anche alla bravura della Johansson, ma tende un po' a perdersi per strada, raccontando di una specie di onnipotente Terminator in divenire e mettendo in scena uno sbrocco finale che sembra quasi voler essere la versione di Besson (del discount, quindi) dei minuti conclusivi di 2001: Odissea nello spazio. Però son comunque novanta minuti scarsi divertenti, con (le solite) tante belle immagini (di Luc Besson), qualche lampo di bravi attori e due o tre trovate suggestive. È un film che, pur inventando molto poco, riesce a trovare una sua personalità distintiva e, soprattutto, tiene duro dall'inizio alla fine, trovando un buon equilibrio fra pomposità e leggerezza. Infine, è un film che sta incassando bene anche negli USA nonostante il rating R. Pensa te che cosa incredibile, eh!

L'ho visto qua a Parigi, al cinema e in lingua originale. Cosa che fra l'altro mi ha un attimo spiazzato nelle (brevi) sequenze in cui parlano francese, ovviamente non sottotitolato. Me ne dimentico sempre. In Italia arriva fra un mese, nel giorno del mio compleanno. Auguri!

25.8.14

Guardiani della galassia


Guardians of the Galaxy (USA, 2014)
di James Gunn
con Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista, Lee Pace e le voci di Vin Diesel e Bradley Cooper

Per mesi, o forse addirittura per anni, ci hanno venduto Guardians of the Galaxy come una scommessona, forse la più grande dei Marvel Studios. Del resto, stiamo parlando di un film basato su fumetti che non hanno mai riscosso particolare successo, con protagonisti ai limiti dello sconosciuto, appartenente a un genere - la fantascienza nello spazio profondo con le astronavine colorate - che a Hollywood vedono come la peste bubbonica, con fra i protagonisti un procione e un albero antropomorfi parlanti, affidato a un regista di scuola Troma che aveva a curriculum la migliore versione possibile di Romeo e Giulietta, un film immerso nel pus, il supereroe più violento visto al cinema, una serie dedicata alle parti dei film porno in cui non fanno sesso e un videogioco all'insegna delle turbe adolescenziali deviate. E con un cast in cui gli unici due attori veramente famosi vengono usati per doppiare le due creature di cui sopra, quindi non puoi giocarti le loro facce sul poster e la loro partecipazione, sul mercato internazionale del film doppiato, sostanzialmente si perde (anche se Vin Diesel ha doppiato Groot in tutte le lingue o quasi). Insomma, una scommessa, no?

Forse no. Intendiamoci, per carità, sicuramente è più una scommessa rispetto a quanto lo sarebbe tirar fuori un quarto Iron Man, ma il fatto è che i Marvel Studios, sui progetti apparentemente bizzarri e senza speranza, ci hanno costruito il loro successo. Un successo fatto, diciamocelo, di pianificazione e anche un po' di omogeneizzazione, grazie al quale sono riusciti sostanzialmente a portare al cinema il concetto di serie TV, al punto che oggi possono permettersi di buttar fuori un film che, pur vivendo tranquillamente di luce propria, mostra un cattivo alle spalle di tutto che si vede per cinque minuti, non sai quando apparirà di nuovo e, boh, forse, vai a sapere, sarà al centro di un film in arrivo fra due, tre, quattro, cinque anni. Hanno legato il pubblico a un marchio da cui sai bene cosa puoi aspettarti e se da un lato magari non puoi sperare nel capolavoro completamente fuori di testa e nuovo, dall'altro hai la certezza di sentirti a casa e divertirti bene o male sempre allo stesso modo. E infatti, qualsiasi cosa esca marchiata Marvel ha successo, altro che scommessa.

Intendiamoci, tutto questo lo dico da persona che - tolto L'insopportabile Hulk - ha bene o male apprezzato tutti questi film (sì, anche Iron Man 2), pur amandone alcuni molto più di altri. Ma alla fin fine il punto è tutto lì: questi hanno restituito una carriera a Robert Downey Jr. trasformandolo nella più grande star del momento, hanno creato un modello che tutti oggi si affrettano a rincorrere, hanno costruito un impero cinematografico nonostante i loro personaggi più forti fossero in mano ad altri e nessuno all'epoca credesse in quel che stavano provando a fare. Sono riusciti a far funzionare al cinema la Barbie con il martello di Odino e il biondo vestito con la bandiera americana e le alucce sulla capoccia... c'è davvero da stupirsi se ce la fanno anche con la space opera tutta matta e colorata? No, dai, non c'è da stupirsi. Anzi, tutto sommato c'è da essere allegri, perché, diciamocelo, fa piacere vedere che il successo inatteso dell'estate cinematografica americana sia un film tutto buffo e bizzarro, con gli alieni strani, pieno di blu, di arancione, di tono smargiasso e, insomma, lontano da quella fantascienza deprimente che da troppo tempo sembra debba rappresentare l'unico sbocco cinematografico a disposizione del genere.

Voglio dire, l'avevano presentato così, eh.

