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30.11.12

Looper - In fuga dal passato


Looper (USA, 2012)
di Rian Johnson
con Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis, Emily Blunt, Jeff Daniels

Il problema di realizzare un film in cui c'è Bruce Willis vecchio, stanco, a tratti con una pettinatura improbabile, che torna indietro dal futuro per impedire qualcosa, è che finisci per attirare paragoni piuttosto scomodi con un altro film in cui succedono bene o male le stesse cose. Chiaramente, però, quando dal paragone non ne esci preso a schiaffi, la cosa smette di essere un problema. Diventa anzi un vantaggio. Ecco, il bello di Looper, al di là del suo essere già finito in quel carosello di complimenti senza fine che piano piano si tramutano in rivalutazioni verso il basso e "ehi, ma guardate che non è così bello" assortiti, sta fondamentalmente in questo: lo metti a confronto con tanti altri bei film di fantascienza, con tutta questa rinascita della fantascienza solida, intelligente, originale e recente che risponde ai nomi di Neill Blomkamp, Gareth Edwards, Duncan Jones e compagni, e non sfigura, anzi, ne viene fuori proprio bene.

Perché Looper, senza voler fare classifiche, è quella cosa lì: un bel film di fantascienza, intelligente, appassionante, che prova a fare cose un pochino fuori dagli schemi, si concede qualche libertà, qualche scena dura, perfino un finale coraggioso che in produzioni di altro tipo forse non potresti permetterti. È un film a cui risulta facile voler bene, andando anche a perdonare quel momento in cui ti tira di gomito, con quel dialogo in cui Jeff Daniels che dice quelle cose a Joseph Gordon-Levitt è in realtà Rian Johnson che fa il predicozzo presuntuoso a Hollywood. Ed è un film a modo suo semplice, basato su cose semplici, che punta tutto sulla suggestione, sul concedersi il lusso di non dover tirare tutto avanti infilando scene d'azione a caso, parlando invece di malinconia, destini ineluttabili, melodramma e altre simpatiche note di allegria. Ha delle belle idee, qualche colpo di scena più o meno prevedibile, dei momenti dal forte impatto visivo, e anche una discreta capacità nello scrivere i personaggi. Nei dialoghi spiccioli, sempre buoni e capaci di non stonare anche quando fanno i "meta", come nello scambio che dicevo prima, o in quello in cui Bruce spiega a Joseph come funzionano le cose nel film. Ma anche nella ricchezza dei personaggi stessi, pure molto azzeccati come casting. Perché Jeff Daniels è un cattivo bizzarro, da cui non sai mai bene cosa aspettarti, e perché Emily Blunt, che già da sola, messa lì a fare nulla, andrebbe benissimo, ha un bel personaggio, rotondo, capace di andare oltre la semplice figura da damigella in pericolo. E poi c'è il Gordon-Levitt, davvero bravo a interpretare questo strano ruolo della versione giovane del Bruce Willis attuale, che non è necessariamente aderente al vero Bruce Willis giovane. Bravo nel parlare in quel modo lì e bravo anche dal punto di vista dell'espressività, che, aggiunta al trucco, in certe inquadrature, ti fa proprio dire "poffarbacco".

E insomma, per me Looper è fra le cose più belle viste quest'anno, qualsiasi cosa questo voglia dire. Ci vedo fondamentalmente solo due problemi, al di là delle piccolezze. Il primo è che tutto il racconto si basa su un paradosso temporale non proprio a prova di bomba. Ora, capiamoci, mi rendo conto che possa apparire un po' ridicolo, fare le pulci a un paradosso, ma la verità è che le migliori storie basate sui viaggi nel tempo definiscono regole ben precise e riescono a muoversi al loro interno con grande agio. Si parte dall'assurdo, ma all'interno di quell'assurdo, eh, sono impeccabili. Ecco, Looper dà l'impressione di applicare le sue regole in maniera abbastanza fumosa, crea situazioni a tratti un po' difficili da giustificare e questo, mi rendo conto, può dare fastidio. A me non ne ha dato e, anzi, sono contento che da quel fumo, in fondo, vengan fuori alcuni fra i momenti più suggestivi del film, compreso quel bel finale, ma son faccende personali, e capisco perfettamente se qualcuno, a forza di perplessità, finisce per uscire un po' dal racconto. L'altro problema è un po' più di circostanza: io e il resto del mondo abbiamo visto Looper fra la fine di settembre e l'inizio di ottobre. Toh, qualcuno fra fine ottobre e inizio novembre. In Italia, il film arriva, con quel sottotitolo banale che ho messo là in cima per completezza, a fine gennaio. Se IMDB non mente, dopo qualsiasi altro posto del mondo. E, ecco, dopo quattro mesi di lodi sperticate, poi va a finire che uno si presenta al cinema con un'aspettativa che potrebbe essere soddisfatta solo se sullo schermo si manifestasse l'intero cast dell'ultimo Swimsuit Special di Sports Illustrated a svelare il terzo segreto di Fatima, la verità su Calciopoli e il numero di telefono di tutte le partecipanti, magari mentre in sala ogni spettatore viene sottoposto allo stesso provino che John Travolta impone a Hugh Jackman in Codice: Swordfish. E invece ci si ritrova davanti solo un bel film. E magari ci si rimane male. Epperò mica è colpa del film. Voglio dire, io l'ho visto nello stesso periodo in cui al cinema c'era fuori quella puttanata vergognosa del remake di Total Recall. Son cose che fan la differenza.

Come detto, l'ho visto a fine settembre, o giù di lì, chiaramente in lingua originale. Lingua originale che merita per la bravura degli attori, per la bizzarria del personaggio di Jeff Daniels e, ovviamente, per il lavoro d'imitazione svolto da Joseph Gordon-Levitt. Poi fate voi.

29.11.12

Argo


Argo (USA, 2012)
di Ben Affleck
con Ben Affleck, Bryan Cranston, John Goodman, Alan Arkin

Argo è il terzo film da regista di Ben Affleck. Ed è il terzo gran bel film da regista di Ben Affleck. Arrivati a questo punto, forse è il caso di smettere di stupirsi, così come potremmo smettere di stupirci nello scoprire che Ben Affleck, quando si mette nelle mani di un bravo regista (tipo Ben Affleck), è anche un bravo attore. Quindi, diciamocelo chiaro: Ben Affleck è uno dei migliori (nuovi, dai) registi sulla piazza. Gone Baby Gone non è stato un caso, The Town ha fatto da conferma, Argo è esattamente quel che ormai era lecito attendersi: un gran bel film come non se ne fanno più, diretto da un regista come non se ne fanno più.

Perché poi, il problema dei film di Ben Affleck è anche un po' quello: non provano a stupirti con chissà quali trovate geniali o innovative, non fanno accartocciare palazzi su loro stessi e non ti fanno passare metà del tempo a chiederti cosa stia succedendo. Non c'è l'ambizione di cambiare le regole, c'è piuttosto la voglia di fare un cinema classico, impegnato, "normale". E comunque moderno e affascinante. Argo sembra uno di quei film che recuperi in videocassetta dallo scaffale in soffitta e ti viene subito voglia di schiaffare nel videoregistratore, perché sai di andare sul sicuro. Solo che è stato girato oggi, non quarant'anni fa, anche se fa di tutto per sembrare un film degli anni Settanta (non solo in giochetti come il logo vintage della Warner Bros, ma anche nello stile, nella scrittura, nell'approccio e nel rigore).

Racconta una storia talmente bizzarra che solo al cinema, e che invece, guarda un po', pur con l'inevitabile romanzare hollywoodiano che allunga gli imprevisti e forza un pochino di spettacolo, mette in mostra per davvero quegli anni. E lo fa con una precisione notevole nella ricostruzione storica, visiva, di linguaggio, usi e costumi, fatta di quella follia esagerata, superflua, piena di dettagli che magari neanche cogli, ma registri a livello inconscio e ti danno un forte senso di solidità. Tutto questo nel segno del cinema, certo non del documentario, con una storia capace di sorprendere, stupire, toccare, divertire e tenere preda della tensione dall'inizio alla fine. Affleck tiene le redini di tutto in maniera incredibile, alterna i registri a meraviglia, passa dalla tensione insopportabile di Teheran alla distensione comica di Hollywood senza mai far storcere il naso, anzi, concedendosi un bel pezzo di bravura in quel montaggio alternato fra le due messe in scena, e dirige tremendamente bene un cast azzeccatissimo. E in tutto questo, racconta una storia che ti ammazza dalla tensione grazie a quattro dialoghi e due sguardi, nonostante tu sappia perfettamente come andrà a finire. Insomma, è gran bel cinema. Avercene.

Posso dire che Christopher Nolan glie lo puppa, a Ben Affleck? Dai, lo dico. 

28.11.12

Ultime dal mondo dei fumetti al cinema


Oggi volevo scrivere di Argo, ma oggi mi sono svegliato senza l'estro creativo, e Argo, come spesso accade coi film che mi sono piaciuti tanto, mi mette in difficoltà. Quindi (oggi) parliamo d'altro, con un post veloce veloce, un po' nerd, che mi permette di tenere aperta la striscia di giorni consecutivi anche se c'ho da fare. Parliamo di notizie nerd su film nerd. Parliamo quindi di nerdate DC e Marvel.

A quanto pare, Zack Snyder sta titillando le genti con dichiarazioni sul fatto che Man of Steel (qua i due teaser trailer) sarà il primo tassello del mosaico previsto per l'arrivo a un film sulla Justice League, un po' sullo stile del circo messo in piedi da Marvel per arrivare a The Avengers. Considerando il delirio produttivo che è stato L'uomo d'acciaio, è un attimo pensare che questa cosa l'abbiano proposta l'altro ieri e che, se tutto va in porto, gireranno una scena a caso all'ultimo momento, da aggiungere dopo i titoli di coda. In tutto questo, salta fuori una voce secondo cui, nell'universo allargato della Justice League cinematografica, dovrebbe essere Joseph Gordon-Levitt a interpretare Batman. E che sia lui, sia altri attori della trilogia di Christopher Nolan, dovrebbero apparire in qualche forma prima del film "corale" previsto per il 2015. Al che, uno si immagina un'apparizione del Levitt proprio in quella scena di cui sopra. Certo, che il Batman tutto realismo fico si inserisca nell'universo della Justice League fa un po' ridere, ma in fondo anche chissenefrega. Fra l'altro, a questo punto, la scena finale dell'ultimo Batman diventerebbe ufficialmente il primo di 'sti crossoverini. Tutte fregnacce? Possibile, e l'entourage di Gordon-Levitt nega. Ma forse è solo perché ha paura che gli facciano indossare il costume di Robin.

