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5.8.07

giopep in Japan - Ziburi & party

Già che in questo momento mi è tornata la voglia, mi faccio trascinare dall'entusiasmo e proseguo coi raccontini. Questo è il primo post della serie scritto interamente a grande distanza di tempo. Ma proprio grande, eh, l'ho partorito interamente in queste ultime due settimane. Probabilmente ci saranno meno dettagli che nei primi appuntamenti, ma vabbé, è inevitabile. In ogni caso, ho il supporto delle foto, delle guide e di altre piccole cosette accumulate durante il viaggio. E poi chissà, magari mi faccio davvero prendere dalla fregola e arrivo fino in fondo...

Tokyo, 26 dicembre 2006.
Si prospetta un'altra giornata impegnativa, ma parecchio interessante. In mattinata abbiamo la visita al museo dello Studio Ghibli, mentre nel pomeriggio dobbiamo incontrarci con Kazuhisa per una gitarella dalle parti del Monte Fuji. In serata, infine, c'è la cena di fine anno con lui e i suoi amici. Ci svegliamo quindi presto e ci dirigiamo verso la stazione, pronti a partire. Purtroppo il cielo è nuvoloso e la pioggia abbastanza insistente. Il nostro ombrellino cade a pezzi e stupidamente non abbiamo pensato di prenderne uno in albergo. Ci infiliamo così in un negozietto e in qualche modo, più che altro a gesti, riesco a fare capire a un simpatico vecchietto che cosa voglio comprare.

Il signore estrae l'ombrello standard bianco da giapponese medio, lo apre per farmi vedere che è tutto a posto e me lo consegna. Già che ci sono, preso da un impeto comunicativo, riprendo a gesticolare e riesco a fargli comprendere che, se possibile, gli lascerei il nostro scassatissimo ombrello da buttare. In qualche modo ci si capisce e il signore, gentilissimo, prende in consegna il catorcio e ci saluta. Si parte, quindi, in mezzo a una marea di ombrellini tutti uguali, diretti verso la stazione di Tokyo, pronti a zompare sul trenino.

Mitaka, sede del museo, è una prefettura poco fuori città e il viaggio è breve e, come al solito, confortevolissimo. Una volta balzati fuori dal treno, ci infiliamo al volo nello Starbucks della stazione per la solita, inevitabile e abbondante razione di zuccheri. Gestita la pratica, si esce dalla stazione seguendo le indicazioni per il museo che la tappezzano e, dopo esser rimasti a bocca aperta davanti a questo simpatico gattone, si impatta con il muro di pioggia che sta venendo giù. Le indicazioni per raggiungere il museo Ghibli cominciano fin dagli scalini dentro la stazione e conducono verso la fermata dell'autobus, ovviamente decorata a dovere (così come l'autobus, che però non ho fotografato). Un po' per la scoraggiante coda, un po' per curiosità, un po' perché sappiamo che comunque la strada è breve, decidiamo di andare a piedi.

La via verso il paradiso costeggia questa specie di fossato e ci vede percorrerla stretti stretti sotto un unico ombrello (ma comprarne due pareva brutto?), che ci copre a malapena. Eppure, nonostante la pioggia, nonostante i pantaloni zuppi, nonostante, insomma, la giornata potesse essere migliore, è tutto bellissimo e meravigliosissimo. E poi, quando stai passeggiando su un marciapiede come questo, come fai a non sorridere? A un certo punto ci facciamo incuriosire da un parchettino sulla destra e ci gironzoliamo dentro un minutino. Non siamo ancora arrivati al museo, eppure l'atmosfera già comincia a sembrare fumosa e sognante. Vien da chiedersi se la zona si sia ghiblizzata per la presenza del museo, o se il museo sia stato costruito qui perché non c'era luogo più adatto. Ma d'altra parte, ancora non abbiamo visto nulla.

Ebbene sì: svoltato l'angolo in fondo alla via che collega la stazione col museo, si attraversa la strada, si supera un cancello e ci si ritrova davanti questa roba che vedete in foto. Una bella insegna tutta arzigogolata, una costruzione che sembra davvero uscita da un episodio di Conan e un Totorone a far da bigliettaro. E si comincia a sorridere come deficenti, magari facendo caso ai batuffolosissimi Makkuro Kurosuke che ci osservano incuriositi attraverso quell'oblò in basso. Procediamo ridendo come due ebeti, ci mettiamo diligentemente in fila e veniamo accolti dai soliti, servizievoli e adorabili nippoinservienti. Ci viene spiegato che all'interno dell'edificio non è possibile scattare fotografie (e certo, devi comprare il catalogo) e ci vengono consegnati biglietti e bigliettini assortiti. Dopodiché ci si inoltra (e qui smetto un attimo di scrivere ed estraggo il catalogo, che ovviamente abbiamo comprato e mi sarà utile per far tornare alla memoria qualche ricordo in più).

Il primo impatto con gli interni del museo non rende neanche minimamente l'idea di cosa si troverà due passi più avanti. Certo, c'è qualche decorazione a tema, ci sono i bambini giapponesi che ti camminano attorno tutti contenti, c'è la sensazione di stare per entrarci, ma ancora non ti rendi conto. Scendi le scale, svolti a destra e approfitti dei portaombrelli e degli armadietti per appoggiare quel che non ti serve. Leggi gli avvisi e le indicazioni, su cui ne svetta una particolarmente piacevole secondo la quale non esiste, per questo museo, un percorso suggerito. L'idea è di farti entrare in un altro mondo, nel quale puoi divertirti a vagare e gironzolare seguendo il naso, l'istinto, la magia.

Ci siamo, sarebbe il momento di buttarsi, ma alla mia destra noto che le vetrate danno sul cortile interno e mi ci avventuro per gettare un occhio e scattare la manciata di foto che infilo qui sotto. A questo punto già si fa evidente la spettacolare cura con cui ogni cosa, anche la minima stronzata in cortile, è rifinita. Tutto serve a creare un'atmosfera da mondo magico e fiabesco. Ma in realtà, ancora non mi rendo bene conto.





Si entra nel museo vero e proprio e... mamma mia! Cercherò di non entrare troppo nei dettagli, perché è davvero una cosa che va visitata, per capirla, ma qualche cazzatiella la voglio raccontare e per farlo, beh, sfrutto il supporto del catalogo. Appena entrati, ci si trova in una sorta di grossa hall, con aperture, passaggi angusti, porte e porticine, scalinate di vario tipo, ascensori e mille altre cose, tutte minuziosamente decorate e rifinite. Perfino i bagni sono da sogno a occhi aperti.

Accarezzati da una tenue melodia di sottofondo, ci infiliamo in una stanza sulla destra, dove si trova una serie di oggetti, macchinari e diavolerie da esposizione, che illustrano in maniera poetica e affascinante la storia del mondo dell'animazione. Francamente, comincio ad essere quasi commosso per quello che sto vedendo e posso solo immaginare come debba essere l'esperienza per un bimbo lasciato a piede libero qua dentro. Dopo aver vagato a bocca spalancata per quest'area, giocherellando, toccando e pastrugnando tutto quanto, torniamo nella hall e decidiamo di salire, ovviamente non con l'ascensore o le scale normali, ma sfruttando una specie di scala a chiocciola angusta e piccolina, rinchiusa dentro una gabbia.