Voi ve la ricordate, l'ultima volta che siete andati al cinema e vi siete ritrovati le pupille invase da uno spazio enorme, profondo, lunghissimo, in cui centinaia di astronavi colorate si inseguivano da tutte le parti ed esplodevano? Io me la ricordo, era Episodio III e faceva cagare. Ecco, fosse anche solo per questo, perché hanno riportato quella fantascienza lì al cinema e perché l'hanno fatto con successo, aprendo presumibilmente le porte ad altra roba del genere, a James Gunn, ai Marvel Studios e a Guardians of the Galaxy bisogna voler bene, anche se poi magari il film non ti piace e men che meno apprezzi il modo di operare di Kevin Feige e compagni. Ci hanno restituito questa cosa qua, lo stare con gli occhi spalancati davanti a un universo bizzarro, enorme e pieno di roba che si insegue e l'hanno fatto giocando d'anticipo su quegli svalvolati dei Wachowski e quel certo altro progettino di J.J. Abrams, che comunque, diciamocelo, fa storia a sé. E l'hanno fatto con un bel filmetto. Che gli vuoi dire? Ah, io niente, figurati, sono già andato a guardarmelo due volte, perché la prima era stata in una sala che non mi convinceva, in cui si vedeva tutto troppo scuro (maledetti i siti che non ti permettono di sapere in anticipo in quale sala del multisala stai prenotando!). E poi all'Imax mamma mia, tutto colorato, tutto bellissimo, tutto che ti fonde la retina. Andate a vederlo all'Imax, Guardians of the Galaxy. O quantomeno andate in una sala di qualità, coi colori tutti belli e sparati a mille.


Blu & Arancione - The Movie.

Guardians of the Galaxy è un film perfetto? No, figurati, ben lontano. Però è, forse, il miglior risultato possibile nel contesto da cui nasce, qualsiasi cosa questo voglia dire. È un film di James Gunn figlio del James Gunn più addomesticato e col guinzaglio tirato. Gunn è uno che non ha problemi a fare quel che serve per funzionare a Hollywood (se non lo fosse, avrebbe fatto la fine di Edgar Wright) e del resto, paradossalmente, se dobbiamo credere a quel che raccontano, la sua prima stesura per il film era talmente addomesticata che Whedon e Feige gli han chiesto di metterci un po' più James Gunn dentro. Il risultato è una roba che lo spirito del suo timoniere se la porta addosso, ma nella quale è veramente difficile non notare la museruola e non far caso a quei due o tre momenti in cui a un Gunn senza i cani da guardia al fianco sarebbe partita la brocca, per dar vita a un film completamente diverso. Ma d'altra parte stiamo parlando dei Marvel Studios, non è che ci si possano aspettare le visioni mistiche tentacolari, il dito di Dio e Michael Rooker trasformato in una larva gigante che sbava addosso ad Elizabeth Banks. Va bene così.

Ed è un gran bell'andare bene, perché Guardians of the Galaxy è un film magari molto meno originale di quanto si potesse sperare, molto inquadrato negli sviluppi, che riconduce quasi sempre all'interno di confini tollerabili ogni momento apparentemente in grado di partire davvero per la tangente e che trova i suoi unici, veri, sfoghi di follia nei due mattatori del cast (ne parliamo dopo). Ma è anche un film divertente, solido, tosto, che non perde un colpo dall'inizio alla fine, prende in giro la sua pomposità con gran gusto e ha un ritmo invidiabile. In un'epoca in cui praticamente qualsiasi film esca al cinema ci guadagnerebbe tantissimo se durasse mezz'ora di meno e i film che hanno la forza di contenersi in sacra zona 100 minuti si contano sulle dita di una mano monca, Guardians of the Galaxy si prende due ore e non ne spreca un secondo. Si apre con un prologo forse un filo troppo drammatico (ma tutto sommato giustificabile nell'ottica dello sguardo di un bambino) e poi parte a mille, mettendo assieme risate dissacranti, tono bizzarro, azione continua, senza sedersi mai a seppellire di spiegoni e tirando fuori una gag dietro l'altra. E le astronavine colorate.

A funzionare, poi, è soprattutto il cast dei protagonisti, in un film dedicato in pratica solo a loro cinque, che lascia giusto una o due scene in cui mostrare quel che sanno fare a Lee Pace e Michael Rooker, mentre gli altri si accontentano di apparire, far due faccette e levarsi di torno. Chris Pratt è un perfetto fantademente, un cretino fuori scala, smargiasso incapace che riesce però a diventare eroe quando serve, spinto da una tristezza di fondo meravigliosamente raccontata attraverso l'adorabile uso del mixtape, trovata fantastica che regala una colonna sonora magari un po' scontata nelle selezioni, ma usata alla grande nel corso del film (e per il seguito si promette già benissimo). E questa malinconia legata alle motivazioni di ogni personaggio è il filo conduttore che va a unirli tutti, emergendo qua e là, anche un po' a sorpresa, e creando un bel contrasto agrodolce con il tono cazzaro che percorre comunque con insistenza tutto il film. Più in generale, è proprio ben assortito il gruppo e infatti l'anima del racconto è rappresentata proprio dall'attrito nelle interazioni fra personaggi provenienti da contesti sociali e culturali così totalmente agli antipodi. Ora, non è che voglia far passare Guardians of the Galaxy per un profondo trattato di sociologia interstellare, il punto è, semplicemente, che funziona là dove deve funzionare: nel caratterizzare e far interagire fra loro i protagonisti, disinteressandosi di tutto il resto e di ciò che lo stesso James Gunn, per voce di Peter Quill, si affretta a definire MacGuffin.

Le musiche, invece, per quanto efficaci, sembrano un po' troppo uguali a quelle di The Avengers.