La reazione di Joseph Gordon-Levitt dopo aver letto la notizia.

Nel mentre, procedono i lavori su un nuovo film Marvel che non fa parte dell'universo dei Vendicatori coi costumi colorati. Di X-Men: Days of Future Past e di quanto c'abbia il potenziale per essere una roba spettacolosa avevo già parlato a questo indirizzo. Qui segnalo che Matthew Vaughn ha deciso di dedicarsi ad altro (non a Kick-Ass 2) e Bryan Singer ha preso il suo posto, tornando quindi a dirigere una pellicola mutante dieci anni dopo X2. Ma soprattutto, è stata ufficializzata la partecipazione di Ian McKellen e Patrick Stewart, cosa del tutto coerente con la storia a base di viaggi nel tempo e, soprattutto, cosa che mi rende un bimbo felice. A questo punto manca solo che metta la firma pure Hugh Jackman. Che, dai, ci vuole. Wolverine deve apparire in ogni singolo film che abbia a che fare con i mutanti, no? E infatti chiudiamo ricordando con affetto la sua adorabile partecipazione a X-Men: First Class (oddio SPOILER!!!).


E anche per oggi è andata. Dai, domani ci provo, a scrivere di Argo.

27.11.12

The Walking Dead 03X07: "Infiltrati"



The Walking Dead 03X07: "When the Dead Come Knocking" (USA, 2012)
con le mani in pasta di Glen Mazzara e Robert Kirkman 
episodio diretto da Daniel Sackheim
con Andrew Lincoln, Michael Rooker, Norman Reedus, Lauren Cohan, Steven Yeun, Laurie Holden, Danai Gurira, David Morrissey

E "finalmente" questa terza stagione ci ha regalato un episodio talmente riempitivo che se lo riassumi al succo ti dura cinque minuti. Non che sia una brutta puntata, anzi, in tutta la parte che si svolge a Woodbury la tensione si taglia col machete, il crescendo è davvero di spessore e, in generale, il lavoro per farti venire la fotta in attesa del gran finale di metà stagione è eccellente. Però, ecco, insomma, rispetto ai primi quattro o cinque episodi, in cui praticamente ogni settimana morivano due persone, c'erano otto colpi di scena e si consumavano cento pagine del fumetto, eh, qua gli autori sono stati più tranquilli. E, sarà un caso, alla regia ci han messo uno al suo primo episodio della serie.

Ad ogni modo, è evidente che volevano preparare per bene quel che arriva domenica, con quel titolo là, e giustamente si son posizionate le pedine a dovere, con quel lungo sottolineartele tutte per benino nei minuti finali. Ma prima sono arrivati dei bei momenti, con il cazzuto interrogatorio di Glenn, con quella Michonne in diffcoltà, spaventata, che teme di essere finita dalla padella alla brace e non si fida di gente che le chiede di fare esattamente quel che le avevano chiesto a Woodbury, e con un Governatore sempre più adorabile nel passare dalla vestaglia alla mazza ferrata e viceversa, con quella scena al tavolo che, al lettore del fumetto consapevole della faccenda Michonne, qualche brivido lo fa venire. Certo, la parte nella casetta è veramente messa lì solo perché in qualche modo bisogna arrivare alla fine dell'episodio con, appunto, tutte le pedine al loro posto, ma insomma, dai, ci può stare. E soprattutto la fotta c'è, quindi bene.

A margine, poi, c'è sempre la faccenda di Andrea, protagonista del segmento più prevedibile e prevedibilmente inutile - anche se apprezzabile nelle intenzioni, via - e che a conti fatti, mi si conceda, ha il suo momento migliore dell'intera stagione quando mostra le chiappe. Detto questo, e dette tutte le critiche solite sullo sviluppo del suo personaggio, sono comunque curioso di vedere cosa le capiterà. Perché in ogni caso, le varie dinamiche che hanno costruito gli autori fra tutti i personaggi e tutte le situazioni sono interessanti e l'impressione è che i tre quarti d'ora del prossimo episodio saranno davvero pochi, per contenere tutto quello che potrebbero tirarne fuori. E poi la pausa, uffa.

Una stretta di mano virtuale al titolista italiano, che, dopo averci regalato un titolo tutto sommato fedele all'originale una settimana fa, si inventa qui una roba che, boh, sarà stupido io, non riesco neanche a capire come gli sia venuta in mente. Ma infiltrati chi? Dove? Perché? MACCOSA?

26.11.12

Battlestar Galactica: Blood & Chrome #5/6


Battlestar Galactica: Blood & Chrome #5/6 (USA, 2012)
creato da David Eick e Michael Taylor
diretto da Jonas Pate
con Luke Pasqualino, Ben Cotton, Lili Bordán

Una cosa interessante di Blood & Chrome è la sua totale assenza di vergogna. Gli effetti speciali, per quanto  usati con un discreto mestiere, che qua e là nasconde bene i limiti, sono quello che sono e lo mostrano a più riprese. Eppure la serie e i suoi autori non se ne vergognano e, anzi, mettono in scena una sana ambizione, senza rinunciare a nulla. Questa, da un lato, è una cosa positiva, perché permette di vedere un po' tutto quel che ci si aspetta da un Battlestar Galactica, ma dall'altro, chiaramente, a tratti "spinge" un po' fuori dall'immersione del racconto. E se la battaglia nello spazio con protagonista la versione sana di mente dell'ammiraglio Cain funziona, nelle successive scene sul pianeta torna a tratti quella sensazione di essere davanti a un videogioco di metà anni Novanta, tutto attori e fondali digitali, con quell'aria casereccia da vorrei ma non posso. Poi però ti ricordi di stare guardando su YouTube una serie per il web e accetti il compromesso.

Compromesso che comunque merita. Perché il racconto va avanti bene e riesce a conservare quello spirito da dramma militar-fantascientifico che tanto aveva funzionato nella serie TV. La storia funziona, i personaggi sono più interessanti delle macchiette che sembravano all'inizio, l'azione è bella, il melodramma spinge e c'è poi la curiosità di vedere in azione i tostapane originali, cosa che dovrebbe avvenire nei prossimi episodi. L'unico limite, forse, è quell'aria un po' troppo da showcase, da "facciamo vedere che siamo capaci, così magari ci finanziano una serie". Perché da un prequel io mi aspetto un po' di approfondimento su Adama, qualche rivelazione interessante, degli spunti nuovi, però qui si è già passato il giro di boa e stiamo a perdere tempo con morti di contorno e strane creature.

E, insomma, OK che fare un prequel è materia sempre delicata, va bene che in una storia che a conti fatti durerà un'ora e mezza c'è un limite a quel che puoi fare, ma il timore è che si finisca per esser davanti a una roba un po' troppo fine a se stessa, un piacevole ritorno a quelle atmosfere e a quell'universo narrativo, sì, ma anche una mezza occasione sprecata. Boh, vediamo, io comunque mi ci sto divertendo e magari, alla fine, potrebbe pure essere abbastanza.

Mi risulta davvero facile, scrivere del nulla. Ma d'altra parte ci ho costruito sopra una carriera.

25.11.12

Outspam a puntate - Seconda parte


E dopo ogni prima parte, c'è sempre una seconda parte. Quasi sempre. In effetti a volte non c'è. Ma fa lo stesso. Ecco qua la seconda parte del ventunesimo episodio di Outcast Magazine, con tre fottute ore tre di chiacchiera su mille e più mille giochi. La trovate a questo indirizzo qua.

E mercoledì, se non ci sono imprevisti, si registra il nuovo Tentacolo Viola.

24.11.12

Quando meno te l'aspetti, come una bomba, The Host 2


Il primo The Host è un film meraviglioso, uscito da quel posto tutto matto che è la Corea del Sud, da me visto qualche anno fa alla rassegna milanese del Festival di Cannes (avevo scritto poche righe a questo indirizzo qui). Era un tripudio di divertimento, azione, comicità surreale, sentimenti forti, melodramma e altre cose a caso tutte mischiate assieme nel frullatore e spalmate sulla panza di un mostro gigante mutante che si penzolava dal soffitto. E non c'entrava nulla con il The Host tratto da Stephenie Meyer che uscirà a marzo. Ora, completamente dal nulla, salta fuori che in Corea stanno girando The Host 2. E qua sotto c'è una sequenza del film, poi mostrata anche con un simpatico confronto "prima e dopo gli effetti speciali". Ecco, The Host 2, non ne sapevo nulla, Surgo me lo mette di fronte così, come se niente fosse, e io poi come faccio a sopravvivere nell'attesa? Intanto mi piglio il blu-ray del primo film, toh.




E insomma, sono tutto un brivido. Non si sa quando esca, non si sa nulla, ma è già ficata.

23.11.12

Battlestar Galactica: Blood & Chrome #3/4



Battlestar Galactica: Blood & Chrome #3/4 (USA, 2012)
creato da David Eick e Michael Taylor
diretto da Jonas Pate
con Luke Pasqualino, Ben Cotton, Lili Bordán

Non so se ho intenzione di scrivere ogni settimana un post su Battlestar Galactica: Blood & Chrome, ma insomma, questa volta m'è venuta voglia, vediamo se poi va avanti coi due episodi che escono oggi. Certo è che trovare ogni volta qualcosa da dire su un paio di puntate da neanche dieci minuti non sarà semplice. Fra l'altro, sembrano essersene accorti pure quelli di Machinima, che gli episodi sono brevi, considerando che il terzo e il quarto li hanno accorpati in un solo video di YouTube. Però sono belli, e alla fine conta quello. Così come conta il fatto che intanto, divagando, un paragrafo è andato.