Al primo piano, fra vetrate splendidamente decorate, maniglie rifinite con gioielli e animalini strani, porte messe lì solo per curiosare, trovano spazio l'area dedicata alle mostre temporanee (a dicembre ce n'era una deliziosa sul lavoro della Aardman Animations) e il negozio. Esploriamo per bene l'esposizione, giocherellando con tutto quel che c'è da toccare, e decidiamo per il momento di schivare il negozio, ben sapendo che prima o poi ci toccherà entrare in quel luogo di perdizione. Al terzo piano, lo shock: un enorme gattobus, peloso e morbidissimo, pieno di bambini che ci si tuffano dentro come disperati. La tentazione di saltarci sopra è fortissima, ma sono costretto a trattenermi.

Mentre vago con lo sguardo perso nel vuoto, noto una porta. La apro, dietro c'è uno specchio. Ridacchiando, vado ad aprire un'altra porta: dà semplicemente sull'altro lato, dove c'è un tizio con il figlio in braccio. Ci guardiamo per un attimo e ci mettiamo a ridere. Sopprimendo il desiderio di saltare in testa ai bambini che giocano col gattobus, usciamo sulla balconata, dove giocherello con degli strani affari e osservo i passanti. Ci inerpichiamo lungo una scala a chiocciola per raggiungere il tetto della costruzione, dove una simpatica inserviente ci fotografa assieme al robot di Laputa. Ma se il robot è l'attrazione principale del tetto, inoltrandosi lungo un sentiero e passando di fianco al cupolone si raggiunge anche questo coso.

Dopo aver scattato una foto dall'alto, decidiamo di tornare giù per la scaletta, ovviamente facendo attenzione alla testa. Torniamo dentro e continuiamo a esplorare l'ultimo piano, scovando una biblioteca che contiene libri per bambini da tutto il mondo e infilandoci poi nella spettacolare riproduzione dello studio di Hayao Miyazaki. Qui dentro si trova di tutto, i libri che usa per documentarsi, statue e oggetti vari, bauli talmente pieni di roba da far paura, disegni, delizie e curiosità. Ci son perfino libroni di storyboard, da Porco Rosso a Nausicaa, abbandonati lì per la consultazione. E ovviamente non manca l'angolino per il piccolo cineasta, in cui giocherellare con obiettivi, pellicole e cineprese.

Siamo tutti a bocca aperta, io, la Rumi, i bambini e i genitori. Una favola, questo posto è una favola, e io non sono davvero in grado di raccontarlo come si deve. Oltretutto il tempo passa, poco oltre ora di pranzo abbiamo appuntamento con Kazuhisa e c'è ancora tanta roba da fare. Torniamo giù al piano terra e ci mettiamo in coda per la proiezione. Nel cinemino interno, infatti, vengono proiettati cortometraggi realizzati appositamente e con un ricambio penso abbastanza frequente (tant'è che il cortometraggio che andremo a vedere non è segnalato nel catalogo). Ovviamente la sala di proiezione è arredata da star male, come bello da star male è il cortometraggio, ambientato su un mondo fuori di testa tanto quanto il posto in cui ci troviamo.

Dopo il film, ci vuole la pappa. Torniamo su, usciamo, passiamo davanti a una finestra da cui due gatti ci osservano, e decidiamo di non fare la coda per entrare nella pasticceria. Ci limitiamo a scrutare i cuochi che preparano torte spettacolari mentre attendiamo il nostro hot dog. Dopo aver consumato, esserci rilassati e aver esplorato ulteriormente gli esterni, è il momento di tuffarsi nel negozio. Ed è il delirio, sia di gente che si accalca sugli scaffali, sia di oggetti e oggettini che escono dalle fottute pareti e ti urlano "comprami, comprami". A colpi di regali per amici e stronzate da portare a casa per noi, ovviamente, ci riempiamo di sacchetti. Fra gli acquisti effettuati, segnalo un pelosissimo Makkuro Kurosuke, il calendario di Kiki, la deliziosa tazza di Totoro, il già citato catalogo del museo e chissà quali altre cose che adesso mi sfuggono.

E, a proposito di sfuggire, è il momento di farlo, abbandonando questo luogo di perdizione: subito fuori, sotto il diluvio universale, coperti da un tendone, in attesa di Kazuhisa. Kazuhisa che non arriva, probabilmente perché bloccato dal traffico. Decidiamo di provare a chiamarlo da un telefono pubblico (che ovviamente trovo solo dopo essermi spiegato a gestacci con un simpatico vecchietto) ma, proprio mentre tiro su la cornetta, Elena lo avvista. Zompiamo in macchina e si parte, diretti verso la città: come ovvio, il tempaccio sconsiglia la gita al Monte Fuji. In compenso, il traffico sconsiglia la vita. Mi sento a casa, non ci si muove neanche per sbaglio e così decidiamo di fermarci a una specie di fast food, un posto che Kazuhisa sostiene essere molto popolare e in cui fanno cucina asiatica sui generis, con curry sparso un po' dovunque.

La pappa non è affatto male, la chiacchiera è piacevolissima e Elena si concede anche il lusso del dolce, generando un commento di Kazuhisa, una cosa tipo: "Noi giapponesi mangiamo di fretta e poi fuggiamo, voi italiani ve la prendete comoda, restate al tavolo, vi rilassate, il dolce, il caffé..." Oddio, io in questo sono in realtà molto giapponese, ma vabbé, lasciamo stare. Mentre mi affretto a pagare il conto, compio la tragedia e faccio cadere per terra, sfondandola, la meno peggio delle due macchinette fotografiche a disposizione. E infatti, da adesso in poi, la qualità delle foto (soprattutto in notturna) e dei filmati peggiorerà sensibilmente. Le foto venute meglio, per capirci, sono quelle scattate con la macchina di Kazuhisa.

Una volta usciti dal ristorante, decidiamo di separarci: io ed Elena pigliamo la metro per andare a visitare il Tokyo National Museum e l'appuntamento con Kazuhisa rimane fissato per la prima serata, dalle parti di Ueno. In realtà, una volta giunti a Ueno, decidiamo di fregarcene del museo e infilarci da Yamashiroya, pronti a spendere un'altra svagonata di quattrini in gadget e fesserie. Ne usciamo carichi come muli, pronti a raggiungere Kazuhisa sul luogo dell'appuntamento. Ovviamente fra pioggia, buio e totale perdita dell'orientamento, impieghiamo mezz'ora a fare cinquanta metri, ma alla fine ci becchiamo, e si parte in macchina verso casa Akutagawa, zona Ikebukuro.

Kazuhisa, gentilissimo, ci accoglie in casa sua, la tipica villettina in cui ti aspetti di veder spuntare fuori all'improvviso un bambino pallido e dallo sguardo vitreo o un fantasma di donna coi capelli lunghi e nerissimi. Ci leviamo (non senza qualche impaccio) le scarpe ed entriamo. La temperatura è bassina, e infatti sul tavolino è appoggiata una meravigliosa termocoperta, sotto la quale infiliamo tutti le gambe. Si chiacchiera del più e del meno, un po' a fatica, ma è normale, con Kazuhisa e la sua simpatica moglie. Kazu si dispiace perché ha un solo pad e non può sfidarmi a Winning Eleven, ma vabbé, sopravviviamo al dolore. Mentre sorseggiamo un the, attendiamo l'ora di uscire e poi, finalmente, si parte, lasciando a casa la donna e dirigendoci verso il luogo del misfatto.

Ci si sposta coi mezzi, quindi recuperiamo tutti i vari sacchetti, che poi depositiamo nei soliti armadietti della metropolitana (grazie mille a chi li ha inventati). E quindi via verso il locale, un ristorante nel quale ci è stata riservata un'intera sala, con due tavolate. Qui ritroviamo buona parte della gente con cui ho giocato a calcetto il 23 dicembre, le rispettive fidanzate e una simpatica figliola (la foto non le rende giustizia), chiaramente più giovane di chiunque altro sia presente, che non si capisce bene da dove sia giunta. Io comunque la stimo, perché a un certo punto esprime in italiano stentato il suo apprezzamento per la mia bellezza (ma probabilmente l'avrebbe detto a qualsiasi occidentale si fosse seduto a quel tavolo).