E un po' tutto il film è percorso dal tentativo di bilanciare i suoi vari elementi in maniera... come dire... controllata ma schizoide. È, di nuovo, un James Gunn che abbaia da dentro alla gabbia, che ogni tanto ci tiene a sottolineare quanto siano ridicoli i personaggi che si sparano le pose, e allora fa sbadigliare Zoe Saldana durante l'inevitabile passeggiata al rallentatore pre-finalone o piglia i due personaggi che si prendono più sul serio in tutto il film, senza mai mai mai concedersi un sorriso (l'imponente Ronan di Lee Pace e la Nebula di Karen Gillian), e li ridicolizza nei loro momenti di maggior presunta cazzutaggine. Le parti migliori del film arrivano proprio da questo spirito qui, sono in fondo anche loro spesso ristrette nei canoni del prevedibile, ma riescono a cogliere di sorpresa quando viene dato spazio ai personaggi - prevedibilmente - più interessanti.

C'è innanzitutto Rocket, assurdo e ben reso da un Bradley Cooper che fa il suo, anche se magari non ruba la scena come ci si sarebbe potuto aspettare (ma del resto è pur sempre Bradley Cooper). La verità è che Rocket funziona soprattutto nel suo rapportarsi con gli altri personaggi, per esempio in quella bella scena in cui Quill si sofferma con lo sguardo sulle sue cicatrici, nello sfogo da ubriaco al bar, nel prendere in giro il collezionista di Benicio Del Toro o nei botta e risposta polemici con chiunque gli passi davanti. Ma del resto la cosa è vera un po' per tutti i protagonisti e non a caso fra le scene migliori del film c'è la discussione di gruppo su come affrontare il casino finale, che conduce poi alla passeggiata al rallentatore di cui sopra. Ed è in fondo anche per questo che, in maniera - diciamocelo - totalmente inattesa, il Drax di Dave Bautista e le sue risate da invasato si mangiano il film. Non solo perché è il prevedibile treno merci quando parte all'assalto e spacca tutto, ma anche e soprattutto per la bravura nella gestione dei tempi comici, per l'idea clamorosa del personaggio che prende ogni cosa alla lettera e per le gag assurde che ne vengono fuori. Guardians of the Galaxy sarebbe il suo film, se non fosse che glie lo ruba e se lo mangia l'altro attore gonfio come un canotto, per altro senza nemmeno apparire sullo schermo.

Groot è una meraviglia, una scheggia impazzita che regala praticamente ogni singolo momento di reale imprevedibilità, fa da perfetto collante fra i veri personaggi, tira fuori gag azzeccatissime, spacca tutto quando c'è da spaccare tutto e riesce davvero a raccontare parecchio attraverso tre parole ripetute all'infinito, per bocca di un Vin Diesel che, da bravo geek, ci crede davvero e interpreta il personaggio con tutta la potenza drammatica di cui è capace (ognuno ci legga quel che ci vuole leggere). E, già che c'è, fa anche da Chewbacca della situazione, con Rocket a fargli da Han Solo, nonostante poi l'Han Solo del film sarebbe in teoria Quill. E insomma, è tutto un casino. Comunque, lui e Drax sono la fonte delle gag migliori e perfino dei momenti più intensi, sia quando li vedono protagonisti, sia quando riguardano le reazioni degli altri personaggi a quel che fanno. E alla fine, se Guardians of the Galaxy vince, prevedibilmente, è anche e soprattutto perché non fallisce quando prova ad andare un pochino fuori dai canoni, anche magari nel permettere a Michael Rooker di fare lo scemo che ruba la scena a tutti in quei dieci minuti che ha a disposizione. Aggiungiamoci, e si torna al punto di partenza, che è un film di fantascienza coi mondi fantasiosi e spettacolari, pieno di cose bizzarre sparse in giro, nel quale alla solita comparsata di Stan Lee si aggiunge quella di Lloyd Kaufman (♥), in cui c'è una scena d'azione finale che ti riempie gli occhi di esplosioni là in cima nello spazio, che è pieno di gag divertenti e percorso da uno spirito adorabile, costellato di singole immagini davvero riuscite, fra mutazioni di Groot e panorami spaziali senza fine, e concentra il tutto all'insegna di una forza, un senso del ritmo e una capacità di non perdersi in divagazioni superflue che mancano a praticamente qualsiasi film uscito negli ultimi dieci anni, oltre che al sottoscritto. È un film solido e ben scritto, in cui ogni personaggio ha il suo giusto spazio, la sua caratterizzazione e delle motivazioni sensate, e nel quale Gunn - sicuramente anche grazie agli aiuti dall'alto - dimostra una mano ferma che non è mai stata esattamente la sua dote migliore. Non sarà perfetto, ma non ci si può proprio lamentare. Anzi.

 Verso l'infinito... e oltre!

Poi, certo, è l'ennesimo film Marvel in cui le scene di combattimento sono al massimo dignitose (e l'affaire Edgar Wright ci ha tolto la speranza di vedere delle pizze in faccia supereroiche fatte come si deve l'anno prossimo) ed è la classica storiella dallo sviluppo incasellato e prevedibile - però, per quel che vale, sa di esserlo e ci tiene a sottolinearlo - ma è un film azzeccato, divertente, comunque per molti versi fuori dagli schemi. E soprattutto è un film carico di promesse. C'è la promessa di mondi lontani, immersi nel blu, di là da venire, con tutto quel marasma di roba che può arrivare dagli angoli più assurdi e surreali dell'universo Marvel (e fra un paio d'anni ci riprovano con quella faccenda della magia). C'è la speranza che il successo clamoroso spinga a una rinascita delle grosse produzioni bizzarre, fuori di cozza e fuori dal normale, quelle che ci raccontano davvero i mondi impossibili che solo il cinema può raccontarci. C'è la promessa che è implicita in ogni primo episodio firmato da un regista di personalità e che spesso viene mantenuta alla seconda uscita, quella di poter slacciare un po' il guinzaglio e partire per la tangente. E poi c'è quella cosa che si manifesta dopo i titoli di coda, che magari è solo una cosa buttata lì per strizzare l'occhio o magari è invece una dichiarazione d'intenti per un futuro migliore. Vai a sapere. In un certo senso, Guardians of the Galaxy potrebbe essere il nuovo Iron Man, per tanti motivi, che son poi quelli di cui ho chiacchierato fino a qui ma sono forse anche tanti altri. Crediamoci tutti assieme, mano nella mano.

