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24.7.15

Life After Beth - L'amore ad ogni costo


Life After Beth (USA, 2014)
di Jeff Baena
con Aubrey Plaza, Dane DeHaan, John C. Reilly, Paul Reiser, Anna Kendrick

In mezzo all'incredibile marasma di film sui morti viventi che hanno invaso le sale negli ultimi anni, era inevitabile che spuntasse fuori anche un filone un po' più romantico, dedicato ad esplorare l'idea folle dell'amore "interrazziale" fra vivi e morti che ha fatto la fortuna delle storie di vampiri. Non che sia una novità, in fondo ci aveva già pensato Brian Yuzna tanti anni fa con Il ritorno dei morti viventi 3, ma ultimamente la cosa ha preso abbastanza piede e dopo Warm Bodies, in attesa del nuovo di Joe Dante (Burying the Ex, accolto maluccio da chi l'ha visto), con nel mezzo diversi altri film di minor fama ma dalle tematiche assimilabili, ecco qua anche Life After Beth, uscito in giro per il mondo l'anno scorso e giunto in Italia solo di recente, direttamente sul mercato dell'home video, accompagnato dal rassicurante sottotitolo L'amore ad ogni costo.

A dirigerlo è Jeff Baena, qui esordiente alla macchina da presa dieci anni dopo aver co-firmato assieme a David O. Russell (e a una bella dose di sostanze stupefacenti) la sceneggiatura di I ♥ Huckabees, da cui recupera il tono stralunato, la comicità folle e il gusto (discutibile) per certi inserti totalmente sopra le righe e un po' fuori posto. E infatti, il problema principale di Life After Beth è proprio la difficoltà nel trovare l'equilibrio giusto e nel far funzionare fino in fondo uno spunto comunque interessante. La storia, semplice semplice, racconta di un ragazzo che non riesce a farsi una ragione per la morte della sua fidanzata e che viene accontentato nel momento in cui si scatena un'epidemia di zombi. Improvvisamente Beth (insieme a diverse altre persone, s'intende) torna in vita e tanto i suoi genitori quanto il suo amore vengono travolti da un incredulo e gioioso stupore. Chiaramente le cose non sono così semplici e Beth, pian piano, cede sempre più alla propria nuova natura, creando un casino dietro l'altro.

Tutto questo viene raccontato da un film che spara in ogni possibile direzione e non sempre centra il bersaglio. È soprattutto la comicità a creare problemi, non perché manchino le sequenze azzeccate (nella parte col frigorifero a momenti soffoco), ma perché gli aspetti più sopra le righe, per esempio la caratterizzazione della famiglia del protagonista, appaiono un po' fuori posto. Life After Beth, infatti, funziona al meglio quando riesce a trovare una qualche forma di equilibrio fra la sua assurdità intrinseca, il taglio umoristico che inevitabilmente ne deriva e gli aspetti più drammatici della vicenda, che emergono per mezzo di un tono malinconico davvero azzeccato. Aggiungiamoci che quando il film deve colpire nelle budella e provocare disagio non si tira indietro e che i vari attori, seppur alle prese con materiale limitato, fanno bene il loro dovere, con una Aubrey Plaza particolarmente brava nel rendere la follia della sua situazione, e Life After Beth è decisamente un film che merita una chance. Però è anche un po' un'occasione sprecata. 

L'ho visto a gennaio, nientemeno, quando è stato distribuito al cinema qua a Parigi. In Italia, come detto, ci è arrivato di recente, direttamente sul mercato dell'home video.