Ricordandomi di aver letto che a tavola fra giapponesi non bisogna versarsi da bere, ma bisogna farlo per gli altri, mi calo subito nel personaggio e comincio a versare birra a chiunque mi passi davanti, venendo ricompensato di conseguenza. Il metodo funziona: praticamente il bicchiere è sempre pieno e non hai modo di svuotarlo, perché appena lo appoggi sul tavolo c'è qualcuno pronto a riempirtelo. Le bottiglie di birra arrivano a getto continuo e la serata promette malissimo, anche se per fortuna i danni vengono limitati dal cibo. Inizialmente ci si limita a qualche delizioso stuzzichino, ma poi, appena i ragazzi si rendono conto di avere a che fare con delle ottime forchette, si spalancano i cancelli delle vivande. Il ragazzo seduto di fianco a me mi tempesta di domande stile "hai mangiato questo?", "hai provato quello?" e per ogni risposta negativa arriva un'ordinazione di conseguenza. Burp.

A proposito di ragazzo di fianco a me, trattasi di una specie di Cobra (chi deve sapere sa) giapponese, che tanti anni fa ha vissuto in Germania e per questo parla un buon inglese. Trascorro quasi tutta la serata chiacchierando con lui, mentre Elena fa altrettanto con la ragazza che mi aveva fatto da interprete il giorno del calcetto (non ricordo i nomi, uffa). Oltre a questo, ovviamente, l'alcool favorisce il delirio e in qualche modo si riesce a "conversare" - magari citando nomi di sportivi, o commentando l'arrivo in tavola di una bottiglia di vino italiano gelido (non ricordo quale, Elena potrà sicuramente integrare l'informazione con un commento) - anche con chi non spiccica una parola in inglese. Soprattutto con lo scemo del gruppo, un ragazzo simpaticissimo e stracazzaro. Oltretutto Kazuhisa, l'organizzatore, si è preoccupato di far avere a tutti (ovviamente sul telefonino) un email con un minidizionario italiano-giapponese. Non servirà a molto, se non a generare scene da sit-com con gente che mi dice cose senza senso lasciandomi perplesso, ma il pensiero è delizioso (e comunque trovarsi assieme a una quindicina di giapponesi che ogni trenta secondi alza il calice e urla "ALLA SALUTE!!!" è fantastico).

La splendida serata si conclude con una difficoltosa quest per il recupero dei sacchetti (varie sezioni della stazione della metropolitana, dopo un certo orario, vengono chiuse, e per tornare agli armadietti abbiamo dovuto fare un giro allucinante, non reso più semplice dallo stato alcolico), con gli un po' tristi saluti a gente che chissà quando rivedremo e con una fuga verso casa, pronti a morire. E la morte viene accolta a braccia aperte, anche perché il 27 sarà l'ultimo giorno pieno trascorso a Tokyo e di cose che vogliamo vedere ce ne sono non poche.









Altre cose
Mitaka
Da quel poco che abbiamo visto (la giornata non si prestava particolarmente alle passeggiate), Mitaka ci è parsa una cittadina deliziosa. Al punto che, in caso di tempo un po' più clemente, potrebbe valere la pena di dedicare un'intera giornata alla gitarella, così da poter visitare con calma il museo e ciò che gli sta attorno (per esempio il promettente parco Inokashira). Per arrivare, comunque, è sufficiente zompare sulla JR Chuo Line, che si incrocia con la Yamanote in più di una fermata (per esempio Shinjuku e Tokyo). Il viaggio dura una mezzoretta e la linea è coperta dal Japan Rail Pass. Questo, comunque, è il sito ufficiale di Mitaka.

Museo d'Arte Ghibli
Ho seri dubbi che chi segue questo blog non sappia cosa sia lo Studio Ghibli, ma giusto per andare sul sicuro lo dico: è, più o meno, la casa di produzione cui fanno capo Hayao Miyazaki e Isao Takahata, vale a dire due fra i registi giapponesi di film d'animazione più amati e riveriti in assoluto. I giapponesi, perlomeno quelli con cui abbiamo avuto a che fare, "Ghibli" lo pronunciano (e scrivono, se devono usare caratteri occidentali) "Ziburi". Qui trovate il sito ufficiale (in giapponese). Il Museo d'Arte Ghibli (scritto proprio così, eh, in italiano) è un posto delizioso, che davvero non saprei come altro descrivere. Se passate da Tokyo, una visita se la merita senza dubbio. Occhio, però, perché bisogna prenotare! Per evitare che si crei troppa ressa, infatti, c'è un limite al numero di visitatori ammessi nell'arco di una giornata. Sappiate, quindi, che se avete la sfiga di presentarvi senza biglietto in un giorno molto affollato potrebbe finire male. Comunque, il biglietto si può comprare in più modi, su cui non mi dilungo perché sono ottimamente spiegati qui, con tanto di mappette. Per la cronaca, noi l'abbiamo prenotato in anticipo tramite JTB Italia e ci siamo trovati molto bene.
Il sito ufficiale del museo.
La pagina con le indicazioni per l'acquisto dei biglietti.
La pagina del sito di JTB Italia con le indicazioni per l'acquisto dei voucher.

22.7.07

giopep in Japan - Natale fra videogiochi, anguille, alberi e templi

DISCLAIMER: A quasi sei mesi dall'ultimo appuntamento, pubblico un altro pezzetto di diario di viaggio dal Giappone. Questo post in realtà è stato scritto per metà parecchio tempo fa, ma poi lasciato lì a marcire. Siccome ho voglia di pubblicare qualcosa, ma non ho la fregola della recensione, oggi vi beccate questo. Per la gioia di chi non ci sperava più e la disperazione di chi non è interessato. Pur sapendo che, dopo tutto questo tempo, i ricordi si sono per forza affievoliti e qualche dettaglio me lo sarò perso per strada. E con la consapevolezza che questo potrebbe tranquillamente essere l'ultimo appuntamento col diario di viaggio sul Giappone.

Tokyo, 25 dicembre 2006.
La giornata di Natale si propone come super impegnativa, con una tabella di marcia abbastanza massacrante. Vogliamo visitare tanti posti e vogliamo farlo per benino. Sveglia presto, quindi, e colazione abbondante, con la solita dose di nippocaffé e succo di frutta accompagnata dai dolcetti comprati la mattina del 23 dicembre. La prima destinazione di giornata è Akihabara, zona nota anche come Electric Town. In pratica, è il quartiere dell'elettronica, dei negozi di hi-fi, computer, videogiochi ecc. Zompiamo sulla Yamanote e scendiamo all'omonima stazione, scoprendo che in Giappone il mondo apre non prima delle dieci (e in buona parte alle dieci e mezza). Facciamo quindi un primo giretto di perlustrazione, addentrandoci in un'edicola (dove avvisto un numero di Famitsu, che però comprerò un altro giorno). Mentre gironzoliamo, comincio a fare foto a raffica, per esempio a questa pubblicità blobbosa, a palazzi vari e ad altre amenità. Durante questo primo giretto a porte chiuse, avvistiamo un paio di negozi in cui decidiamo di passare dopo l'apertura e, finalmente, incontriamo un Doutor, nel quale ci infiliamo per passare il tempo con una seconda colazione.