Come dicevo, l'ho visto due volte, in lingua originale, al cinema, qua a Parigi, prima nel multisala dietro casa, che è ottimo ma ha una certa sala un po' sfigata, e sfiga vuole che il film venisse proiettato proprio lì, perché nella sala principale ci stava Luc Besson. Poi son tornato a vederlo all'Imax e uau. I colori. Le cose giganti. Il cielo blu. Le esplosioni. I am Groot. I Want You Back.

24.8.14

Lo spam della domenica pomeriggio: Colonia come se piovesse


Ed eccoci qua con l'elencone della roba con cui ho avuto a che fare nelle ultime due settimane. Non è poca, ovviamente, essendoci di mezzo un'intera settimana di fiere. Diamoci da fare, andiamo schematici. Iniziamo con le varie robe uscite su IGN, con una precisazione: se su un gioco ho scritto un articolo che contiene anche una videoanteprima, non segnalo quella videoanteprima a parte.

Dalla GDC Europe:
Hellblade, il gioco indipendente tripla A
La prima giornata in video
Quantum Break e il cinema secondo Remedy

Dalla Gamescom:
Call of Duty: Advanced Warfare
Clandestine
Dragon Age: Inquisition
Dragon Ball Xenoverse
Evolve
Gabriel Knight: Sins of the Fathers - 20th Anniversary Edition 
Geometry Wars 3: Dimensions
NBA 2K15
Quantum Break
The Vanishing of Ethan Carter
The Witcher 3: Wild Hunt
Tutte le dirette
Tutte le videoanteprime
Until Dawn

Videoanteprime dalla Gamescom in cui faccio l'imbucato ma in realtà il gioco lo racconta qualcun altro:
Dead Island 2 & Escape Dead Island
Destiny
Far Cry 4
La terra di mezzo: L'ombra di Mordor
The Tomorrow Children

Da casa:
Dite la vostra: il gioco che attendete di più

Ovviamente c'è ancora un bel po' di roba in arrivo, presumo nel corso della prossima settimana. Di seguito, invece, quel che è uscito su Outcast nelle ultime due settimane.

Cinquepercinque: Waiting for Colonia 2014
Fine di un dramma
La recensione del quarto episodio della seconda stagione del gioco di The Walking Dead
La recensione del quinto episodio di The Wolf Among Us
Old! - Agosto 1994
Old! - Agosto 2004
The Walking Podcast #30
Videopep - Cianfrusaglie da Colonia 2014

Domani sera, se tutto va bene, si registra Outcast Reportage.

23.8.14

La robbaccia del sabato mattina: Paul Rudd col cappuccio



L'altro giorno è stato annunciato il cast per la serie da dieci episodi basata su Powers, fumetto molto apprezzato da queste parti, che è attualmente in produzione per il PlayStation Network. Ora, con tutto che non so ancora se avere buone speranze perché vai a sapere, devo dire che la scelta di Sharlto Copley come protagonista mi intriga, anche se ha un po' poco a che vedere con l'estetica del personaggio originale. In più, c'è la sempre ottima Michelle Forbes per il ruolo di Retro Girl e ci sono un altro po' di nomi più o meno noti a fare da contorno: Eddie Izzard, Noah Taylor, Susan Heyward, Olesya Rulin, Max Fowler e Adam Godley. Vogliamo crederci? Crediamoci. Intanto, escono le prime foto (una sopra, una sotto) più o meno legate ad Ant-Man, noto anche come il film Marvel passato dall'essere il più atteso in assoluto a quello da cui ci si aspetta meno in assoluto.



Sempre a proposito di fumetti Marvel, stanno uscendo circa centododicimila notizie di casting sulla seconda stagione di Agents of S.H.I.E.L.D.. Se non mi sono perso nulla, abbiamo la sempre amata cavallona Adrianne Palicki come Mockingbird (quindi possibile futura conquista di Jeremy Renner, se decidono di seguire gli sviluppi dei fumetti), Kyle MacLachlan a fare il padre di Skye, chiunque esso sia, e Brian Patrick Wade come Crusher Creel, quindi, teoricamente possibile futuro bersaglio dei cazzotti di Thor. Scelte buone? Scelte cattive? Non saprei, dico solo che a me fa sempre piacere vedere sullo schermo Tyra Collette, quindi a posto così.



Questo qua sopra è il trailer di Young Ones, del quale non so praticamente nulla se non quello che si vede, per l'appunto, nel trailer, ovvero che racconta di un futuro tutto polvere e niente acqua. Praticamente è il contrario di Waterworld. Gli attori mi intrigano, il trailer mi intriga, IMDB mi dice che in Francia è uscito a inizio agosto e in effetti scopro ora che è ancora fuori. Magari la prossima settimana lo recupero. Forse. Vai a sapere.



Questo sembra una roba oltre l'impresentabile, e del resto i protagonisti sono Nicolas Cage e Hayden Christensen. La verità è che l'ho messo qui solo perché si intitola Outcast. Andiamo avanti.