L'impressione tratta dal terzo e dal quarto episodio è che tutto sia gestito con grande padronanza. Giocherà anche il fatto di guardare la serie su un monitor, per quanto da 24 pollici, ma la resa degli effetti speciali e, in generale, il taglio visivo mi sembrano davvero convincenti, con piccole, compresse, ma efficaci battaglie stellari. In questo senso sono curioso di vedere come hanno gestito lo scontro fra i due grossi incrociatori per il quinto episodio, ma insomma, è questione di ore, o forse minuti, o forse aspetta che vado a guardare su  YouTube.

Per il resto, mi sembra che tutto sia costruito molto bene, riuscendo a dare organicità alla storia ma orchestrando anche l'inevitabile necessità di avere un cliffhanger ogni dieci minuti (anzi, meno). Bello, nel quarto episodio, quel dialogo all'hangar, bella la caratterizzazione del tonno Obama, che, come era prevedibile, sta andando un po' oltre il teppistello insopportabile del primo episodio, intrigante il gioco di misteri. Di sicuro, se la qualità è questa, non sarebbe affatto male veder diventare Blood & Chrome una vera e propria serie, magari più fortunata di Caprica. Vediamo.

Ah, cosa non si fa, per mantenere aperta una striscia di giorni consecutivi con post pubblicati. Comunque il tutto sta su Machinima Prime, ma mi dicono che in Italia è oscurato.

22.11.12

The Making of Prince of Persia - Journals 1985/1993


The Making of Prince of Persia - Journals 1985/1993 (USA, 2011)
di Jordan Mechner

Jordan Mechner è un tipo ganzo. È una personcina gradevole e umile, pur avendo creato una fra le icone videoludiche (e non solo) più longeve della storia e pur essendo uno che ha curato pochi videogiochi, ma tutti notevoli (lista per gli smemorati: Karateka, Prince of Persia, Prince of Persia 2, The Last Express, Prince of Persa: Le sabbie del tempo e, adesso, il remake di Karateka). Ha un blog, che non aggiorna spesso ma è spesso molto interessante. Vuole bene ai suoi fan e al suo passato, che non dimentica, racconta con amore ed "elargisce" a piene mani. Ed è pure bello stare ad ascoltarlo quando chiacchiera alla GDC. E non solo quando racconta di Prince of Persia. Insomma, è un tipo ganzo.

Inoltre, è un tipo ganzo che fin da giovane ha l'abitudine di raccontare i suoi pensieri, le sue esperienze, la sua vita, in un diario, confusionario e assemblato un po' come viene, perché è così che sono i diari, ma affascinante da percorrere a tanti anni di distanza. Le pagine che raccontano la lavorazione di Prince of Persia sono apparse piano piano proprio sul sito di Mechner, che poi, l'anno scorso, ha deciso di assemblarle in un libro, pubblicato prima sotto forma di eBook e poi pure in formato cartaceo. Un libro pubblicato bene o male così com'era, senza i tagli e le modifiche che magari, rileggendo, avrebbe voluto fare. Un libro che racconta di come un giovane sognatore, col cuore diviso fra videogiochi e cinema, sia riuscito testardamente a portare avanti i suoi progetti e a creare qualcosa che ancora oggi se ne sta ben scolpito nel cuore di tante, tantissime persone.

I diari di Jordan Mechner sono affascinanti non solo perché raccontano diversi piccoli retroscena, svelano la nascita di tante scelte, spiegano quanto Giordanino bello sia stato o non stato realmente coinvolto nelle conversioni, nel seguito, nelle mille forme che il Principe ha mostrato in quegli anni. Lo sono anche perché rappresentano una finestra sulla persona e per quegli istanti di totale umanità che emergono fra le righe. Lo shock per una morte improvvisa di un amico, l'orgoglio di fronte al successo per una propria creatura, il piacere di incontrare qualcuno che ti rispetta e ama il tuo lavoro, il terrore per il fallimento, il coraggio di scommettere tutto, l'ansia da prestazione, perché no. E la voglia di leggere il diario sulla lavorazione di The Last Express, il bellissimo "train game" le cui fasi di concepimento vengono sfiorate nella parte finale del libro. The Making of Prince of Persia - Journals 1985/1993, nella sua sconclusionatezza e nonostante qualche passaggio, inevitabilmente, sia meno interessante di altri, è una lettura piacevolissima non solo per chi ama quel videogioco, non solo per chi ama il videogioco, ma un po' per tutti (compreso chi magari è incuriosito da qualche retroscena hollywoodiano). Tanto costa poco e va via in un attimo.

Io l'ho letto in edizione Kindle, ma come detto c'è anche la versione cartacea. È però per forza tutto in inglese, sia chiaro.

21.11.12

Paranormal Activity 2 in tedesco


L'altro giorno ero qua a casa con due visitatori oscuri dall'Italia (noti anche come Il Dottore e Il Cobra, pensa te). Eran venuti qui per il weekend e la loro adorabile visita si avvicinava alla conclusione, in quel tardo orario della domenica sera prima di una comoda partenza in treno al lunedì mattina. Eravamo lì, con del saporito arrosto (preparato nella miracolosa pentola Fogacci ricevuta fra i doni di matrimonio) nello stomaco, reduci da un paio di partitine a PES 2013 (FIFA 13 non ce l'ho, capita), con gli sguardi posati sulla TV. E ci siamo dati allo zapping sulla televisione pubblica tedesca via cavo, dove tutti parlano tedesco, tutto è scritto in tedesco e non ci sono sottotitoli in altre lingue. Perché da Sky mi sono disintossicato.

Orbene, mentre pigiavo furiosamente sul telecomando, sono capitato su un canale che trasmetteva Paranormal Activity 2, chiaramente in tedesco. Io un Paranormal Activity non l'avevo mai visto e, degli altri due presenti, solo uno aveva visto il primo episodio. E quindi abbiamo deciso di rimanere lì a guardare e divertirci un po' sfidandoci nell'enigmistica. Premessa doverosa per chi non dovesse sapere di che si parla, anche se è una saga di cui esce adesso in Italia il quarto episodio: sono film in cui i protagonisti stanno in una casa infestata da un fantasma e finiscono molto male. Il tutto viene raccontato tramite delle riprese "diegetiche", che nel caso specifico di questo episodio si alternano fra il sistema di videocamere di sicurezza della casa e, quando serve, le videocamere portatili dei protagonisti.

I dialoghi, chiaramente, ci risultavano incomprensibili, al di là di qualche parola, ma tanto cosa vuoi che si dicano, si capisce sempre il senso dai gesti (e dal labiale degli attori americani!). Ma il divertimento non stava mica nella storia, e neanche negli spaventi, che probabilmente, se il film te lo guardi da solo, sono anche riusciti. Il fatto è che un buon 80% della faccenda è costituito, ovviamente, da inquadrature fisse. Sempre le stesse, riproposte ogni giorno e ogni notte. Inquadrature piene di roba, di oggetti, soprammobili e mille cose che da un momento all'altro possono aprirsi, chiudersi, accendersi, spegnersi, muoversi e ballare la giga. E infatti noi ci siamo divertiti a scrutare ogni angolo dello schermo - un 50 pollici aiuta - e fare ipotesi. "Secondo me adesso si apre quello sportello", "Guarda quel robo, qualsiasi cosa sia, è evidente che adesso si metterà a ruotare su se stesso", "Il cane sta per morire", "La porta in cantina", "Il primo gol lo segna Ibrahimovic" e cose del genere. Una pacchia davvero divertente, che fa schizzare via il film in un attimo, nonostante su 'sta TV tedesca facciano davvero un sacco di pubblicità. E probabilmente è anche un ottimo modo per guardarsi un Paranormal Activity all'una di notte senza cacarsi sotto. O per guardare un film in tedesco senza che venga voglia di uccidersi filmando il tutto con una videocamera.

Fra l'altro, il giorno dopo abbiamo curiosato su Wikipedia e ci siamo resi conto che, nonostante il tedesco, avevamo capito bene o male tutto, tranne il rapporto "temporale" fra primo e secondo film, con tutto il suo contorto casino di prequel/sequel. E, lo ammetto, sarà che c'ho la malattia per la continuity, sarà che ricordo che del terzo episodio se ne parlava bene, sarà quel che sarà, m'è venuta un po' voglia di mettermi lì a guardare tutta la serie. Lo faccio?

Intanto, a proposito di cose che fanno paura alla gente, mi scarico la demo di DmC.

20.11.12

The Walking Dead 03X06: "La preda"


The Walking Dead 03X06: "Hounded" (USA, 2012)
con le mani in pasta di Glen Mazzara e Robert Kirkman 
episodio diretto da Daniel Attias
con Andrew Lincoln, Michael Rooker, Norman Reedus, Lauren Cohan, Steven Yeun, Laurie Holden, Danai Gurira, David Morrissey

Ecco, il bello di aver letto il fumetto da cui è tratto The Walking Dead sta anche in finali come quello di quest'episodio. In altri casi, magari, anche se riescono spesso a prenderti in giro con modifiche, rivoluzioni, tragedie di un personaggio applicate a un altro e via di questo passo, sotto molti aspetti ti perdi comunque il gusto della rivelazione. Che so, penso a certe brutture di carattere di quel simpaticone del Governatore. In altri, però, c'è veramente da farsi venire una sincope. Ché a vedere come si stava risolvendo la gita in farmacia m'è presa l'ansia, pensando a quel che accade nella simpatica Woodbury a fumetti e tremando per un personaggio in particolare. Si nota, che sto girando attorno alla faccenda perché non mi va di fare spoiler? Comunque, bel finale, crescendo, ansia e poi finalmente il bell'incontro al cancello.