22.7.15

La ragazza che sapeva troppo


The Girl With All the Gifts (GB, 2014)
di M.R. Carey

Mike Carey fa parte dell'ondata di scrittori britannici che hanno invaso il mondo del fumetto a stelle e strisce nello scorso decennio e, sebbene non goda della fama che ha toccato altra gente, ha firmato un sacco di roba dal discreto spessore e ha comunque piazzato il colpaccio con Lucifer, serie Vertigo mica male che l'anno prossimo arriverà anche in TV, dando probabilmente vita alla versione 2016 di Constantine (nel senso di adattamento problematico, ma in fondo abbastanza riuscito, che però finisce nell'oblio perché non lo guarda gente a sufficienza). Parallelamente alla sua attività fumettistica, Carey s'è creato anche una carriera da romanziere che per qualche motivo sceglie di firmarsi col doppio nome puntato. Ultimo frutto del lavoro di M.R. Carey è l'ottimo La ragazza che sapeva troppo, fra l'altro possibile candidato al ruolo di nuovo colpaccio, dato che è previsto per l'anno prossimo un adattamento cinematografico con protagonista la nostra amica Gemma.

La nostra amica Gemma festeggia l'ingaggio.

E di che parla, La ragazza che sapeva troppo? Beh, innanzitutto non parla di una ragazza che sapeva troppo, anzi, parla di una ragazza che sapeva troppo poco. O almeno così mi è parso. Ma non stiamo qua a fare i pignoli sui titoli italiani. Diciamo che per molti versi è una storia di zombi, anche se siamo più in zona 28 giorni dopo che altro, quindi con gente infettata da una qualche forma di malattia, incapace di intendere e di volere, preda di fame rabbiosa e incontrollabile. Non sono morti rimessi in piedi, anzi, sono in piena forma e corrono come matti. Il fascino del libro, però, non sta necessariamente in questo, anzi, dal punto di vista dell'azione "zomba" si percorrono strade abbastanza classiche, fra l'altro virate più verso l'azione che l'orrore. L'aspetto interessante, al di là della scrittura solida e molto scorrevole, sta più che altro nella bambina del titolo e in tutto ciò che comporta dal punto di vista delle tematiche affrontate e degli spunti che ne vengono fuori. Quindi, ecco, diciamo che se vi piace questo genere di storie, il mio consiglio è di fermarvi qui e dargli una chance. Il prossimo paragrafo è per chi vuole saperne di più.

Pronti?

Al centro del romanzo c'è Melanie, una bambina di dieci anni ossessionata dal mito di Pandora, che ha scoperto grazie alle lezioni scolastiche della sua maestra di scuola elementare (che nel film sarà Gemmona). E chiaramente è tutto un gioco di allegorie e metaforoni, dato che Melanie ha la sfortuna di far parte di un gruppetto di bambini "privilegiati": sono degli infetti che per qualche motivo sembrano aver conservato l'intelletto, pur essendo preda della fame rabbiosa di cui sopra, e che vengono quindi tenuti prigionieri in una base militare, immobilizzati a dovere, studiati nella speranza di trovare un antidoto, graziati da un pizzico di umanità per mezzo delle lezioni tenute dalla maestra. Da questo spunto iniziale ha inizio un racconto che abbraccia svariati cliché del genere, ma riesce a rielaborarli in maniera intelligente, affrontando temi interessanti, parlando di famiglia, di ciò che può essere lecito o meno fare in termini di sperimentazione, di possibili evoluzioni sociali e, in un certo senso, mettendo in scena la più classica delle storie di formazione. Solo che a formarsi è un zombi. Anzi, un infetto. Ed è davvero una lettura gradevole, che non ti cambia la vita, per carità, ma riesce comunque a dire qualcosa di originale, con una sua forte personalità, in un genere abusato.

L'ho letto un mesetto fa in ebook e in lingua originale, che per inciso m'è parsa accessibilissima. L'edizione italiana è pubblicata da Newton Compton Editori.

20.7.15

Inside Out


Inside Out (USA, 2015)
di Pete Docter, Ronaldo Del Carmen
con le voci di Amy Poehler, Phyllis Smith, Richard Kind, Bill Hader, Lewis Black, Mindy Kaling, Kaitlyn Dias, Diane Lane, Kyle MacLachlan