Dopo aver consumato il pasto, ci mettiamo in marcia e ci infiliamo in una serie di megastore specializzati in informatica, videogiochi, DVD, hi-fi, CD e via dicendo. Impressionanti i negozi dedicati quasi per intero ai PC: piani e piani di roba, interminabili scaffalate solo per le schede grafiche, modelli su modelli come se piovessero, corridoi di adattatori USB e altre follie del genere. Roba da passarci giornate intere. In mezzo al caos noto la conferma del fatto (riferitomi in precedenza da altri) che a Tokyo l'iPod da 80 giga costa meno di quanto facciano pagare in Europa quello da 60. Meraviglie del cambio favorevole, immagino. Dopo esserci districati nei super negozi da ottomila piani, torniamo in strada e imbocchiamo una via enorme, passando di fianco a una fila interminabile di persone, in coda per non so cosa. Dopo averli scavalcati, ci infiliamo in una sala giochi Taito (ovviamente organizzata su più piani).


Inforchiamo le scale mobili e cominciamo a visitare i vari piani, dove troviamo ampie collezioni di giochi musicali (con tanto di tracklist) completa appesa al muro e tante altre belle sciccherie. Di scala mobile in scala mobile saliamo sempre più, scoprendo una roba che vabbé, probabilmente può incuriosire così tanto solo dei nerd occidentali: il cabinato di Half-Life 2. Non posso fare a meno di provarlo e Elena si mette pure a filmarmi. Una cloche per lo sguardo, un altro joysticckino per gli spostamenti, un pedale per saltare e uno per accucciarsi. Il gioco in singolo è sostanzialmente lo stesso della versione PC, a parte il fatto che richiede l'inserimento di un nuovo gettone dopo ogni livello. E c'è pure il multiplayer, con tanto di supporto per l'online. La cosa più impressionante sono i caricamenti: Half-Life 2 in sala giochi carica, ma più che altro carica tanto. I controlli sono un po' scomodi, ma alla fin fine si riesce a giocare. Gestita la questione Half-Life 2, proseguiamo la visita, gustandoci il piano dei picchiaduro, dove fra l'altro vedo in azione Virtua Fighter 5, e uscendo poi dalla sala giochi. Fra una foto alla pubblicità di Lost Planet (il cui bundle con Xbox 360 vedo fra l'altro esaurito in più di un negozio) e uno scatto a qualsiasi altra cosa mi capiti davanti, torniamo verso la zona esplorata inizialmente, facendo tappa da Sofmap (altro megastore dell'elettronica), dove mi compro un paio di auricolari.


Si sta avvicinando l'ora di pranzo e abbiamo già deciso di cibarci in un ristorante specializzato in anguilla dalle parti di Ueno. Decidiamo quindi di visitare i due negozi che avevamo avvistato quando era ancora tutto chiuso, per poi fuggire. La prima tappa la vedete nella foto qui sopra: tre piani di negozio interamente dedicato al retrogaming! Game & Watch come se piovessero, scaffali strabordanti di macchine del passato e postazioni di prova, gadget e statue giganti, un ultimo piano interamente dedicato ai cabinati. E ancora, scaffali interi pieni di Famicom, Super Famicom, Mega CD, Atari 2600 e qualsiasi altra cosa, un Virtual Boy bello in mostra da provare al volo e soprattutto giochi. Tanti, tantissimi, a perdita d'occhio, per qualsiasi formato e a qualsiasi prezzo. I pezzi rari (che so, Radiant Silvergun) stanno in vetrina e io mi beo di possedere alcuni fra i più costosi (che so, Radiant Silvergun). Ovviamente non posso uscire a mani vuote e mi accaparro un Famicom d'annata (il primissimo modello, quello con solo l'uscita RF, senza neanche la possibilità di collegarlo in composito). E già che ci sono unisco al tutto un Super Mario Bros. e un Maniac Mansion. Son soddisfazioni!

Una volta fuggiti da qui, ci tuffiamo nel negozietto di bambole che Elena aveva avvistato durante il giro preliminare. Mentre io realizzo un vero e proprio servizio fotografico del posto, Elena tira su un cestello e fa la spesa, comprando una quantità esorbitante di roba.







Dopodiché ci mettiamo in marcia verso la metropolitana, percorrendo un paio di viuzze a caso, passando davanti a un kebabbaro, facendoci regalare gadgettini da belle figliole compiacenti, notando un giganegozio di videogiochi usati ("no, devo starne fuori, e poi tanto non ho console modificate e non capisco il giapponese, no no, via via!"), fotografando di qua e di e deviando verso Kotobukiya, un iper negozio di giocattoli, puttanate e simili. Una roba immensa, articolata su sette piani, dove veniamo assaliti dal vortice del consumismo e ci riempiamo i sacchetti di puttanate e puttanatine (quasi tutte acquistate allo scopo di regalarle, va detto a nostra discolpa). Impressionante, soprattutto, l'ultimo piano, una sorta di mega-negozio dedicato interamente alle action figure e con ampi spazi da showroom. Qui viene scattata la fotografia che apre il post e qui viene realizzato un altro servizio fotografico, che vi propongo per intero.







Dopodiché zompiamo sulla Yamanote e ci dirigiamo verso Ueno, scendendo però alla fermata precedente, Okachimachi. Qui si trova infatti il ristorante dove abbiamo scelto di cibarci: Unagi Ben-kei, specializzato in anguilla (Unagi, per l'appunto). Elena si prende un bel menu, che unisce all'anguilla varie sciccherie che potete ammirare in foto. Io, invece, ripiego sul classico scatolotto con il fondo di riso e l'anguilla spaparanzata sopra. Il tutto è delizioso e servito in un locale molto carino, tranquillo, e gestito da un gruppetto di sciure simpatiche e strapettegolose.


Terminato il pasto, ci rimettiamo in marcia e ci dirigiamo verso il parco di Ueno, vera e propria casa all'aperto per tantissimi senza tetto. All'ingresso meridionale si trovano un sacco di cosette curiose, da questa bocciona alla fontana del ranocchio, fino alla sfilata di rocce firmate da star nipponiche (la prima è marchiata Akira Kurosawa). Ci inoltriamo nel parco, imbattendoci nella statua di Saigo Takamori, il samurai interpretato da Ken Watanabe nel suo filmetto com Tom Cruise e in questa serie di cose delle quali non ricordo nulla. :D





Proseguiamo inoltrandoci verso il centro del parco, dove ci imbattiamo in questo tempietto, nei pressi del quale cazzeggiamo un po' in preda al relax e ci gustiamo le bellezze del luogo.

Da qui, imbocchiamo una discesa che ci porta fino a una scalinata diretta verso il laghettone Shinobazu, che occupa la fetta sudoccidentale del parco. Ma subito prima di scendere, veniamo fermati da questo simpatico senzatetto, che parla un ottimo inglese e si vanta di essere uno scrittore di haiku (e mi ferma dicendomi che odia gli americani perché l'hanno rimbalzato all'immigrazione e non indossa niente di americano - io ho addosso un giaccone della Nike :D). Il tizio è davvero simpatico, ci racconta un sacco di aneddoti sui suoi viaggi (probabilmente si è sognato tutto in preda ai fumi dell'alcol) e ci trattiene a chiacchierare per quasi un'ora. Ovviamente, quando lo salutiamo, riesce a vendermi un libretto di Haiku, ma che ci vogliamo fare, quei pochi soldi, tutto sommato, se li è pure guadagnati.