Il secondo trailer di Annabelle, il film dedicato alla bambola tutta brutta e inquietante che faceva una comparsata in L'evocazione. Puzza di cagata lontano un miglio, però, ehi, vai a sapere, magari invece viene fuori divertente. Anche se, insomma, dal regista di Mortal Kombat: Distruzione totale, abbiate pazienza, tenderei a non aspettarmi molto. Comunque, per questa settimana chiudiamo qui, con giusto una segnalazione di un articolo che mi è piaciuto molto su come funzionano gli assalti di gruppo in questo luogo così simpatico e accogliente che è l'internet. E ora spazio ai video tutti matti.









Sono indeciso: vado a vederlo, il film con Sara Tancredi che scappa dagli uragani?

22.8.14

I videogiuochi in mostra


Una cosa di cui mi sono reso conto abbastanza in fretta, a seguito del mio trasferimento in terra francese, è che qua a Parigi di certo non mancano le cose da fare e non mancano bene o male in tutte le direzioni. Poi, certo, io faccio caso soprattutto alle direzioni che interessano a me, tipo i ristoranti e i cinema, ma insomma, in generale è un continuo ricevere stimoli da tutte le parti e, per dire, ci sono esposizioni e mostre a getto continuo su qualsiasi argomento possibile e immaginabile. Fra gli argomenti, ce ne sono anche diversi tranquillamente inseribili nella categoria geek, tant'è che ultimamente sto scrivendo di mostre parigine con una frequenza tale da spingermi addirittura a creare un apposito tag. Oh, non è mica una cosa da poco, eh, ho perfino fatto il tag! Vabbé, comunque, se vi siete persi le mie chiacchiere sulle varie cose a tema fumettistico, videogiocoso e cinemaro, non sto a rimettere qua i link che oggi non ho voglia: cliccate sul tag e ci arrivate da lì. Ecco. Oggi, comunque, chiacchiero di una mostra della quale sapevo molto poco - praticamente solo il nome - e dalla quale sono uscito forse un po' freddino, certo non entusiasta come per tutte le altre di cui ho chiacchierato qua nel blog. In parte, forse, è perché s'è rivelata un po' diversa da come me l'aspettavo, in parte proprio perché in certi aspetti l'ho trovata un po' abbandonata a se stessa.

Sto parlando di Videogame Story, mostra interattiva allestita nel complesso fieristico di Paris Expo - Porte de Versailles. Viene descritta più o meno come la più grande mostra dell'universo fra quelle dedicate alla storia dei videogiochi e tutto sommato non fatico a crederlo, perché indubbiamente è grossa. Ed è strutturata secondo quello che, forse, è il modo migliore per allestire un'esposizione sui videogiochi: con quasi tutto acceso, in funzione e a disposizione della gente. L'esposizione percorre la storia dei nostri amati giochini dalla nascita (o quasi) a oggi, seguendo le varie epoche con un'area per ciascun decennio e separandole tramite sezioni dedicate a questa o quella serie nello specifico, fra Mario, Zelda, Mario Kart, Metal Gear, Tomb Raider, Sonic e via dicendo. Non mancano poi spazi ancora più specifici, tipo la stanza in cui è possibile farsi venire il mal di mare giocando col cabinato idraulico di Air Rescue o l'angolo in cui è possibile fare i cretini con Donkey Konga, la LAN di Counter Strike e quella di Doom, perfino la zona dedicata ai giochi sportivi, in cui mi sono fatto una bella partitina al primo Pro Evolution Soccer, tornando con la memoria agli sfidini redazionali e a quanto mi faceva incazzare l'uno-due automatico col difensore che si bloccava sul posto per una frazione di secondo. Maledetto.

Tutto molto bello e, di nuovo, tutto molto sensato, perché il modo migliore per far (ri)scoprire la storia dei videogiochi consiste nel permettere alla gente di (ri)giocarli. I lati negativi stanno innanzitutto nella scarsità di contestualizzazione, con davvero pochi contenuti che esulino dal semplice pad messo in mano: OK che il punto della cosa è dare la possibilità alla gente di passare qualche ora giocando gratuitamente a qualche coin-op di spessore e provando i classici del passato (e del presente: ci sono anche le sezioni PS4 e Xbox One, con tanto di area indie e tavolata Oculus Rift), ma sarebbe stato interessante avere anche un po' di spazio dedicato all'approfondimento, ai dietro le quinte. Che so, qualche scritta sul muro che spieghi cosa hai davanti, cose del genere. E invece, sotto questo punto di vista, si trovano al massimo una manciata di gadget, un paio di pareti con bozzetti preparatori (belli, eh!) e le classiche teche con un po' di console e computer messi in fila. Che pure va più che bene, intendiamoci, ma un po' spiace. E, al di là di questo, spiace anche che la selezione dei giochi in mostra sia a tratti abbastanza tirata via, con parecchi giochi di secondo o terzo piano la cui presenza mi sembra giustificabile solo con un "Oh, ce li avevamo, fanno numero". Inoltre, mi rendo conto che non dev'essere semplice gestire la brutalità di un afflusso di gente sicuramente notevole - andare durante un pomeriggio infrasettimanale è probabilmente stata una scelta saggia - ma le condizioni in cui versano diversi controller e perfino qualche cabinato fanno piangere il cuore, oltre a rendere sostanzialmente impossibile provare il gioco come si deve.