Per il resto, La preda, oltre ad avere un titolo italiano che francamente questa volta, dai, è quasi preciso, è un episodio un po' di traverso, che muove le pedine sulla scacchiera, affronta conseguenze e prepara eventi futuri. Ma che lo fa mettendo in mostra questo Merle freak infame che pare essere pensato per scusarsi del fatto che han voluto dare un tono al personaggio del Governatore. E che in fondo a me piace, anche se il sessantenne che agita lama e pistola sbiascicando fa un po' ridere. Ma soprattutto si mette in mostra Michonne, sempre più intenta a fare cose con il suo broncio da ninja incazzata del ghetto.

E poi tante altre cose, dalla faccenda del telefono molto ben rielaborata rispetto al fumetto ad Andrea che prosegue nella sua evoluzione di personaggio talmente apprezzabile che tutti vorrebbero vedere morto e sperano cambino la trama per far capitare a lei tutte le tragedie viste negli ultimi quaranta numeri del fumetto. Di sicuro, i momenti più impacciati dell'episodio sono quelli che la riguardano, anche se poi finiscono spesso per generare qualche trovata azzeccata. Perché in fondo, questo Governatore che manipola, chiude il quaderno coi trattini, seduce parlando di calci rotanti agli zombi, poi va fuori in vestaglia e pianifica le prossime porcherie, quindi torna dentro a fare il ciccipucci, è prevedibile, sì, ma sempre molto ben tratteggiato nel dare vita a una figura subdola, infame e interessante. E spoiler, ops.

E nel frattempo mancano due puntate alla pausa invernale e alle lacrime di sofferenza per la lunga astinenza. Ed è sempre più evidente che quella puntata là, con quel titolo là, sarà quella in cui cominceranno a volare le pizze, anche se dubito che sarà risolutiva come quella "equivalente" del fumetto.

19.11.12

Rurouni Kenshin


Rurouni Kenshin: Meiji kenkaku roman tan (Giappone, 2012)
di Keishi Ohtomo
con Takeru Sato, Yû Aoi, Emi Takei, Teruyuki Kagawa

Credo sia la prima volta che mi capita di guardare un film "live action" basato su un manga o un cartone animato, genere che mi sembra essere piuttosto diffuso in Giappone (ho però visto l'Ace Attorney di Takashi Miike, basato su un videogioco ma realizzato con spirito molto simile). Chiaramente non ne ho mai visti perché quei film faticano ad arrivare in Occidente e il motivo penso sia abbastanza chiaro: mentre i film-fumetto occidentali provano a limare gli aspetti più bizzarri delle opere originali, puntando sull'approccio realistico, smorzandone l'assurdità con un taglio comico e, in sostanza, anche nei casi più "variopinti" come quelli delle pellicole Marvel, adattando il tutto al gusto del grande pubblico nostrano, quelli giapponesi fanno l'esatto opposto. Abbracciano la totale follia estetica e di scrittura della fonte e la riproducono il meglio possibile su schermo, con tutte le assurdità che ne derivano. E che tutto sommato non vanno comunque distanti da un certo tipo di poetica che comunque si vede spesso al cinema in oriente, anche quando non si sta lavorando sull'adattamento di un fumetto per ragazzi.

O, insomma, questa è una lettura che do io. E del resto, quando a realizzare un film tratto da un manga ci si mettono di mezzo gli occidentali, tipicamente, o ci si ispira a opere dal taglio molto realistico (Crying Freeman) o si imbastardisce un po' tutto cercando di ridimensionare il ridicolo e finendo per tradire lo spirito dell'originale (Fist of the North Star, Guyver). E realizzando film osceni, ma quello è un altro discorso. Tant'è che, pur avendo visto questi, per la mia percezione, Rurouni Kenshin è il primo film di questo genere che guardo. Insomma, detto che son curioso di vedere cosa combinerà il mio amico del cuore James Gunn con una roba totalmente senza senso come il film dei Guardiani della galassia, si tratta proprio di due universi parecchio distanti. Basta mettere a confronto come si approccia negli iuessei un film basato sui Transformers e cosa viene fuori quando i giapponesi decidono di portare sul grande schermo Yattaman.

In Guillermo Del Toro we trust.

OK, basta divagare: Rurouni Kenshin racconta di un samurai-assassino particolarmente ganzo e violento che, dopo aver dato il suo contributo al crollo dello shogunato Tokugawa e all'avvio dell'era Meiji, decide di abbandonare la via della violenza, darsi al vagabondaggio e dedicarsi ad aiutare il prossimo suo. Chiaramente accadono cose e si finisce di nuovo a combattere, anche se sempre evitando di uccidere. L'ambientazione storica è gustosa, guardacaso simile a quella di Tai Chi Zero, con la società occidentale che piano piano si fa strada fra le maglie del Giappone, e in questo contesto si sviluppa una storia stra-classica, con la cittadina che patisce le angherie del riccone di turno, le forze dell'ordine con le mani legate e lo straniero vagabondo che arriva a salvare la povera gente. Non so dire quanto tutto questo sia fedele all'opera originale, perché non ho mai visto il cartone animato e del fumetto ho letto solo i primi numeri  pubblicati da Star Comics (Kenshin Samurai vagabondo), ma la storiellina è semplice e funziona.

Certo, bisogna entrare nell'ordine di idee per cui l'eroe della situazione è un ragazzino giapponese con l'aria effeminata, il capello rossiccio, una ridicola cicatrice in faccia e che dimostra molti meno anni di quanti dichiarati dal personaggio. E bisogna saper assimilare l'atmosfera sopra le righe, il continuo passare dal melodramma più spinto alla comicità più demenziale, i personaggi usciti direttamente da un fumetto per caratterizzazione estetica e atteggiamenti... insomma, tutte quelle cose che non ci si aspetta di veder funzionare al cinema. Ci son tante belle immagini, le scene d'azione sono convincenti e c'è quell'atmosfera tutta stupidina e leggiadra da film giapponese per ragazzi. Per una seratina placida, va più che bene.

E questo era l'ultimo dei cinque film visti all'Asia Filmfest. Leggo in giro che forse lo distribuiscono fuori dal Giappone. Vai a sapere.

18.11.12

Outspam a puntate - Prima parte


Questa settimana abbiamo pubblicato la prima parte del ventunesimo episodio di Outcast Magazine. Sì, la prima parte, perché a un certo punto ci siamo resi conto che stavamo registrando da oltre due ore ed eravamo arrivati appena a metà scaletta, quindi ho deciso di interrompere, uscire così e la seconda parte la registriamo domani.

Quindi, qua trovate Puffetti Rosa e mezzo Ci sta piacendoci, la prossima settimana arrivano il resto del Ci sta piacendoci e le altre rubriche. Non ci trovate Borderlands 2, anche se sta scritto in copertina, perché il maledetto Fotone ogni volta mi distrae con qualche errore di battitura che gli faccio correggere e così non mi accorgo che ci ha infilato la minchiata grossa. E quando dico "qua", intendo "a questo indirizzo qua".


Inoltre, oggi abbiamo pubblicato il nuovo Outcast Sound Sitter, il nostro podcast a base di musica videoludica, con Fabio "Kenobit" Bortolotti che, in contumacia Babich, continua ad ospitare le più grandi personalità del pianeta. Questa volta tocca a Ugo "Surgo" Laviano. Trovate il tutto a questo indirizzo qua.

Outing pure qua: ho prenotato il Wii U. Trattasi della seconda volta in vita mia (l'altra fu per il Megadrive giapponese) in cui compro una console al lancio. Anche se in effetti posso ancora cambiare idea, visto che non mi han fatto lasciar giù neanche un euro.

17.11.12

Oz, grande, potente, uhm


Allora, l'altro giorno è uscito il trailer di Oz: The Great and Powerful, che in Italia si intitolerà Il grande e potente Oz e che in pratica fa da prequel a Il mago di Oz. Ora, per me, Il mago di Oz, non è un vecchio e adorabile film con le canzoncine e non è nemmeno un libro. Cioè, li conosco, eh, ma per me, Il mago di Oz, è una versione a fumetti che da piccolo leggevo e rileggevo, mi piaceva da matti e mi faceva cacare sotto dalla paura. C'avevo un terrore folle della strega dell'Ovest, che in quei disegni era davvero brutta e inquietante. Per me, Oz, è quella lì, con quei colori lì e quei disegni lì. Che fra l'altro ho ancora qua, in un bel volume rilegato (ma la sovracopertina è andata perduta, uffa!). Un volume Rizzoli, che raccoglieva una storia, se l'internet non mente, pubblicata in origine sul Corriere dei piccoli, sceneggiata da Anna Brandoli e disegnata da Renato Queirolo. Che chiaramente all'epoca non sapevo chi fossero, e in effetti anche adesso non è che li conosca bene, anche se del secondo ho letto molte storie su albi Bonelli. E basta, niente, era così per divagare e introdurre il trailer del nuovo film di Sam Raimi.



Ora, a me Sam Raimi sta molto simpatico. Ho visto tutti i suoi film, penso che molti siano davvero tanto belli, ritengo non ce ne sia neanche uno davvero brutto brutto, anche se chiaramente diversi non gli sono venuti proprio benissimo, e, insomma, simpatia. Qua dentro, se interessa, ho scritto solo dei tre Spider-Man e di Drag Me to Hell. E consiglio fra l'altro la lettura di The Evil Dead Companion e di If Chins Could Kill!, bella roba. Insomma, tutta la fiducia possibile, contando anche che James Franco mi sta simpatico e Rachel Weisz, Michelle Williams e Mila Kunis buttale. Però, oh, a guardare questo trailer, non riesco a non farmi venire in mente l'Alice in Wonderland di Tim Burton. E mi rabbuio davvero tanto. No, dico:



Ma io voglio crederci. Sicuramente più di quanto voglio credere in uno che prende un libro da trecento pagine e lo fa diventare due tre film da probabilmente due ore e mezza l'uno. E il cui King Kong fra l'altro m'è pure piaciuto, ma quella cosa che ha fatto dopo con la morta volevo morire io. No, dai, evviva Oz!