Il sole sta cominciando a calare e le foto con la luce sbagliata vengono un po' una merda, ma in riva al lago mi concedo di filmare i pennuti di passaggio. Decidiamo comunque di attraversare il lago sul ponte che lo taglia in due, passando di fianco a 'sto roccione, osservando in lontananza un palazzo orrendo e costeggiando poi l'estremità nord del lago stesso. Qui incappiamo in una di quelle robe proprio da cartone animato giapponese, con la folla di ragazzine e ragazzini che stanno facendo una gara di corsa probabilmente organizzata da uno dei loro ottanta milioni di club scolastici. Urlano e schiamazzano tutti, fra scatti brucianti ed esercizi di riscaldamento. Uno spettacolo delirante.

Dopo esserci fatti due risatine osservando 'sti scellerati, decidiamo di proseguire costeggiando il parco sul lato settentrionale, trovando la triste conferma del fatto che lo zoo di Ueno è chiuso e rientrando verso il centro del parco tramite una strada che lo taglia all'interno. Qui ci imbattiamo in questo gruppetto di ragazzi, che si allenano salendo e scendendo dalla scalinata di accesso a un tempio, saltellando su un piede solo. E mentre scorrono le note della sigla di Rocky Joe, ci dirigiamo su per la scalinata, decisi a visitarlo, 'sto tempio.


Trattasi del Tosho-gu, altare di Tokugawa Ieasu (non che me lo ricordi, leggo sulla guida). Il bello di questo posto è che è possibile accedere alla parte interna dell'edificio, solitamente proibita ai visistatori. Lungo il vialetto d'ingresso, si trova una dedica ai noti eventi di Hiroshima e un cartellozzo spiega che quella fiammella che si vede sullo sfondo della foto è stata "prelevata" sul luogo del disastro e portata fino a Tokyo. In pratica, sarebbe accesa fin da quei tempi, alimentata artificialmente.

Proseguiamo ed entriamo nel cortile interno, non prima di aver costeggiato il recinto lungo questo viale ed esserci imbattuti in un altarino con campanaccio. Come dicevo, questo è uno dei pochi tempi che permettono l'ingresso "in profondità". E così, per la prima volta dopo tre giorni in Giappone, ci troviamo nella situazione di dover togliere le scarpe per poter entrare in un posto.

All'interno si respira una strana atmosfera. Il pavimento è freddo e umido, ma bello morbidino. Le stanze sono piene di cimeli e oggetti affascinanti e gustosissimi da osservare. Purtroppo non è possibile scattare fotografie, quindi dovrete andarvelo a vedere per i fatti vostri. Dopo il giretto, ci avviamo verso l'uscita (notare la Rumi carica di sacchetti: per tutta la durata della vacanza non c'è stato un solo giorno in cui siamo tornati a casa senza neanche un sacchetto :-|). Una foto alla facciata del tempio, una all'uscita del cortile, ed è tempo di dirigersi verso il Tokyo National Museum.

Per arrivarci, passiamo da questo piazzone, in cui ci sono suonatori ambulanti e ragazzine che saltano con la corda. Il museo, però, è chiuso (ma che cazzo, tutto chiuso), quindi decidiamo di avviarci un po' a caso, seguendo un po' il naso e un po' le indicazioni della guida. Vagando più o meno senza meta, passiamo davanti alla biblioteca nazionale della letteratura per ragazzi (o qualcosa del genere, lo dicevo che i ricordi si stanno affievolendo) e finiamo in una bella zona residenziale. C'è una quiete incredibile, le strade sono quasi deserte e si vede passare ogni tanto solo qualche studente, un bambino, un vecchietto in bicicletta.

Proseguendo a spanne, finiamo per imbatterci in questo tempio, dominato da una serie allucinante di buddhi e buddhini dedicati ai giovani virgulti (notare quanto si distinguano quelli di recente "nascita").






Dopo la visita al tempietto, decidiamo di proseguire verso nord, in direzione Yanaka, dove si trova un cimitero particolarmente famoso per le dimensioni e per il fatto che "ospita" qualche celebrità. Gli spostamenti, però, procedono completamente a caso, all'insegna del "ma sì, da quella parte". Dopo aver attraversato un ponte che passa sopra ai binari dei treni, ci ritroviamo sostanzialmente nel nulla cosmico. Un dedalo di vie e viuzze, piacevolissimo da gironzolare a caso, ma capace di generare una consistente sensazione di "ok, qui ritroviamo la strada di casa alle due di notte". E così, dopo un po' di camminare spensierato, fermo un passante, indicandogli sulla mappetta la stazione della metropolitana a cui vorrei arrivare.

Fatichiamo a capirci (ovviamente il tipo non spiccica una parola di inglese), ma fra gesti e cenni sulla mappa arriviamo a triangolare la nostra posizione e a indicare la destinazione voluta. Il tizio, gentilissimo, dopo aver ansimato un po' decide di accompagnarci e ci fa strada (con una certa fretta, poverino, chissà dove doveva andare) fino alla stazione della metro. Dopodiché ci saluta, inchini vari, arigato e via verso nuove avventure. Attaccato alla fermata della metropolitana c'è questo benedetto (e davvero enorme) cimitero, che però decidiamo di osservare solo di sfuggita, per poi infilarci nell'ennesimo tempio (notare la statua di Buddha in rame risalente al 1690).

Dopodiché giunge l'ora di prendere il treno e dirigerci verso Asakusa. L'idea sarebbe di girare il posto e poi prendere il traghetto fino alla baia di Odaiba, ma ci arriva subito una tegola in testa: l'ultimo viaggio del traghetto parte alle 17:30 (ovvero dopo mezz'ora). Basta una veloce riflessione per decidere che no, vogliamo girare per Asakusa. Quindi tanti saluti al traghetto: piazziamo dentro gli armadietti a pagamento della metropolitana gli ingombranti e insopportabilmente pesanti sacchetti pieni di cazzate e poi via, verso nuove e incredibili avventure a piedi.


Beh, Asakusa, di sera, è uno spettacolo. Oltre ad essere una zona di negozi e ristoranti, ospita il Senso-jin, noto anche come Asakusa Kannon, una visione spettacolare e affascinantissima. Nello spazio che va dal cancellone al complesso di templi c'è questa interminabile via di bancarelle illuminate quasi a giorno e piene di cazzatielle e leccornie. Ci incamminiamo e, ancora una volta, sembra di essere in un cartone animato, in uno di quei momenti in cui i ragazzini vanno alla fiera, con le bimbe vestite in kimono e le bancarelle coi dolci. Le bancarelle sono tante, i dolci pure, e quando arriveremo in fondo saremo belli pieni di schifezzuole, da quelle specie di pallottine a spiedino prese all'inizio a quelle enormi palle di non so cosa impanate e fritte nella melma. Messa così pare una schifezza, ma ricordate: anche la merda, fritta, diventa buonissima.

Proseguendo notiamo alla nostra sinistra questa via di negozi coperta e quest'altra via decorata di lanterne luminose. Ma si tira dritto, assieme alla folla, verso i templi. Verso questa bella pagoda illuminata, per esempio, piuttosto che verso i buddhini o la statua dedicata ai piccioni. Perdiamo anche un po' di tempo gironzolando presso un altare un po' fuori rispetto alla parte "popolosa" e illuminata del complesso di templi. Qui incappiamo in una scena affascinante, con una donna in ginocchio a pregare per chissà che cosa e l'uomo che aspetta in piedi osservandola. Il tutto avvolto in una mezza oscurità.