Dopodiché, intendiamoci, è comunque una mostra che vale il prezzo del biglietto e in cui qualunque giocatore con almeno una decina d'anni di carriera alle spalle può trovare svariati angoli nei quali farsi avvolgere dalla nostalgia, mentre i più giovani hanno occasione di toccare con mano roba che magari non hanno mai visto. Con più attenzione su alcuni aspetti, sarebbe diventata una mostra clamorosa, ma anche così merita comunque un passaggio. E probabilmente è importante anche sapere a cosa si va incontro, presentarsi magari con un po' di amici ed essere pronti a trascorrere qualche ora giocando a ruota libera con qualsiasi cosa ci si trovi davanti. Ah, ovviamente all'uscita c'è il negozietto, ma clamorosamente, stavolta, sono riuscito a tenere la carta di credito nel portafogli.
























La mostra, come detto, sta al Paris expo Porte de Versailles (1 place de la Porte de Versailles 75015 Paris - tel: 01.40.68.22.22) e, purtroppo, non c'è ancora molto tempo a disposizione per andare a visitarla, dato che chiude il 7 di settembre. Ma, oh, vai a sapere, magari qualcuno capita su questo post e decide di andare a farci un salto.

21.8.14

I mercenari 3


The Expendables 3 (USA, 2014)
di Patrick Hughes
con Sylvester Stallone e chiunque altro sia riuscito a raccattare in giro

La serie di The Expendables non può e non vuole sfuggire dal semplice fatto di essere un agglomerato di attori più o meno famosi, più o meno decrepiti, messi assieme un po' alla come capita per accalappiare noi pirletta che corriamo attirati dai nomi. È dichiaratamente questo, non l'ha mai negato, e del resto stiamo parlando di film la cui produzione praticamente effettua il casting tramite l'account Twitter di Sylvester Stallone, che poi modifica le sceneggiature in corsa a seconda di come si sveglia la mattina e cercando di far quadrare in qualche modo gli altri impegni di tutti i coinvolti, mentre si prova pure ad accontentarli il più possibile sui rispettivi minutaggi. Insomma, si fa quel che si può e, in quest'ottica, non dico non si potesse fare meglio, ma i risultati sono tutto sommato quasi da lodare. Io, poi, mi sono divertito con tutti e tre gli episodi, seppur in maniere molto diverse, quindi certo non mi lamento, anche se mi chiedo quanto ancora ci sia da dire al riguardo.

Rimane il fatto che fin dal primo film Stallone si è divertito a giocare sull'aderenza fra attori e personaggi, a pasticciare scambiando i ruoli e, se vogliamo anche inevitabilmente, a puntare tutto sul raccontare tanto di attori quanto di mercenari appartenenti a un'epoca lontana, forse finita. Se col primo episodio l'ha buttata - al di là di qualche gag - sull'estremamente serio e malinconico, col successivo ha sbracato nella direzione opposta, tirando fuori un tale frullato di citazioni, omaggi e vecchietti che si tiravano le gomitatine che si è praticamente arrivati alla parodia. The Expendables 3 rappresenta una marcia indietro che prova a centrare il giusto equilibrio fra le due anime della serie, ritrovando la voglia di prendere sul serio se stesso e l'azione messa in scena, ma senza dimenticarsi per un attimo di tutto il resto.

 Son ragazzi, si divertono.

E il risultato è un film d'azione vero e proprio, che si apre nel modo giusto, regala un altro paio di momenti action lungo il percorso e poi si chiude con quaranta minuti (o giù di lì) di delirio esplosivo, divertente e trascinante, nei quali praticamente tutti riescono a trovar qualcosa da fare, anche se in diversi ne escono sacrificati. E fa tutto questo senza rinunciare ai furbetti che si strizzano l'occhio, con l'intera scena d'apertura dedicata a far evadere di prigione e tornare in azione Wesley Snipes, Schwarzenegger che spara un paio delle sue battute storiche e urla "CHOPPA!" due o tre volte, attori che si scambiano frasi dai rispettivi film, Harrison Ford che guarda Jet Li e vede Shorty, frecciatine a Bruce Willis come se piovessero, Antonio Banderas che fa il desperado e Mel Gibson che oscilla fra Max Rockatansky e Martin Riggs. La cosa però non esce (quasi) mai dal seminato e trova una sua dimensione all'interno di quello che comunque prova ad essere un film e non una raccolta di sketch dei vecchietti che fanno i fenomeni da baraccone.

Il problema, semmai, è che come film non è proprio riuscito fino in fondo. L'apertura è col botto, infila due belle scene d'azione una dietro l'altra e riporta in campo Snipes attraverso un personaggio presentato in maniera intrigante, solo che poi si va a parare da tutt'altra parte. Il blocco centrale del film è dedicato alle quattro nuove leve, delle quali due sono poco più che cartonati e uno fa LOL di cognome e ci viene spinto a forza in gola come erede di Sly nonostante non faccia nulla che sia degno di nota. Si salva, per fortuna, Ronda Rousey, non tanto perché il suo personaggio abbia qualcosa da dire, quanto perché irrompe nel film come un carro armato e si avventa su qualsiasi cosa le passi davanti più o meno con la stessa delicatezza mostrata da Steve Austin nel primo episodio. Una creatura impressionante, le cui braccia possono contenere quelle di quasi tutti gli attori maschi del cast e la cui essenza può essere riassunta nel fatto che il suo viso risulta molto più gradevole e delicato quando è impegnata a fracassare le teste delle povere controfigure, rispetto a quando tenta maldestramente di sorridere e si trasforma nell'urlo di Munch.

"Mgghhrrr! Nggghjhrrhr! Fsssghggrhhgmhmpf!"