Inside Out è esattamente quello che molti speravano che fosse. È un ritorno a quel tipo di opera che ha definito il marchio Pixar e ha stabilito aspettative ben precise nei confronti dei loro film, al punto di far diventare "deludenti" cose magari molto ben realizzate, ma meno ambiziose, e di retrocedere in seconda categoria qualunque altro studio americano che lavori sull'animazione. Compresa anche Disney, di cui in teoria Pixar farebbe parte. È quella cosa lì, è il film che si rivolge a tutta la famiglia e ha qualcosa da dire a tutti, ha la capacità di raccontare storie e temi interessanti trasmettendoli in qualche modo a ogni età, ha la forza necessaria per divertire i più piccini e far affogare in una valle di lacrime i loro genitori e può vantare una carica originale, una personalità fortissima, un lavoro pazzesco sul piano della ricerca visiva, dei riferimenti, della tecnica, che è veramente difficile trovare altrove, non solo nel cinema d'animazione.

Se l'idea alla base, forse, questa volta non è delle più originali, il modo in cui viene sfruttata è qualcosa di realmente unico. Non è solo la trovata della sala di comando del corpo umano gestita dalle cinque emozioni (gioia, tristezza, paura, rabbia, disgusto), è il modo in cui questo spunto di partenza viene utilizzato a definire un film fenomenale per intelligenza, forza espressiva, intensità, capacità di commuovere e dire cose intelligenti e profonde all'insegna dell'estrema semplicità. Le dinamiche fra le emozioni, la maniera in cui il loro comportamento e i rapporti cambiano a seconda dell'età e delle persone che le ospitano, l'impatto che esse stesse hanno sui ricordi e su come questi vanno a definire la persona svanendo o restando impressi, mutando di significato con lo scorrere del tempo... la quantità di esperienze, emozioni e cambiamenti al centro di questo film ha dell'incredibile e lascia il segno. E lo lascia anche la bravura con cui i vari "personaggi" vengono utilizzati per fare da allegoria di quel che accade, è accaduto e accadrà nella testa di ciascuno di noi. Sulla superficie, viene raccontato un mondo pazzerello e alieno, ma all'atto pratico Inside Out sfrutta i propri personaggi per mostrare un'esperienza attraverso cui, prima o poi, passiamo tutti.

Ed è anche per questo che il nuovo film Pixar rimane dentro e cresce nel ricordo, per tutte le cose che ha da dire e che dice in maniera splendida. Dove forse è un po' meno riuscito è nel modo in cui segue la solita struttura, facendo ruotare tutto attorno alla classica avventurona piena di pericoli, rincorse, inseguimenti e personaggi buffi, che non trovano la forza migliore dello studio americano. Anche sul piano della comicità ci sono, sì, gag esilaranti, ma la migliore rimane quella della cena mostrata sotto forma di trailer mesi fa e i momenti più azzeccati sono anche quelli più rari, che danno spazio allo spunto meno sfruttato, il mostrare cosa accada nelle teste degli altri personaggi. Già, perché il film si sviluppa tutto tramite il punto di vista della piccola Riley, ed è in fondo giusto così, anche se viene da sperare in un seguito che si permetta di esplorare la capoccia altrui con maggior libertà. Quel che c'è qui, invece, è un film che magari arranca un po' con quel crollo di ritmo della parte centrale, ma che sotto la superficie racconta in maniera meravigliosa il duro impatto con la realtà, il momento in cui il cuore dominato dalla gioia deve decidersi a lasciar spazio alla tristezza, ai ricordi che pian piano svaniscono, a tutto ciò che comporta il processo di crescita, tanto per i piccoli, quanto per i genitori che li osservano con il cuore spezzato. E occhio, perché sulle emozioni questo film gioca duro, quello straziante personaggio che è Bing-Bong mi ha devastato. Meglio avvisare.

L'ho visto al cinema qua a Parigi, in lingua originale, e il cast è quello delle grandi occasioni. La rabbia di Lewis Black, in particolare, è qualcosa di fenomenale. In Italia arriva a settembre, perché d'estate i bambini vanno al mare, mica al cinema. O qualcosa del genere.