Mi faccio prendere dal trip e lascio pure io un obolo in offerta, prima di rimetterci in cammino per fare un giro fra i negozi, le luci e i colori della zona. Finiamo così dalle parti di un batting stadium e ci andentriamo in una sala giochi, dove - è inevitabile - ci infiliamo in uno di quei cassoni allucinanti per realizzare fotografie stupide. Questo è il risultato. Da qui tiriamo su verso Kaminarimon Dori, dove spuntiamo davanti a uno Starbucks. Decisamente è il momento di fare una pausa e rilassarsi davanti a una cioccolata calda.

Dopodiché si riparte, via verso la metropolitana, per recuperare i sacchetti, e poi alla ricerca di Sometaro, un ristorante di okonomiyaki consigliato dalla Rough Guide, che però troviamo chiuso. Decidiamo allora di buttarci sul Maguro Bito un kaitenzushi incrociato prima passeggiando, e che secondo la Rough Guide è stato votato dal pubblico come il migliore del Giappone! Entriamo e, dopo un po' di attesa, ci sediamo, pronti a scofanarci tonnellate di pesce senza il minimo ritegno.

Il locale è frequentatissimo e non siamo certo gli unici turisti occidentali. Al centro ci sono i cuochi, che preparano il sushi afferrando al volo pesci e crostacei vari (e vivi) direttamente da un paio di vasconi che stanno loro a fianco. Vederli che afferrano, squartano, addobbano e piazzano sul piattino nel giro di qualche secondo è un po' straniante, ma il risultato è davvero ottimo, quindi chi se ne frega?

Dopo esserci riempiti come dei disperati, ci rimettiamo in marcia e torniamo alla metropolitana (dove la Rumi fotografa il manifesto del film di Animal Crossing): l'obiettivo è di passare dall'albergo, depositare i sacchetti e poi prendere la monorotaia Yurikamome, che da Shimbashi porta alla baia di Odaiba, per trascorrere lì la serata. Il viaggio in monorotaia lo accompagno con un'altra ritemprante cioccolata calda, gustandomi il passaggio sopra al Rainbow Bridge e l'avvistamento delle tante luci in lontananza. Elena si diverte a girare qualche filmato, per esempio delle macchine che ci passano sotto mentre siamo in attesa di partire, del viaggio dal finestrino, del ponte che stiamo per attraversare (notare la voce della speaker che annuncia la fermata). Si vede poco per il buio, ma fanno colore.

Una volta arrivati a destinazione, ci troviamo davanti a una specie di mega complesso di centri commerciali. Siamo circondati da coppiette di adolescenti dagli occhi a mandorla, metà dei quali sono in coda per farsi un giro sulla ruota panoramica. Decidiamo che non ne vale la pena e ci dirigiamo a fare un giro nel centro commerciale più vicino, il Decks Tokyo Beach, dove troviamo ai piani alti un posto allucinante, che riproduce una cittadina italiana con tanto di cielo nuvoloso che varia fra giorno e notte (cambiando l'illuminazione di conseguenza). Chiaramente tutto ciò non può che ospitare negozi di moda.

Una volta usciti da lì, ci infiliamo nel Sega Joypolis, una sorta di parco d'attrazione al chiuso, dove si accede a qualsiasi cosa sfruttando schede prepagate da caricare agli appositi distributori. Un mix di giochi da sala iperpompati (tipo Ridge Racer inserito in una macchina da corsa con le immagini proiettate su schermo cinematografico) e attrazioni più modello Gardaland, come la Room of Living Dolls in cui Elena ovviamente decide che dobbiamo tuffarci.

Una volta fatta la coda d'ordinanza, passando davanti a questo bambolotto entriamo (assieme a un gruppo di giovani autoctoni) in una specie di casetta, nella quale ci conduce un tipo che parla giapponese raccontando chissà che marea di cazzate. Poi veniamo condotti in una stanza addobbata da film horror e piena di bambole inquietanti, con al centro un tavolo da otto posti. Ci si siede, si ascoltano un altro po' di scemenze incomprensibili, si indossano delle cuffie ultra-mega-stereofoniche e inizia lo spettacolo.

Luci spente, buio totale, voce di una (bambola, suppongo) giapponese in là con gli anni che parla in maniera sinistra e minacciosa. Rumori ambientali, raffiche di vento, terremoti simulati e urla. L'effetto multicanale è strepitoso, sembra davvero che la tizia ti stia girando attorno, venga a sussurrarti nell'orecchio, poi ti urli all'improvviso dall'altra parte, isterica e incazzata. Sento un rumore di forbici vicino all'orecchio mentre questa continua a berciare, si accende all'improvviso una luce che si spegne subito e la "sceneggiatura" sembra raccontare di una bambola giovane che si ribella e fa il culo alla vecchia. Ma non ci vuole salvare, dato che poi anche lei comincia a fare la sadica.

Una roba divertentissima, forse resa più efficace dal fatto che non capivo una parola delle (probabili) fesserie raccontate dalle voci, ma davvero "piacevole" come esperienza generale. Esperienza che, una volta conclusa, sancisce sostanzialmente il termine della serata. Il Joypolis sta chiudendo ed è ormai quasi deserto. Usciamo, facciamo un giretto notando una Statua della libertà (la foto è venuta di merda, pazienza) e ci dirigiamo con calma a una fermata della monorotaia, schivando qualche goccia di una gentile pioggerellina.

Una volta arrivati a Shimbashi, ci dirigiamo verso casa, facendo tappa a un combini a caso per recuperare del detersivo. Appena entrati nell'appartamento, io collasso senza dare segni di vita, mentre Elena trova la forza di mettere a lavare un po' di panni, e riprende anche il tutto con qualche filmato. Del resto, la lavatrice che funziona anche con lo sportello aperto è affascinante, no?


Altre cose
Armadietti
In praticamente tutte le stazioni della metropolitana di Tokyo, in molti altri posti e nella piazza centrale di Yakuza si trovano queste maree di armadietti a tempo/soldi. Ci piazzi dentro la roba, metti i soldi che ci devi mettere, chiudi e ti porti via la chiave. Comodi e funzionali, rappresentano una risorsa preziosissima per il turista dalle mani bucate che non vuole trascinarsi dietro sacchetti e sacchettoni tutto il giorno.

Batting stadium
Li avrete sicuramente visti in un sacco di film o di cartoni animati: degli stadietti al chiuso in cui ci si mette in postazione, armati di mazza da baseball, e si tenta di respingere le palle lanciate da una macchina automatizzata. Pure questi stanno in Yakuza, che non si fa mancare uno stereotipo che sia uno.

Famitsu
A occhio penso che buona parte di quelli che frequentano questo blog sappiano perfettamente di cosa si tratta. Comunque, è la rivista giapponese di videogiochi più famosa e rinomata (o perlomeno come tale la si percepisce al di fuori del Giappone). Nelle recensioni, il punteggio viene assegnato su una scala "teorica" da 4 a 40, e nasce dalla somma dei voti in decimi assegnati da quattro persone diverse. Il sito ufficiale.

Kaitenzushi (o Kaiten Sushi)
Un luogo di perdizione. In mezzo ci stanno i cuochi, con tutto il materiale per preparare sushi e sashimi. Attorno a loro un nastro trasportatore su cui appoggiano i piattini con le pietanze. A seconda del ristorante, o dell'orario, i piattini possono essere tutti uguali o di prezzi diversi (identificati dal colore). Attorno al nastro trasportatore ci si siede e ci si gestisce. Ai camerieri si può chiedere dell'acqua, delle bibite, o magari una zuppetta di miso, ma per il resto è tutto "self". C'è il distributorino di the "da postazione", ci sono gli scatolozzi con rafano e zenzero, ci sono i diversi tipi di salsa di soia. Quelli che abbiamo frequentato noi sono anche abbastanza "occidentalizzati", con foglietti di istruzioni e spiegazioni anglofone su quale salsa di soia usare con che tipo di sushi (io, prima di andare in Giappone, manco sapevo che ci fossero tipi diversi di salsa di soia). Ah, non si spende molto, ma comunque si spende, ovviamente, in relazione a quel che si mangia. Comunque, per capirci, io e la Rumi, che siamo dei noti scofanatori selvaggi, la volta che abbiamo speso di più abbiam tirato fuori 25 euro. Totali, eh! Scheda su wikipedia.