Tutto il film ruota attorno all'idea del passaggio di consegne, dei vecchi rincoglioniti che lasciano il testimone alle nuove leve, ed è difficile non vedere anche in questo un po' di pipponi "meta" da parte di Stallone, al punto che - magari esagero - mi viene da pensare che perfino la scelta di andare per un rating PG-13 vi si ricolleghi. In fondo, i film sanguinari erano quelli che venivano girati dai vecchietti venti e trent'anni fa, l'azione d'oggi è quella in cui muoiono comunque centinaia di persone, ma non si vede una goccia di sangue e non puoi osare più di un fuck. Il problema è che questa scelta, che pure dal punto di vista tematico ci starebbe, mette un po' troppo a lungo al centro dell'azione personaggi noiosi e finisce per ammazzare abbastanza il ritmo del film nella sua parte centrale, mentre si attende stancamente che vada tutto a rotoli e cominci il casino vero. Le scenette con cui vengono introdotti i nuovi eroi dovrebbero essere accattivanti ma fanno pietà, il loro momento action è incolore e l'unico dei nuovi ad avere un senso finisce per essere il personaggio di Antonio Banderas, a modo suo interessante e accattivante, oltre che unico dotato di un arco narrativo degno di questo nome.

Ora, magari Stallone ha volutamente proposto quattro giovani cartonati e un vecchio interessante per fare il polemico, ma il risultato è che comunque il film diventa un lento trascinarsi in attesa dei fuochi d'artificio finali, che pure ci sono e non deludono. Il paradosso sta nel fatto che, di fondo, lo spazio ai ragazzini bisognava darlo per forza, vista la loro importanza per quel che il film vuole raccontare. Certo, lo si poteva fare meglio. Il problema, invece, sta nel fatto che il cast "anziano" finisce per essere messo largamente in disparte, con Couture e Lundgren che fanno poco o nulla, Snipes che svanisce dopo un buon inizio e Statham che fa i suoi soliti duetti con Sly ma poi fa veramente poco sul campo. Schwarzy e Ford, perlomeno, sfruttano al massimo il poco spazio a disposizione, ma in compenso Jet Li è talmente di passaggio che non tira neanche un calcio o uno schiaffo. Inoltre, un Mel Gibson in formissima ha a disposizione praticamente tre scene in croce e, per quanto riesca tranquillamente a non sprecarle, finisce per essere se possibile sfruttato ancora meno di Van Damme nel secondo film. Aggiungiamoci che là dove Eric Roberts aveva dalla sua Steve Austin e Gary Daniels, là dove Van Damme si portava dietro Scott Adkins, qui Mel Gibson ha a disposizione un esercito di anonimi soldati.

Insomma, il limite di questo terzo The Expendables è che non riesce a scrollarsi di dosso fino in fondo i problemi figli della sua stessa natura, ma d'altra parte è forse impossibile riuscirci. Di buono ha che comunque si apre col botto e tutta la parte conclusiva è uno spettacolo, molto ben coreografato e messo in scena, in cui esplode qualsiasi cosa e più o meno tutti riescono a dire la loro. Fra questo, il tono nostalgico e malinconico, la valanga di piccoli omaggi e citazioni infilate con un po' più gusto dell'ultima volta, il sorprendentemente ottimo Banderas, i (pochi) minuti in cui Snipes e Gibson riescono a farsi valere, un paio di gag azzeccate e Harrison Ford che interpreta la versione più stronza dei personaggi che l'hanno reso famoso, di sicuro c'è da divertirsi e io mi sono divertito. E certamente chi ha odiato il tono cretino del secondo film apprezzerà il cambio di rotta. Però c'è un problema: questa serie di film nasce con l'idea di mostrarmi tutti assieme in scena gli eroi degli anni Ottanta e Novanta (più qualche aggiunta moderna) che fanno esplodere cose. La scena d'azione finale del primo film lo ha fatto tutto sommato bene. La parte finale del secondo film, con tutti i limiti che ha quel secondo film, lo ha fatto in una maniera roboante, mettendo in fila Sly, Arnie e Bruce che sparavano fuoco e fiamme nello stesso fotogramma, Chuck Norris che spuntava da tutte le parti, Stallone e Van Damme che si menavano fortissimo, Statham e Adkins che pure se le davano di santa ragione e qualche altra varia ed eventuale. Nei minuti iniziali del film c'erano perfino due piroette di Jet Li. E qui? E qui c'è una scena d'azione lunga, divertente, spettacolare, che si conclude con una scazzottata fra Rambo e Riggs, per poi lasciar spazio a uno Stallone che scappa da un intero condominio che si sbriciola ma, non so, c'è anche tanto minutaggio per tre sfigati, mentre gente tipo Dolph finisce a fare da sfondo e Statham e Snipes ammazzano fantasmi in uniforme. Insomma, capisco perché molti considerino The Expendables 3 il film più riuscito ed equilibrato della serie e, nonostante l'ammorbamento testicolare del blocco centrale, posso pure concordare, ma è anche quello in cui la premessa mi è parsa sviluppata con meno convinzione e in maniera meno azzeccata. O magari è solo perché alla terza volta il giocattolo non mi rapisce più allo stesso modo. Vai a sapere.

Per non dimenticare.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, su uno schermo grosso (ma forse non grosso) e in lingua originale, anche perché è sempre bellissimo gustarsi in lingua originale film pieni di attori che fanno fatica ad esprimersi in un inglese coerente nonostante solo alcuni di loro abbiano la scusa di non essere nati in America. In Italia arriva fra un paio di settimane, ma tanto lo so che voi l'avete già visto in quell'altra maniera lì. Cattivi!