6.7.15

La primavera a fumetti di giopep


E rieccomi qua, cinque mesi dopo l'ultima volta, a mettere in fila tutta la roba a fumetti che ho letto nel frattempo, ovviamente senza ricordarmi più nulla, se non qualche immagine vaga, lampi, cose così. Questa volta si tratta per lo più di roba americana e/o francese, cose che ho acquistato qui a Parigi o magari durante la trasferta della GDC 2015. In teoria ci sarebbero anche un po' di fumetti Marvel, dato che ultimamente mi sono rimesso a leggere in maniera abbondante su Marvel Unlimited, ma alla fin fine è tutto un grosso minestrone e figuriamoci se riesco a ricordarmi in maniera dignitosa come vadano le cose lì.

Con il cuore a Kobane ****
Lo Zerocalcare delle strisce mi fa sempre ridere molto meno di quanto vorrei e quello dei volumi raramente mi convince fino in fondo, però, ehi, quando mi sembra che una cosa gli sia venuta bene, beh, diciamolo. Il suo reportage sul viaggio a Kobane l'ho letto con immane ritardo, dopo essere tornato dalla GDC, ne scrivo con ritardo ancora più grande e mi chiedo a chi possa servire leggerne oggi. Ma insomma, tanto non è che stia dicendo molto di utile, al riguardo. Comunque, la versione cartacea che ho io, se ho capito bene, è stra-esaurita, ma si può recuperare in digitale

Powers: Bureau #2: "Icons" **** 
Mh, non saprei indicare cosa non vada di preciso, ma c'è qualcosa che non riesce a convincermi fino in fondo, in questa seconda vita di Powers. Intendiamoci, è sempre una lettura molto piacevole e visivamente spettacolare, ma mi sembra abbia perso un po' d'impeto. È solo un problema mio? Ma fra l'altro, il telefilm com'è?

Trees #1: "In Shadow" ****
Un'invasione di alberi da un altro mondo, o qualcosa del genere, scritta dal sempre ottimo Warren Ellis, che ultimamente è un po' passato di moda ma, insomma, non s'è rincoglionito come altri (ciao Frank Miller). In un certo senso, sembra quasi applicare il modello della storia di zombi media a un'invasione aliena: gli invasori, tecnicamente, ci sono e hanno piantato su un casino, ma non li vediamo e vengono esplorati soprattutto gli effetti che il loro arrivo hanno scatenato sull'umanità. Il mistero di fondo è abbastanza intrigante, sono curioso di scoprire dove voglia andare a parare.

Kingsman: The Secret Service ****
Il solito Mark Millar: divertente, originale, brutale, sboccato, scorretto e con una voglia matta di fare l'anticonformista. Per certi versi m'è piaciuto più del film ma nel complesso, come il film, non mi ha convinto fino in fondo.

Outcast #1: "A Darkness Surrounds Him" ****
Outcast, vale a dire la nuova serie di Robert Kirkman della quale sono già stati acquisiti i diritti per una serie TV che non avrà mai il successo di The Walking Dead. Almeno credo. Comunque, si parla di possessioni demoniache, o almeno così sembrerebbe, ma la faccenda è molto più complicata di un semplice Pazuzu infilato nella bambina di turno. Ci sono cospirazioni, associazioni, tribolazioni. L'atmosfera è bella intrigante, ma succede ancora troppo poco per farmi un'idea concreta.

Sex Criminals #1: "One Weird Trick" ****
Sex Criminals #2: "Two Worlds, One Cop" ****
Mi sa che non sono un fan sfegatato di Matt Fraction, perché questa serie, per quanto indubbiamente intrigante per idee e tematiche, non mi ha fatto innamorare fino in fondo. Sicuramente sono curioso di capire dove andrà a parare, visto che continua a rilanciare con svolte sempre più fuori di cozza, però, non saprei, in un certo senso mi fa un po' l'effetto di Mark Millar, quell'ansia da gioco al rialzo continuo a tutti i costi un po' forzato.