16.11.12

Tai Chi Zero


Tai Chi 0 (Cina, 2012)
di Stephen Fung
con Yuan Xiaochao, Angelababy, Tony Leung Ka Fai, Eddie Peng

Girato assieme alla seconda parte, Tai Chi Hero, che nel frattempo in Cina è pure uscita al cinema e non mi spiacerebbe guardare, dato che qua si rimane appesi col cliffhanger, Tai Chi Zero è un filmetto d'azione stupidino, simpatico e divertente, con quel taglio tutto orientale che sembra uscito per direttissima da un cartone animato. I personaggi sono sopra le righe, le situazioni sono assurde, c'è una punta di melodramma - con anche un paio di svolte in effetti abbastanza cupe - ma è sempre tutto smorzato da una comicità che spazia fra lo slapstick, la battutina innocente e la demenza pura. E in più si ammicca anche spesso allo spettatore, coi vari personaggi introdotti con sovrimpressione che ne illustra anche l'interprete. Tipo che quando esordisce il protagonista Yuan Xiaochao scopriamo che l'attore è stato campione pseudo-olimpico di wushu nel 2008, sul cameo di Andrew Lau ci specificano "regista di Infernal Affairs", un altro tizio che non ricordo viene segnalato come star dei film di kung fu degli anni Settanta e così via.

Ma, buffonate a parte, com'è il film? Eh, se levi le buffonate, non rimane moltissimo, ma può bastare. La storia è ambientata in un periodo affascinante, quello in cui la Cina stava subendo l'invasione da parte della cultura e della tecnologia occidentale, e ci ricama su per mettere in piedi un bizzarro scenario dai tratti steampunk. Chiaramente, il tutto si inserisce in situazioni da classico fantasy orientale, con un bel ripieno di arti marziali e un protagonista il cui bizzarro cornetto gli regala una potenza incredibile ma lo sta anche conducendo alla morte. L'eroe decide allora di recarsi in un villaggio fra i monti per imparare una particolare tipologia di kung fu, che dovrebbe aiutarlo a convogliare meglio la sua energia interiore e, sostanzialmente, salvargli la vita. Ma qui scopre che per tradizione non si insegna il kung fu ai forestieri e che tutti gli abitanti del villaggio, ma proprio tutti tutti, sono fortissimi e lo prendono a pizze in faccia come niente.

La bimbetta viene presentata come prodigio del wushu, o qualcosa del genere. E tira le pizze.

E da lì parte tutta una storia di amore, amicizia, redenzione, crescita umana e personale, Tony Leung con la barba che fa il vecchio maestro, macchine a vapore che esplodono, salti e piroette. Un filmetto gradevole, molto molto molto curato sul piano visivo, con un bel ritmo, un'atmosfera tutta simpatica e leggerina. Non c'è moltissima azione, in realtà, ma è sempre gran bella da osservare, come del resto è lecito attendersi quando a curarla c'è Sammo Hung. E insomma, niente di clamoroso, ma è uno spettacolo piacevole e che scorre via, anche se sul finale girano un po' i maroni. OK, lo sapevo. OK, l'arco narrativo si conclude. Ma su diverse cose si rimane davvero appesi, senza contare che uno vorrebbe anche poi vederlo davvero in azione, il protagonista, armato del kung fu paesano. Ma, per quello, tocca aspettare Tai Chi Hero.

Il film l'ho visto qua a Monaco, all'Asia Filmfest, in lingua originale e con sottotitoli in inglese. In Italia c'è passato tramite il Festival di Venezia, ma non tratterrei il fiato in attesa di una distribuzione al cinema. È comunque uscito negli USA e in Australia, quindi non penso sarà un problema recuperarlo in DVD o per altri mezzi. Ah, come insegna la locandina là sopra, viene proiettato in 3D e perfino in IMAX. Io l'ho visto in normalissimo 2D e andava bene così.

15.11.12

Headshot


Headshot (Thailandia, 2011)
di Pen-Ek Ratanaruang
con Nopachai Chaiyanam, Sirin Horwang and Chanokporn Sayoungkul

Non conosco neanche per sbaglio lo stato del cinema tailandese, quindi non so se e quanto Headshot ne sia rappresentativo. Quello che so è che Headshot è un film con un paio di idee simpaticamente bizzarre e un protagonista abbastanza bravo, ma circondato da cani e diretto da un regista che insomma. Mi immagino questo stesso film messo in mano a un coreano di quelli cazzuti e mi scaldo tutto. E invece, quel che si vede in Headshot è una roba fatta da gente che ci crede tanto ma proprio non ce la fa. Sembra di guardare un film di quelli fatti per divertimento da ragazzini, con la videocamera regalata da mammà, la recitazione a caso e tanta voglia di provarci fino in fondo. Con più azione nella locandina qua sopra che in tutti i 105 minuti di film. E con il Jim Caviezel thailandese come protagonista.

Il film si apre con un killer professionista, il nostro Jim Caviezel thailandese, che si becca una pistolettata in faccia durante una missione, mentre è travestito da Agente 47 travestito da monaco. Da lì in poi, la storia si sviluppa su due binari paralleli, che raccontano presente e passato. Da un lato vediamo il nostro antieroe che si riprende dall'infortunio (si fa per dire: a causa della ferita, ora vede tutto capovolto) e cerca di ritirarsi a vita privata da monaco, per scoprire che ovviamente il passato tornerà a spaccargli i maroni. Dall'altro, ci viene raccontato come abbia fatto a trasformarsi dal poliziotto più incorruttibile di Bangkok al killer più ganzo del quartiere. E la spiegazione è molto semplice: è un cretino.

Il Jim Caviezel thailandese protegge la sua bella.

Perché poi, la sostanza di Headshot non è altro che il classico racconto noir in cui il protagonista crede di essere un fico, ci viene dipinto come tale, ma pian piano scopre di non essere altro che una marionetta completamente in balia delle femme più o meno fatale di turno e, già che ci siamo, pure dei diabolici piani di chi lo manipola dall'alto. Praticamente ogni cosa accaduta in vita al nostro amico Jim Caviezel thailandese è stata in qualche modo organizzata da qualcuno, e Jim se ne accorge sempre troppo tardi. Il problema è che tutto questo viene raccontato in una maniera un po' ridicola, con un film fatto di silenzi contemplativi, grandi melodrammi e dialoghi che vorrebbero essere ganzi ma non ce la fanno (ma diamogli pure il beneficio del dubbio del sottotitolo che non rende). E insomma, alla fine ti rimangono in mano solo le buone intenzioni, innegabili, una bella scena d'azione finale al buio (troppo poco e troppo tardi) e un pugno di mosche.

Il film l'ho visto qua a Monaco all'Asia Filmfest. Vedo che sta uscendo un po' in giro per il mondo, ma dubito arriverà in Italia. Non che valga la pena di aspettarlo.

14.11.12

A Simple Life

Tao jie (Cina, 2011)
di Ann Hui
con Andy Lau, Deannie Yip

A Simple Life è un film semplice, che non racconta nulla di complesso, e proprio in questa sua umana normalità trova la propria forza. C'è Roger, interpretato da Andy Lau, che lavora nel mondo del cinema, conduce una vita solitaria e dà ancora lavoro ad Ah Tao, interpretata dalla strepitosa Deannie Yip, che si è sempre occupata di lui, fin da piccolo. Era la sua tata, la governante di casa, probabilmente la sua migliore amica. All'improvviso questa donna subisce un ictus, ne esce fisicamente debilitata e non più in grado di fare il proprio lavoro. Umiliata e priva di scopo, sceglie di andare a vivere in una casa di riposo. Ma Roger non la abbandona, continua a visitarla, ad essere suo amico, a pagarne le cure e a vivere fino in fondo il rapporto di amicizia, rispetto e gratitudine che li lega. Tutto qui.

Ebbene, A Simple Life è uno fra i più bei film che ho visto quest'anno, forse il più bello punto e basta. È una storia raccontata con eleganza, delicatezza, umorismo, gusto, che attanaglia dall'inizio alla fine senza scivolare nel melodrammone strappalacrime, raccontando invece la tenera vicinanza fra due persone e la comune normalità della loro vita, il modo in cui questa donna ha saputo toccare oltre a Roger un'intera famiglia e chiunque le gravitasse attorno. Deannie Yip, premiata a Venezia con la Coppa Volpi, è fantastica e naturalissima in un ruolo tutt'altro che semplice. Mostra affetto, sofferenza, gioia, senso di inadeguatezza nel ritrovarsi all'improvviso dall'altro lato della barricata, ad avere bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei dopo essersi presa cura degli altri per tutta la vita. E guardarla fa male al cuore.

A Simple Life è un film meraviglioso, che non punta sulla tragedia insistente dell'anziano abbandonato in un luogo squallido, del degrado, del senso di colpa, e riesce invece a commuovere con una risata, per esempio in quella bellissima conversazione al parco o in quella fantastica telefonata di gruppo con gli amici. Sorprende proprio nel suo non cercare l'effetto sorpresa ed è davvero di una bellezza incredibile, talmente ben confezionato da non far minimamente stonare le brevi apparizioni di Tsui Hark, Sammo Hung, Anthony Wong e altri. Son tutti bravi, ci stanno tutti bene.

In Italia è uscito a marzo, sull'onda lunga del passaggio al Festival di Venezia, quindi non ci sono proprio scuse: cercatelo e guardatevelo. Io invece l'ho visto qua a Monaco, all'Asia Filmfest, in cinese sottotitolato in inglese. Piangevano tutti come fontane. Son bei momenti. 