20.8.14

Le ferie estive a fumetti di giopep


Ad appena un mese di distanza - che vuoi che sia - da quando sono effettivamente tornato dalle ferie, ecco qua un po' di chiacchiera veloce sui fumetti che ho letto mentre ci stavo, in ferie. Nulla di clamoroso, poca roba, giusto per pubblicar qualcosa in questa bizzarra giornata di metà settimana del rientro a casa.

Nine #1 ***
Uno fra i primi manga di Mitsuru Adachi, forse il primo sufficientemente di successo perché mi risulti noto senza dover andare a cercare su Wikipedia, arriva in Italia per mano di Flashbook, che continua a palleggiarsi le opere del caro Adachi con Star Comics. A giudicare da questo primo volume, non mi sento di dire che sia esattamente un'opera imprescindibile e di certo si vedono tanti limiti d'immaturità, nel tratto e non solo. Però, insomma, come recupero archeologico, per me che ad Adachi voglio ancora tanto bene, è sfizioso.

Worst #33 ****
Worst, col passare del tempo e dei volumetti, è un po' scivolato in quel reame dei manga che vanno avanti troppo a lungo e finiscono per esaurire la carica iniziale. Ma tutto sommato si è fermato prima di spaccarmi davvero i maroni, anche se ci mancava proprio poco. Il paradosso sta nel fatto che la storia sembra comunque lasciata un po' lì appesa, senza una vera conclusione e con alcuni personaggi che non hanno dato tutto quel che potevano dare. Per altro magari è stato interrotto per ragioni "esterne" al racconto e io non ne so nulla, anche perché Wikipedia non mi aiuta. Sia quel che sia, è stato comunque gradevole leggerlo tutto.

Concrete #4: "Un sorriso che uccide" ****
Sembra un po' assurdo leggere sul retro di copertina "la storia che in America ha riacceso l'interesse nei confronti della serie", vuoi perché equivale praticamente a dire che stai pubblicando un fumetto che non si cagava più nessuno, vuoi perché, oh, il volume precedente era Fragile creatura, mica roba da niente. Fatto sta che questa è la storia che in America ha riacceso l'interesse nei confronti della serie e non è che la cosa mi stupisca, dato che si tratta di un gran bel racconto, con un po' tutto quel che rende così interessante Concrete e, per sicurezza, anche qualcosa di nuovo.

Orfani #4/10 ***/****
I primi tre numeri di Orfani mi avevano dato un'impressione di crescita costante, ma poi mi sono dovuto fermare perché m'ero perso per strada il quarto. Finalmente l'ho recuperato e mi sono letto sei volumetti in fila, ritrovando una serie interessante, divertente, molto ben confezionata e in grado di raccontare cose risapute in maniera a modo suo nuova - specie nel contesto del fumetto popolare italiano - e con qualche idea mica male. Qua e là continuo a far fatica coi dialoghi di Recchioni, ma è un problema più mio che suo, temo.

Trouble is my Business #1 ****
Scritto da Natsuo Sekikawa e disegnato da Jiro Taniguchi, Trouble is my Business è, perlomeno in questo primo volume, una roba strana, un noir malinconico e iper drammatico percorso da quel classico gusto per l'umorismo assurdo che i giapponesi infilano sempre dappertutto. C'è qualcosa che rende storie del genere forse un po' troppo distanti dal nostro (o dal mio?) gusto per apprezzarle fino in fondo, ma rimane comunque una gran bella lettura.

Long Wei #11/12 ***
Questo lo metto qui perché siamo alla fine della serie, ma potrei tranquillamente sbatterlo là in fondo, perché onestamente non ho molto da aggiungere a quanto scrissi del primo numero: Long Wei s'è mantenuto divertente, gradevole, solido e a tratti perfino sorprendente dall'inizio alla fine. Pizze in faccia erano state promesse, pizze in faccia sono state consegnate.

Powers - Bureau #1: "Undercover" ****
Inizia il nuovo corso di Powers e si riparte da dove ci si era fermati, ma forse non si riesce a trovare quella nuova carica che ci si aspetterebbe da un rilancio. Detto questo, dal punto di vista visivo Powers è e rimane uno spettacolo e le storie sono comunque sempre intriganti, vuoi per l'ambientazione, vuoi perché ormai sono affezionato ai personaggi, vuoi perché la catastrofe del precedente volume è un punto gustoso da cui ripartire. Insomma, io continuo ad apprezzare, anche se spulciando in giro vedo che in molti si sono stufati, e sono fra l'altro parecchio curioso di vedere cosa combineranno con la serie TV (anzi, la serie console).

Quelli che ne ho scritto o parlato altrove e quindi metto il link ad altrove
The Witcher - House of Glass ****
Ne ho scritto su Outcast. In effetti l'ho comprato e letto solo allo scopo di scriverne su Outcast. Però non me ne sono pentito, ha un che di "mignoliano" affascinante.

The Walking Dead #21: "All Out War II" *****
Qua sto barando, perché in realtà non ne ho ancora scritto o parlato altrove. Ma è colpa di Nabacchiodorozor che non ha fatto i compiti. Comunque, le cinque stelline testimoniano il mio indice di gradimento.

Quelli che ho scritto in altre occasioni dei numeri precedenti e non ho niente da aggiungere e mi limito quindi a metterli qua in fila con le stelline che mi ero appuntato 
Blue Exorcist #12 ***, Dragonero #12/14 ***, Le storie #20/22 ***, Speciale Le storie #1 ***, Lilith #12 ***, Lukas #2/4 ***, Mix #2/3 ***, Naruto #66 ****, Real #13 ****, Rinne #18/19 ***, Vagabond #55/56 *****, Yawara! #8/9 ****

 
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