2.2.07

giopep in Japan - Bambole di Natale


DISCLAIMER: Ma facciamo anche senza.

Tokyo, 24 dicembre 2006.
La giornata si apre con un'abbondante colazione, fatta di caffé (o quasi: una specie di Nescafé giapponese), onigiri e succo di pompelmo. Dopo esserci riempiti a dovere, decidiamo di avviarci, diretti verso la zona di Harajuku. La domenica mattina non è proprio il momento più vitale della settimana anche in Giappone, ma piano piano la città si animerà. Zompiamo sulla Yamanote e scendiamo ad Harajuku, dove decidiamo di aprire le danze visitando lo Yoyogi Koen, il parco più grande di Tokyo. Mentre ci dirigiamo all'ingresso più vicino, notiamo sulla sinistra lo Yoyogi National Stadium, un palazzetto olimpico progettato da Kenzo Tange e costruito in occasione delle Olimpiadi del 1964. Il parco è letteralmente invaso dai corvi, che gracchiano ininterrottamente e contribuiscono a dare vita a un'atmosfera davvero particolare. Ce lo gironzoliamo placidamente, seguendo un po' a caso le indicazioni delle mappe sparse in giro e abbandonandoci alla piacevole giornata.

Dopo essere spuntati fuori dal lato occidentale, costeggiamo il parco verso nord, passando davanti all'Olympic Youth Center e raggiungendo l'ingresso settentrionale della zona di Meiji-Jingu, che racchiude un grosso tempio shintoista e un notevole parco. Subito prima di entrare, ci attardiamo a sbirciare dentro una piccola scuola di equitazione, dove una bimba sta imparando a cavalcare. Proprio qui acquisto per la prima volta una cioccolata calda da uno dei cento milioni di distributori automatici che popolano il Giappone. Mentre sorseggio la mia sorprendentemente gustosa bibita calda, attraversiamo l'ingresso e ci inoltriamo nella foresta, passando davanti a varie costruzioni e raggiungendo questo bello spazio aperto, dove mi svacco e mi metto a scattare foto inutili mentre Elena ne scatta a me. Si rimane un po' lì a rilassarci, osservando i palazzi in lontananza e sbirciando nel laghetto in basso. La giornata è complessa, perché sono tormentato da un piede e un ginocchio doloranti per le fatiche del giorno precedente, ma trovo la forza incosciente di proseguire.



La marcia riprende placida e, fra alberi e ponticelli, ci dirigiamo verso la costruzione principale. Qui gironzoliamo sbirciando in giro, fra gente in preghiera e negozietti di ammenicoli votivi, e scattando foto a cancelli, torri, decorazioni, monaci, porte e altre cosette sfiziose. Per esempio la sfilza di tavolette votive, 500 yen l'una, nientemeno, su cui bisogna scrivere i propri desideri. Poi ci pensano i monaci e le divinità. Già che ci sono, colgo l'occasione per eseguire, per la prima volta, la procedura di lavaggio "purificatorio" che fino a quel momento avevo trascurato (e che bisognerebbe eseguire sempre, prima di entrare in un tempio). Dopo una bella visita, decidiamo di allontanarci, non prima di aver fotografato furtivamente una ragazza in "uniforme" e un'altra costruzione a caso. Proseguiamo fino all'ingresso principale e decidiamo di trascurare il Jingu Naien, un giardino tradizionale (ovviamente a pagamento) che, probabilmente, in inverno non offre proprio il meglio di sé. E allora, dopo aver dato un'occhiata ai bariloni di sake, ci avviamo verso l'uscita del parco (non prima di aver fatto tappa al negozio di souvenir, dove tiriamo su qualche cagata).


Uscendo dal parco, passiamo sul ponte che collega l'area del santuario con la stazione, famoso per le ragazze che vi si ritrovano addobbate con costumi e vestiti a dir poco variopinti. Siamo ancora in tarda mattinata, quindi ce ne sono pochine, ma ci fermiamo comunque a sbirciare un po'. Dopodiché attraversiamo la strada e ci facciamo un giretto all'interno di Snoopy Town, un negozio interamente dedicato ai personaggi di Charles Schulz. Dopo aver eroicamente resistito alla tentazione di spendere lì dentro tutti i soldi rimasti, ci infiliamo in Takeshita Dori, la via che vedete in foto qua sopra. Takeshita Dori è, in sostanza, una via pedonale estremamente gggiovane, straripante di fast food e negozi di vestiti e altro (che so, moda per cani, giocattoli... Porta Portese...). Ce la giriamo con calma, arrivando fino all'incrocio con la più grande (e trafficata) Meiji Dori, che seguiamo verso nord per raggiungere l'area del santuario Togo Jinja.

Attraversato il solito tori d'accesso, gironzoliamo su questa specie di pontile, che offre una bella vista su un laghetto strapieno di carpe, ci arrampichiamo lungo una scala che fa molto Forbidden Siren e raggiungiamo il tempio vero e proprio (dedicato all'ammiraglio Togo Heihachiro, che guidò la flotta giapponese alla vittoria contro i russi nella guerra di inizio ventesimo secolo). Mentre esploriamo il posto, ci rendiamo conto di essere capitati nel bel mezzo di un matrimonio e ci ritroviamo ad osservare la cerimonia a bocca spalancata. Purtroppo la batteria della fotocamera ci abbandona (la stanchezza della sera prima mi ha fatto dimenticare di metterla in carica) e da qui in poi dovremo ripiegare su quella, pezzentissima, di riserva (con cui peraltro Elena gira al volo un filmatino della cerimonia. La qualità è quella che è, ma perlomeno si sente la musica).

Dopo esserci fatti una sana dose di cazzi altrui scendiamo un'altra scalinata e ci ritroviamo in un affascinante mercatino d'antiquariato, che - leggo sulla guida - si tiene ogni prima e quarta domenica del mese. Facciamo un veloce giro fra le bancarelle e Elena si diletta a fotografare un paio di bambole. Dopodiché, dato che il tempo inizia a farsi tiranno, decidiamo di allontanarci e fuggire verso il ristorante. Il luogo scelto è Maisen, uno fra i ristoranti di Tonkatsu più famosi e amati di Tokyo. L'avevo individuato giorni prima sulla guida e avevo subito deciso che, il giorno in cui saremmo passati da Harajuku, avremmo mangiato lì, nella zona di Aoyama, circa cinquecento metro a sudest del Togo Jinja. Lungo il cammino, ci soffermiamo a osservare un'area un po' più "residenziale" del quartiere, incappando anche, in un vicoletto, in un simpatico murales. Da notare che, ancora una volta, la mappetta della Rough Guide si rivela mostruosamente precisa: il ristorante è esattamente all'angolo di strada indicato.