13.11.12

The Walking Dead 03X05: "Basta una parola"



The Walking Dead 03X05: "Say the Word" (USA, 2012)
con le mani in pasta di Glen Mazzara e Robert Kirkman 
episodio diretto da Gregory Nicotero
con Andrew Lincoln, Norman Reedus, Lauren Cohan, Steven Yeun, Laurie Holden, Danai Gurira, David Morrissey, Michael Rooker

A me, pur con alti e bassi, sono fondamentalmente piaciute anche le prime due stagioni di The Walking Dead, ma, parliamoci chiaro, la qualità costante di questa terza annata è francamente difficile da contestare e, se non piace a questo punto, meglio lasciar definitivamente perdere, più che altro perché la direzione mi sembra ormai nettamente presa. Ed è una direzione che riesce a mescolare in maniera mirabile ritmo, azione, orrore, dramma, angoscia e cura per i personaggi. Oltre a quel sempre divertente giocherellare con l'aspettativa di chi ha letto i fumetti e si aspetta questa o quella cosa. Per dire, c'era chi pensava che no, quella roba lì del governatore non si sarebbe vista, e invece, BAM, subito in apertura del quinto episodio. E poi via con quell'altra simpatica attività che tiene banco nelle serate di gala a Woodbury e, in generale, con una caratterizzazione del luogo e del suo capo, incredibile ma vero, perfino più efficace che nei fumetti.

Lì, si trattava di un cattivo brutalmente infido fin dall'apparenza, e di fondo la cosa valeva pure per la sua cittadina. Qua c'è quell'aspetto di normalità, quel fare subdolo e, soprattutto, l'impressione che, di fondo, alla sua maschera da bravo guaglione, il caro Governatore bene o male ci creda. Solo che poi, sotto, è uno che fa tutte quelle cose brutte e brutali che gli stiamo vedendo fare e che disegna i trattini sul quaderno dopo aver riposto quella cosa là sopra nello sgabuzzino. Ed è David Morrissey, grande, grosso, fascinoso e proprio bravo. Alla fine, se vogliamo, in questa sua caratterizzazione inquietante, ci sta anche che Andrea si faccia abbindolare, pure se, insomma, due volte di fila, essù, eddai, ecc'haiproprio la fame per gli uomini autoritari.

Attorno a questo bellissimo Governatore, poi, vediamo una Michonne che prosegue ottimamente sulla strada intrapresa la scorsa settimana (fare cose) e, nel frattempo, alla prigione succedono piccole, ma bellissime storie. Da Glenn che ci spiega che, quando non lo vedevamo, T-Dog ne faceva di tutti i colori a Daryl che ricorda a tutti di essere un gran ganzo gestendo ogni faccenda possibile in contumacia Rick e mostrando anche un ripieno da caldo orsetto del cuore nel finale. E poi Rick, che davvero in questa stagione è sempre più uno spettacolo, completamente in preda al dolore e all'ansia, incapace di pronunciare una singola parola per tutto l'episodio, ridotto lui stesso quasi ad essere uno zombi. E l'unica cosa che dice, nel finale, è di quelle che lasciano il segno. Oltre ad essere un'altra introduzione dal fumetto che magari non t'aspetteresti di vedere, perché è sempre un po' su quel limite del ridicolo, e invece, guarda, magari funziona. Insomma, wow.

E adesso fuggo al cinema a guardarmi Argo. Ché c'ho la fotta.

12.11.12

Jiro e l'arte del sushi


Jiro Dreams of Sushi (USA, 2011)
di David Gelb
con Jiro Ono, Yoshikazu Ono

Jiro Ono è l'ultraottantenne titolare di Sukiyabashi Jiro, il primo ristorante di sushi capace di ottenere la certificazione delle tre stelle sulla guida Michelin. Fuggito da casa da giovanissimo per gettarsi nel mondo della ristorazione, Jiro è diventato un maestro nella preparazione del sushi e da settant'anni vive per il proprio lavoro. In questo piccolo locale da dieci posti, ancora oggi è lui la "faccia" che ogni giorno serve i clienti con un servizio personalizzato. Con lui lavorano degli apprendisti e il figlio Yoshikazu Ono, destinato ad ereditare il locale, mentre il figlio minore ha scelto di aprire un ristorante altrettanto minore ("solo" due stelle!) in quel di Roppongi Hills. Jiro Dreams of Sushi racconta la storia di Jiro, la sua filosofia di vita, la gestione del ristorante, il rapporto con i figli e, in generale, finisce chiaramente per parlare anche di sushi.

Si tratta di un documentario da un'ora e mezza scarsa, che mostra un uomo anziano, simpatico e scorbutico, la cui unica ragione di vita è il proprio lavoro. È sempre presente al ristorante e, soprattutto, il ristorante è sempre aperto. Capita magari che lui si debba assentare brevemente, per un funerale o per il proprio ricovero in ospedale, ma poi torna e ricomincia a macinare sushi. I giorni di ferie sono tempo sprecato, l'unico obiettivo è diventare sempre migliore nel proprio lavoro, essere impeccabile, dare tutto. Perché nella vita bisogna trovare un lavoro che si ama e renderlo la propria vita, dargli tutto per riuscire al meglio.

E infatti, oltre che per il modo in cui mostra certi aspetti nella lavorazione del sushi, oltre che per la gran fame che fa venire, oltre che per il ricordare a tutti che il pesce viene ammazzato, e spesso in maniera neanche troppo delicata, l'aspetto interessante di Jiro Dreams of Sushi sta nel ritratto che dipinge di un uomo vivo solo in funzione del proprio lavoro. Presumibilmente Jiro è anche piuttosto ricco, considerando quanto costa un pasto nel suo locale (300 dollari, per capirci, e bisogna prenotare mesi prima), ma non dà l'impressione di godersi il denaro, o in generale la vita al di fuori del lavoro. Non ha interessi, passioni o attività che vadano oltre il sushi. Ha una famiglia, ma i suoi due figli vengono raccontati quasi solo in funzione del rapporto col lavoro del padre. E della moglie non si sa praticamente nulla. Insomma, Jiro sogna il sushi.

Questo è il primo dei cinque film che ho visto qua a Monaco all'Asia Filmfest. Non mi risulta sia mai uscito in Italia, correggetemi se sbaglio.

11.11.12

Spam della critica che se la tira


Questa settimana abbiamo pubblicato, con calma e sangue freddo, l'episodio numero 21 di Outcast: Chiacchiere Borderline, il podcast in cui si parla a vanvera di notizie, rosicate, cose varie e Kevin Butler. Lo trovate a questo indirizzo qua. Inoltre, a questo indirizzo qui, trovate il filmato registrato durante la tavola rotonda sulla critica indipendente che si è tenuta al WOW Spazio Fumetto di Milano due o tre settimane fa. L'evento è stato organizzato da Andrea Peduzzi, io ero presente in fluttuante forma virtuale da Monaco e c'era tanta altra bella gente che chiacchierava. L'audio fa un po' pietà, ma, ehi, non si può mica avere tutto.

E domani registriamo il nuovo Outcast Magazine. In scaletta ci sono, al momento, diciassette giochi, più un argomento extra che da solo si meriterebbe un podcast a parte. Se non pacca nessuno e non ci diamo una moderata, viene fuori un podcast da quattro ore.

10.11.12

Battlestar Galactica: Blood & Chrome #1/2


Battlestar Galactica: Blood & Chrome #1/2 (USA, 2012)
creato da David Eick e Michael Taylor
diretto da Jonas Pate
con Luke Pasqualino, Ben Cotton, Lili Bordán

Il tonno qua sopra si chiama Luke Pasqualino e interpreta il giovane cacazibetto William Adama in Battlestar Galactica: Blood & Chrome, una serie per il web suddivisa in dieci episodi da una dozzina scarsa di minuti l'uno, che ha avviato ieri le "trasmissioni" su Machinima Prime. A febbraio, poi, il tutto sarà trasmesso su SyFy sotto forma di lungometraggio, e forse è questo il motivo per cui mi dicono che su YouTube gli episodi non si possono guardare dall'Italia: magari qualcuno c'ha i diritti per la trasmissione televisiva e, siccome lo Stivale è un paese che guarda sempre al futuro, ha deciso che faceva brutto lasciarli in chiaro sul Tubo. O magari no. Tanto chi vuole guardarli li guarda comunque, lo sappiamo. Dalla Germania nessun problema, per la cronaca.

Comunque, Blood & Chrome racconta dell'arrivo di Pasqualino Adama sulla Galactica e delle sue missioni da recluta. In questi primi due episodi scopriamo che il ragazzo era sostanzialmente il James T. Kirk della gestione Abrams, ma un po' più sudamericano, e vediamo subito entrare nel vivo il racconto, con un cliffhanger per la seconda puntata che fa venire una gran voglia. Il tutto è ambientato ai tempi della prima guerra fra umani e Cylon, quando questi ultimi erano ancora solo ferri da stiro ambulanti e non ci si immaginava che sarebbero diventati fotomodelle affamate di sesso con la spina dorsale che s'infiamma sull'orgasmo. Immagino l'idea sia di concedere uno sguardo su quell'epoca, che fino a oggi avevamo intravisto solo a pezzetti (a meno di voler tenere per buono il vecchio Battlestar Galactica degli anni Ottanta, cosa comunque impossibile perché cozzerebbero i peronaggi).

E com'è? Beh, per adesso pare proprio buono. Chiaramente i valori di produzione sono quelli che sono, ma c'è un discreto cavare il sangue dalle rape e tutto sommato non ci si può lamentare. I momenti in cui si paga maggiormente dazio dal punto di vista estetico sono quelli ambientati negli hangar della Galactica, tutti virtualissimi, ma mi fanno venire in mente i filmati degli ultimi due Wing Commander che contano, quindi mi parte la nostalgia, mi viene voglia di afferrare il joystick ed è tutto bellissimo lo stesso. Per il resto, ci siamo, i due episodi filano via che è un piacere e confermano, la buona tradizione di Battlestar Galactica per quanto riguarda le serie per il web (il che non è poco, se consideriamo che, di solito, le operazioni simili legate a serie televisive tendono a far vomitare).

Bello anche il modo in cui si mischiano vecchio e nuovo con un bel gusto per la citazione e un solido tentativo di mantenere coerenza visiva. Dal punto di vista visivo, si segue chiaramente il modello del Galactica moderno, con zoom e sporcizia assortita, e lo stesso si  può dire dell'atmosfera tutta ruvida e un po' sessuale. In questo senso è molto azzeccato anche il tema della Galactica, che riarrangia quello storico degli anni Ottanta con lo stile tutto percussioni della serie moderna. Un po' patetica la trovata di censurare uno "shit" col rumore di una chiave inglese che casca per terra. A 'sto punto usate il solito "frak" e fine, no? Comunque, un buon inizio e sicuramente una miniserie da seguire per chi ha amato Battlestar Galactica.

Di Battlestar Galactica ho scritto più volte qua nel blog, ma non ho mai scritto della quarta stagione e mi sa che quel treno è ormai un po' perso. Anche se vai a sapere. Fra l'altro non ho mai guardato The Plan. Prima o poi lo farò. Tanto ce l'ho qua sullo scaffale, su.

Zombi come se piovessero


Allora, si è manifestato il trailer di World War Z, il film degli zombi con Brad Pitt ispirato al libro degli zombi che così com'era non si poteva proprio filmare e allora c'hanno costruito una storia che racconta la guerra suggerita da quel libro (che è bello, l'ho letto un po' di tempo fa, non ne ho mai scritto e pazienza). Il regista è Marc Forster, uno con una carriera che mostra grande versatilità (o schizofrenia), ma che secondo me è fondamentalmente molto bravo e c'ha un bello sguardo. Gli sceneggiatori, secondo IMDB, sono uno di cui non si accorgerà nessuno perché l'altro è Damon Lindelof e Damon Lindelof. E l'internet già vuole morire. 



Dai, è un bel trailer. Ci sono gli zombi, c'è l'idea degli zombi che s'ammassano tipo insetti che è bella, d'impatto, e poi ci sono gli zombi. Sul serio, da un film che racconta della guerra fra l'umanità e gli zombi, che trailer ti vuoi aspettare? Non può che essere un trailer pieno di zombi che prova a mostrarti un'idea che hanno avuto. Magari l'unica del film, vai a sapere. Poi, oh, a esser belli nel trailer son bravi (quasi) tutti, ma vediamo cosa viene fuori. Secondo me, nel migliore dei casi sarà bello, nel peggiore dei casi sarà mediocre ma con due o tre scene ganze e con un sacco di insulti su Twitter per Damon Lindelof, che comunque fanno sempre molto ridere. Considerando tutti i problemi di lavorazione di cui si legge in giro, direi che si tende più verso il peggiore dei casi. O magari fa schifo. Boh.

In teoria World War Z dovrebbe uscire un po' dappertutto a giugno dell'anno prossimo. In pratica, se continua così, con Brad Pitt e Marc Forster che si tengono il broncio, vai a sapere.

9.11.12

Ballata dell'odio e dell'amore al cinema!


Ieri è uscito al cinema in Italia, probabilmente in una manciatina di sale, Ballata dell'odio e dell'amore. O, se preferite, Balada Triste De Trompeta. Trattasi dell'ormai penultimo film di Alex de la Iglesia (il quale, fra l'altro, se IMDB non mente, sta già dirigendo altra roba), che per qualche motivo mi ero convinto fosse uscito al cinema l'anno scorso e a quanto pare invece no. Comunque, se potete, andate a guardarvelo, perché c'ha i suoi limiti ma merita. Io ne avevo scritto brevemente parlando della rassegna di Locarno e Venezia a Milano del 2010, a questo indirizzo qua, e un po' più approfonditamente poi nel numero 2 di Players (bisogna recuperarlo scartabellando a questo indirizzo qui).

Ma ieri è uscito anche Argo, il nuovo film di Ben Affleck, uno che una trasformazione del genere dallo scemo del villaggio a uno fra i registi più bravi e promettenti del momento non s'era davvero mai vista. Quel che penso delle sue due precedenti regie sta scritto qua e sempre nello stesso post della rassegna di Locarno e Venezia a Milano del 2010, quindi qua. Per Argo c'ho una discreta fotta e penso andrò a guardarmelo nei prossimi giorni, anche perché qua a Monaco, nei cinema che contano (ovvero in quelli che proiettano roba in lingua originale), sembra intenzionato a fare toccata e fuga. Eppoi sono uscite pure altre cose poco importanti, anche se Red Light, magari, un giorno, giusto per farmi quattro risate, me lo guardo.

Intanto si è concluso, qua a Monaco, l'Asia Filmfest. Sono riuscito a guardarmi solo cinque film. Già di base non erano tantissimi quelli in programma (diciannove), in più ho dovuto fare dura selezione, eliminando quelli che non avevano i sottotitoli in inglese - non so quale fosse il criterio in base a cui alcuni erano sottotitolati in tedesco e altri no, ma c'era - e quelli che mi sembravano poco promettenti, in nome del fatto che c'ho bisogno di dormire. Dovevano essere sei, ma, a proiezione di Pieta ben avviata, mi sono reso conto che i sottotitoli erano in tedesco, sono uscito, ho fatto amicizia con una coppia di inglesi simpatici ma un po' infastiditi perché erano venuti apposta da fuori città e mi sono fatto rimborsare il biglietto. Capita. Comunque, Jiro Dreams of Sushi, A Simple Life, Headshot, Tai chi Zero e Rurouni Kenshin. Mi sono piaciuti tutti tranne Headshot, spero di riuscire a scriverne. Buonanotte.

8.11.12

Skyfall


Skyfall (USA, 2012)
di Sam Mendes
con Daniel Craig, Javier Bardem, Judi Dench

Prima di andare al cinema per Skyfall, mi sono rivisto in sequenza i due precedenti Bond con Daniel Craig, trovandoli più o meno come me li ricordavo. Casino Royale rimane bello, anche se forse un po' invecchiato, sempre intrigante per il suo incentrare la scena clou su una partita a carte, sempre un po' insopportabile nel modo in cui usa Giancarlo Giannini per fare le didascalie al poker, sempre un po' posticcio e tirato per le lunghe in quella parte finale tutta romanza impacciata. Quantum Of Solace, anche, secondo me rimane bello e pure ingiustamente criticato. Certo, ha il limite di essere un po' troppo seguito diretto, con una storia che non va oltre il "James Bond è incazzato per i fatti del film precedente e spacca tutto", ma conserva bene quel taglio da Bond sì super-spia invincibile, ma comunque ancora rozzo/incazzato/realistico e lontano dagli eccessi camp di Roger Moore e degli ultimi Pierce Brosnan, ribadendo l'attenzione al lato umano del personaggio, inquadrato come eroe totalmente romantico. Eppoi ha un sacco di azione diretta e montata con una bravura micidiale e ha pure due o tre immagini di grande impatto, con tutta la sequenza all'opera, ma anche la fuga da M e altre sciccherie. Insomma, piacevolissimo.

Nel guardarli a stretto giro di tempo, ho avuto ancora più evidente l'impressione che il Bond di Craig stia subendo la stessa evoluzione applicata a suo tempo a quello di Brosnan, partito in un certo modo (non a caso con Martin Campbell alla regia) ed evolutosi poi sempre più verso l'azione esagerata, le battutacce ganze da super spia che non deve chiedere mai, i cattivoni bizzarri e sopra le righe, le situazioni assurde. E, beh, mi sembra che Skyfall prosegua serenissimo su questo cammino, anche se ha l'intelligenza di farlo in una maniera molto contestualizzata e ancorata allo sviluppo di storia, ambiente e personaggi, invece che imporre il tutto come semplice svolta "a prescindere". Questo nuovo episodio, infatti, ha proprio l'aria di un reboot anticipato, di un film che vuole chiudere anzitempo le nuove origini di Bond (dimenticandosi, e ci metto un purtroppo, le questioni lasciate aperte con Mr. White e i suoi amici) e trasformare il nostro amico col carisma da parcheggiatore nello 007 che tutti conosciamo. Il risultato è un film valido, con dialoghi brillanti (perlomeno in lingua originale), carico di omaggi al passato della saga, che mi ha piacevolmente divertito, ma non è riuscito a convincermi fino in fondo. Di sicuro non sono d'accordo con chi lo considera il migliore Bond di sempre e non l'ho apprezzato particolarmente più dei due precedenti (anzi!). Mi sembrava giusto dirlo subito, più che altro perché da qui in poi, non posso farne a meno, attacco con gli spoiler.

Il percorso narrativo è decisamente quello del reboot: si parte col James Bond rozzo e un po' stronzo a cui Daniel Craig ci ha abituati, super spia che può tutto, salta sui tetti, sfonda i treni e mantiene sempre il suo carisma cazzuto, e poi lo si ammazza. Quasi letteralmente. Bond quindi rinasce e torna in azione come bozzolo di quel che dovrà diventare: figura stanca e non più adeguata, che tenta le sue figate action e fatica a star loro dietro, mostra di non essere più al passo coi tempi e deve quindi cambiare. Ed ecco che allora piano piano si trasforma nella nostra amica figura monolitica, una sagoma, un simbolo, l'immarcescibile stereotipo del Bond tutto d'un pezzo, l'immagine popolare che in fondo noi tutti abbiamo di James Bond e che evidentemente si sentiva il bisogno di riportare in scena, perché il cacazibetto di periferia che se ne frega se il cocktail è agitato o mescolato era sorprendente e divertente la prima volta, ma alla seconda aveva evidentemente già stancato (non me, ma fa lo stesso).