Ci infiliamo nel posto e veniamo fatti accomodare sulle panche d'attesa. La maggior parte dei ristoranti giapponesi, infatti, è dotata di una lunga fila di panche dove la gente che deve attendere può accomodarsi. Ogni volta che qualcuno viene fatto accomodare al tavolo (e libera quindi dello spazio in testa alle panche), tutta la coda si alza e "trasla" con ordine. In genere, perlomeno nei posti in cui siamo stati, l'attesa non è molto lunga. I giapponesi, infatti, tendono a gestire il pasto abbastanza in fretta, senza soffermarsi più di tanto nella fase "relax" del dopo mangiato. Durante l'attesa sbirciamo il menu che ci viene consegnato e iniziamo a decidere cosa dovremo mangiare. Una volta fatti accomodare, optiamo per due menu diversi, ovviamente entrambi a base di tonkatsu. E già al primo assaggio ci rendiamo conto di essere capitati in una sorta di Eden. Avevo già delirato al riguardo qui, ma tocca ribadire: una cotoletta di maiale così buona non l'avevo davvero mai mangiata. Ma al di là dei paragoni, si parla di qualcosa di incredibile proprio di suo. Ogni morso è un'esplosione di gioia. Mentre mangiavo avevo letteralmente le lacrime agli occhi, per quanto mi stava piacendo.

Ah, il menu comprende, oltre alla cotoletta e all'inevitabile contorno di riso bianco, una serie di cazzetti e cazzettini da mangiare. Ovviamente i cazzetti e i cazzettini dipendono dal menu che si è scelto, ma la sostanza non cambia di molto. Sul tavolo c'è tutta una serie di barattolini da cui pescare le varie salse da spargere sopra alla cotoletta. Inoltre, con alcuni tipi di tonkatsu viene servita una salsa speciale apposita (è capitato ad Elena). Una volta finito di godere, ci alziamo e fuggiamo, ricevendo peraltro alla cassa un gentile omaggio natalizio fatto di panini contenenti, sigh, altro delizioso tonkatsu. Da notare che all'interno del risorante c'è proprio una specie di mini negozietto, in cui è possibile comprare questo genere di cose.



Una volta usciti, ci dirigiamo verso sud, scendendo dalla collina su cui si trova il quartierino del ristorante e dirigendoci verso Omotesando. Lungo il tragitto ci imbattiamo in una roba che non so cosa sia ma che Elena vuole fotografare. Spuntiamo in Omotesando e la percorriamo verso la stazione. Per la cronaca, trattasi di una via parecchio ampia, satura di macchine e persone, in cui si trovano uno sproposito di negozi (fra cui il Kiddyland visitato il giorno prima). Arrivati in fondo alla via ci ritroviamo nella zona della stazione, che nel frattempo si è decisamente popolata: sul ponte è ormai pieno di ragazzine vestite in modo allucinante e davanti alla stazione c'è un gruppo di tamarretti giapponesi che cantano una qualche canzone rockeggiante. Ma non c'è tempo, dobbiamo fuggire. Zompiamo sulla Yamanote e, dopo un paio di cambi, ci ritroviamo sul treno della metropolitana che ci deve portare a Odaiba.

Odaiba è il quartierino che si affaccia sulla baia, meta di coppiette amoreggianti e turisti curiosi. Ma ne parlerò più avanti, quando racconterò della sera in cui siamo andati a gironzolarvi senza particolare meta. In quest'occasione, infatti, la meta è ben precisa: una fiera di bambole quasi interamente dedicata alle Super Dollfie che si tiene a Tokyo quattro volte l'anno. Il tutto si svolge all'interno del Tokyo Big Sight (sito ufficiale), un complesso fieristico enorme e, ovviamente, modernissimo. Arrivati alla stazione di Kokusai Tenjijo, scendiamo dal treno e ci dirigiamo verso il luogo del delitto. Mano a mano che ci si avvicina al posto, cominciamo a incrociare persone cariche di sacchetti e sacchettoni, presumibilmente gravidi di bambole. Elena prevede di fare spese e andiamo quindi alla ricerca di uno sportello ATM per prelevare. Infilandoci in un supermercatino abbiamo la conferma definitiva del fatto che gli ATM che si trovano al loro interno non supportano le carte internazionali. Ma d'altra parte ci troviamo in un importante complesso fieristico e, come è solo logico che sia, al suo interno troviamo uno sportello internazionale da cui ci approvvigioniamo.

La fiera, dimensioni spropositate a parte, non è particolarmente diversa dalla classica fiera specializzata italiana, con una lunga serie di tavoli e tavolini addobbati dai vari espositori e un paio di sezioni "big" gestite in prima persona dalla Volks (fra cui un'esposizione dedicata alle fiabe). Si gironzola, si osserva, si basisce e si compra, in un vero tripudio di bambole. Elena, ovviamente, scatta una marea di fotografie, delle quali infilo qui qualche esempio.



Elena investe un po' di soldi in vestiti e controvestitini, fra cui un kimono comprato a questo banchetto, gestito da una signora molto simpatica e che si rivelerà poi essere una specie di star dell'ambiente, rispettata e riverita dalle appassionate (ma che Elena sul momento non aveva riconosciuto). Una volta concluso l'epico tour, usciamo, ci rilassiamo un'attimo sulle panche e ci avviamo verso l'uscita, pronti a inforcare la monorotaia Yurikamome, che praticamente collega per direttissima Shimbashi e Odaiba. Nel giro di mezzoretta siamo in albergo, dove ci fermiamo un po' a rilassarci. Dopodiché si esce di nuovo, diretti verso Roppongi Hills, dove si arriva abbastanza comodamente con la metropolitana.

Roppongi Hills (
qui il sito ufficiale) è una roba impressionante: praticamente un centro commerciale grosso come un piccolo quartiere. Ci sono due enormi palazzi, il più grosso dei quali, oltre a negozi e ristoranti, contiene anche svariati uffici (la foto purtroppo è venuta mossa). Oltre a questi, ci sono altre costruzioni, un cinema e svariate aree all'aperto. Una cosa incredibile, abnorme, in cui è davvero impossibile orientarsi senza fare casino e andare anche un po' a caso. Fra mappe, volantini e indicazioni strane, vaghiamo alla disperata, visitiamo il posto e raggiungiamo anche un ristorante di sushi, ma il posto straborda di gente (la vigilia di Natale, a quanto pare, è una sera in cui tutte le coppiette se ne vanno a cena fuori) e allora decidiamo di gironzolare ancora un po' e andarcene poi a mangiare in albergo, all'insegna del relax. Ci strafoghiamo con l'Akebono Crab di Kazuhisa, dei Ritz comprati per l'occasione e i panini del Maisen e, dopo un po' di relax, sveniamo alla disperata.

Altre cose
Tonkatsu
Molto semplicemente, cotoletta di maiale. La panatura è abbastanza simile a quella italiana, anche se, a quanto ho capito, si utilizza una mollica di pane tipicamente giapponese. La consistenza e il sapore, quando è di qualità, hanno del paradisiaco. Si mangia "impreziosita" da una salsa apposita.
Scheda su wikipedia.

Distributori automatici
Il Giappone è pieno di distributori automatici di bibite, calde e fredde. Se ne trovano veramente ad ogni angolo di strada e sono comodi non solo per recuperare da bere, ma anche perché sono quasi sempre accompagnati da un cestino della spazzatura (oggetto invero abbastanza raro, nella terra del Sol Levante). I distributori accettano monete e banconote, danno il resto e sono tenuti in perfetto stato. Insomma, niente a che vedere con i distributori di malattie infettive che si trovano nella metropolitana milanese. Nella stragrande maggioranza di questi distributori si trovano solo acqua, bibite gasate e bevande calde (caffé, the, cioccolata), mentre gli alcolici sono stati più o meno banditi. Di scenette alla Maison Ikkoku con Godai e amici che si sbronzano al distributore, insomma, è difficile vederne.

 
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