E allora ritroviamo i dialoghi pensati solo in funzione di fare continuamente le BATTUTONE, che nei due precedenti film erano tenuti al minimo indispensabile e qui invece dominano ogni scambio e buttano al macero un po' tutta l'atmosfera cruda di questo Bond (anche se, ripeto, i dialoghi sono per lo più brillanti e divertenti). E allora ecco un cattivo di quelli che ci aspettiamo per James Bond, platinato, estroso, costantemente sopra le righe, interpretato da un Bardem spettacolare, bravissimo, che forse rappresenta la cosa migliore del film. E allora bum, via anche l'MI6 con una bella esplosione, ripartiamo da zero, facciamo la battutina sulla crisi e la scarsità di tecnologie, ma intanto rimettiamo in scena Q e, per sicurezza, tiriamo in ballo anche la cara, vecchia Aston Martin. E via anche la M di Judi Dench, uccisa lei per davvero alla sua settima apparizione, guarda caso proprio in una storia sostanzialmente molto simile a quella del suo primo Bond, con un ex 00 in cerca di vendetta. Via anche lei, torniamo agli M maschi, che qua serve la tradizione. E già che ci siamo riportiamo in scena anche Moneypenny, sai mai. Il tutto mentre Bond e il suo rivale, mano nella mano, abbattono a smitragliate ed esplosioni la casa di quando James era bambino, spazzando via il passato e i tratti umani del personaggio, restituendoci la macchietta rassicurante che desideriamo.

Ecco, alla fine Skyfall è sostanzialmente questo. Un Bond che cerca di unire fra loro tutte le varie anime del nuovo 007, traghettando lo sporco agente segreto di Daniel Craig dalla sua iniziale natura anti-classica a una nuova forma che ripeschi tutto ciò che rende grande la serie nell'immaginario collettivo, anche in nome dei festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario. Ci riesce? Probabilmente sì, perché il film funziona, è divertente e lo è per tutto ciò che, giustamente o meno, ci si aspetta da un James Bond, anche se poi, a conti fatti, va a parare in un finale abbastanza distante dalla tradizione. In tutto questo, Sam Mendes ci mette del suo e tira fuori un sacco di belle immagini, tutte giocate sul rimando alla tradizione e sul voler sottolineare con il suo tocco proprio l'interpretazione che si sta dando del personaggio. Alcuni momenti sono splendidi e non sono certo il primo a citare la scazzottata che omaggia i titoli di testa classici, ma nel complesso mi è sembrato tutto molto sterile. Un compitino ben fatto, ma con poca passione. Problema mio? Può essere, ma ho l'impressione che la fase calante stia di nuovo arrivando.

Ho visto il film qua a Monaco, in lingua originale, qualche giorno fa. Ascoltare 'sta gente che parla tutta brit è sempre una gioia e resto convinto che un James Bond doppiato sia un James Bond a cui è stato levato molto, per motivi fin troppo ovvi. Qua, poi, la cosa diventa ancora più forte alla luce dello stile con cui sono stati scritti i dialoghi, tutti battute secche, doppi sensi e grandi verità scolpite nel marmo. Prima della proiezione, il cinema se l'è abbaiata che è arrivato il proiettore 4K. Immagino sia una cosa positiva, però, boh, non so, a me l'immagine sembrava a tratti un po' finta/digitale/posticcia. Mi veniva in mente il mio caro vecchio monitor a tubo catodico da 24 pollici, che mi ha servito per dieci anni e ho abbandonato un paio di traslochi fa. Problema mio?

7.11.12

Le belve


Savages (USA, 2012)
di Oliver Stone
con Aaron Johnson, Taylor Kitsch, Blake Lively, Benicio Del Toro, Salma Hayek

Faccio sempre una gran fatica ad apprezzare i film che fanno un grande uso di voci narranti ed è assolutamente un problema personale e istintivo. Tendo a trovarle fuori posto e fastidiose. Certo, ragionandoci su, posso razionalizzare e pensare che sia una reazione figlia della natura visiva del cinema e del fatto che in fondo, se ti appoggi agli spiegoni e alla voce che racconta, forse è perché non hai trovato un modo per mostrarmi quelle stesse cose senza usare le didascalie. Forse. Però ci sono anche casi in cui la voce narrante funziona benissimo, fa quel che deve, crea il giusto tono e magari, addirittura, ha un senso preciso all'interno del film. Ecco, Savages è un po' uno di questi casi, perché l'intero film è raccontato attraverso la sexy bocca di Blake Lively, filtrato tramite il suo sguardo e potenzialmente in ampia parte da lei inventato di sana pianta. Cosa che mi rende il tutto ancora più insopportabile, perché insopportabile ho trovato lei, ma funziona perfettamente nel regalare al film un taglio tutto particolare e intrigante.

Perché poi, alla fin fine, la chiave di Savages sta proprio in questa visione da favola romantica e un po' bislacca applicata alla solita storia da western urbano a base di narcotraffico. Non c'è il tono epico e trascinante che sembra emergere dal trailer, c'è un racconto rosa un po' pop, che ogni tanto ti tira in faccia qualche eccesso di violenza, ma fa comunque sempre passare tutto attraverso la poetica tritamarroni di una che si chiama Ophelia, è innamorata di due narcotrafficanti che in fondo non vogliono fare male a nessuno, è indubbiamente mostruosamente arrapante e pensa che prima di scappare per nascondersi dai killer messicani incazzati sia il caso di andare allo shopping mall per raccattare quaranta sacchetti di vestiti e ammenicoli.

E cosa ne viene fuori? Ne viene fuori un film solido, gradevolissimo, convincente dall'inizio alla fine come da Oliver Stone non ci si aspetta più ormai da un pezzo, che serve svariati cliché ma riesce anche a negarne almeno un paio e ha un finale magari imperfetto, ma accattivante nella furbizia con cui anch'esso scappa dallo stereotipo pur abbracciandolo e nel frattempo ribadisce la natura stessa dell'intero racconto. Eppoi c'è quella bella, bella, bellissima scena del confronto fra John Travolta e Benicio Del Toro, che varrebbe da sola il film, se anche fosse inguardabile tutto quel che le sta attorno (e non lo è). Ma in generale tutti i momenti con Travolta sono uno spettacolo. Che bello, che è, John Travolta.

Ho visto Le belve, o Savages, o quel che vi pare, qua a Monaco, un paio di settimane fa, in lingua originale. Gli attori son tutti bravi e c'è un po' quel melting pot linguistico che si merita di essere ascoltato e non posso immaginare come sia stato reso in italiano. Ho passato tutto il film a chiedermi se l'Aaron Johnson che stavo osservando fosse lo stesso Aaron Johnson di Kick-Ass. Era lui. Roba da matti. Dalla regia mi chiedono di sottolineare che il manzo Taylor Kitsch non fa solo il manzo, ma è anche bravo e in parte. L'ho sottolineato.

6.11.12

The Walking Dead 03X04: "Dentro e fuori"


The Walking Dead 03X04: "Killer Within" (USA, 2012)
con le mani in pasta di Glen Mazzara e Robert Kirkman 
episodio diretto da Guy Ferland
con Andrew Lincoln, Sarah Wayne Callies, Chandler Riggs, Lauren Cohan, Laurie Holden, Danai Gurira, David Morrissey, Michael Rooker

E dopo tanto girarci attorno, siamo arrivati alla "normalità" di un racconto che, all'interno dello stesso episodio, salta da un lato all'altro della vicenda, mostrando in parallelo quel che accade alla prigione (e hai voglia, se ne accade) e i fatti di Woodbury, montando un'evoluzione che pian piano porterà inevitabilmente allo scontro. Scontro che, peraltro, già da un po' penso stiano preparando per l'episodio pre-pausa invernale, l'ottavo, previsto per il 2 dicembre. Poi vado a curiosare l'elenco dei titoli e leggo che quell'episodio si intitolerà Made to Suffer. A quel punto, per chi si ricorda i titoli del fumetto, diventa difficile non fare due più due. Ma sto divagando.

Killer Within è un grandissimo episodio (e c'ha perfino un titolo italiano che non spoilera, pazzesco), probabilmente fra i migliori di The Walking Dead tutto, ed è fra l'altro l'ennesima dichiarazione, da parte degli autori, che qua non si scherza più. Son lontani i tempi dei ritmi letargici affrontati un anno fa, qua capitano cose di continuo, cose importanti, forti, drammatiche, che t'aspetteresti di vedere avvenire ben più avanti, magari proprio in quell'ottavo episodio lì. E invece, ci troviamo per le mani due morti (pure tre, volendo, forse quattro ma non ci crede nessuno), entrambe ben gestite, entrambe buttate lì all'improvviso con quell'aria drammatica da "qua può succedere di tutto in qualsiasi momento". Da un lato va avanti lo sputtanamento umano di Andrea, comunque sfruttato per mostrare meglio i diversi volti di Merle e del Governatore, mentre finalmente Michonne inizia a fare qualcosa che non sia solo guardare tutti brutto, dall'altro, in prigione, ne succede di ogni. Nel giro di mezz'ora vediamo i due galeotti superstiti uscire un pochino dal bozzolo, fare qualcosa di buono e cominciare a entrare nel gruppo, vediamo un disastro di zombi da tutte le parti e vediamo tre morti e un disperso. Roba che ti viene quasi il timore che stavolta sarà la seconda metà di stagione, quella lenta, perché non avranno più nulla da raccontare.

E in ogni caso, ancora una volta, il momento conclusivo, quando si tira il fiato e si affrontano all'improvviso gli avvenimenti, è splendido, anche perché ben costruito sulla base degli episodi precedenti e di quel bello scambio di sguardi a inizio puntata. Non solo è eccellente quel che viene prima e come si consuma, ma poi, quella raggiunta consapevolezza, quegli sguardi, l'esplosione di dolore, mozzano il fiato. Poi magari uno ci legge pure troppo, ma io in quel piagnucolio, nel modo in cui Rick guarda Carl, ci ho letto tantissimo. Il dolore per tutto ciò che non è stato detto, i sensi di colpa, il non tollerare quel che suo figlio ha appena dovuto vivere, la consapevolezza che tutto è accaduto per un errore commesso dallo stesso Rick due episodi fa. Oltre che, ovviamente, il puro senso di perdita. Grande episodio, gran finale.

In questi giorni si sta svolgendo a Monaco l'Asia Filmfest e sto guardando un po' di film. Mi piacerebbe scriverne, come mi piacerebbe scrivere di Savages e Skyfall (spoiler: il primo mi è piaciuto, il secondo meno), ma lavoro, stanchezza, mal di testa, sbattimento. Un passo alla volta, vediamo.

 
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