Low #1: "The Delirium of Hope" *****
Shutter #1: "Wanderlust" ***** 
Questi li metto assieme non tanto perché siano collegati, quanto perché sono entrambi portatori sani (assieme a Saga e Black Science, che non a caso menziono là sotto), di una sorta di corrente esplosa negli ultimi tempi all'interno del fumetto americano: quella della fantasia! Pare incredibile ma gli americani si sono improvvisamente (nuovamente) accorti del fatto che è possibile utilizzare i fumetti per inventare mondi totalmente lontani, fuori di testa, fantasiosi, originali ed evocativi sul piano visivo, davvero "altri" e affascinanti, a prescindere poi da cos'è che vadano a raccontare. Nel caso specifico, Low racconta una storia nella sostanza abbastanza ordinaria, fatta di regni sommersi, divisione sociale, rabbia e vendette, ma con una protagonista affascinante, un gran bel ritmo, la forza di saper piazzare nel modo giusto i cliffhanger e tutte quelle cose che ho detto qua sopra. Shutter, invece, è completamente fuori di testa in tutto quel che racconta, anzi, quasi più in quello e nei personaggi protagonisti che nell'ambientazione, che in fondo è e rimane un pianeta Terra quasi normale. Quasi. Comunque, sono due fumettoni. E uno l'ha scritto Rick Remender. Che mi sa che mi piace più di Matt Fraction.

Petites coupures à Shioguni ****
Un racconto urbano, brutale, fascinoso e polveroso, ambientato in Giappone e raccontato e illustrato attraverso un miscuglio narrativo e visivo che unisce oriente e occidente in maniera fortissima e affascinante. Onestamente, il racconto in sé l'ho trovato un po' insipido, ma lo sforzo creativo che impregna ogni singola pagina è roba che merita davvero. Non credo esista un'edizione italiana e fra l'altro me la immagino piuttosto complessa da realizzare, visto il modo in cui sono assemblate le tavole, ma vai a sapere.

L'arabo del futuro (L'Arabe du futur) *****
Anche questo l'ho letto in francese, grazie a una pescata un po' a caso di quelle che ogni tanto faccio nella fumetteria vicino a casa. Ma di questo so che esiste una versione italiana, pubblicata da Rizzoli Lizard. Si tratta del primo volume di tre (e questo l'ho scoperto solo dopo essere arrivato alla fine... groan... ), che vanno a comporre l'autobiografia di Riad Sattouf e il racconto della sua vita vissuta gironzolando tra Europa, Libia e Siria. Con un tono molto leggero, Sattouf racconta la propria infanzia, il rapporto con il padre e le sue fissazioni, le difficoltà a integrarsi e tutta una serie di piccoli episodi che permettono di lanciare uno sguardo su situazioni e culture per noi lontanissime. Davvero bello.

Quelli che ne ho scritto o parlato altrove e quindi metto il link ad altrove
Gabriel Knight: The Temptation ***
Hotline Miami 2: Wrong Number Digital Comic ***
The Walking Dead #23: "Whispers into Screams" *****

Quelli che ho scritto in altre occasioni dei numeri precedenti e non ho niente da aggiungere e mi limito quindi a metterli qua in fila con le stelline che mi ero appuntato 
American Vampire #6 ****, Black Science #2: "Welcome, Nowhere" *****, Deadly Class #2: "1988 - Kids of the Black Hole" *****, Fairest: In all the Land ****, Saga #4 *****

3.7.15

The Great Hypnotist


Cui mian da shi (Cina, 2014)
di Leste Chen
con Jing Hu, Zhong Lü, Karen Mok

The Great Hypnotist si apre con una balla, ma è una balla che detta fin dal primo istante le regole del racconto e ti prepara a un paio d'ore interamente giocate su illusioni, immaginazione, detto, non detto e detto apposta per far credere ad altre balle. La prima scena sembra uscita per direttissima da un horror giapponese in zona Ringu, con una donna che scappa dentro a un edificio assieme a un bambino e una seconda donna, dalle movenze inquietanti, che li insegue. Ma, appunto, è una balla, o comunque un'illusione, messa in piedi dall'ipnotizzatore protagonista del film. The Great Hypnotist racconta la sua attività e lo fa mettendola in scena in maniera diretta, mostrando quel che accade nella testa di chi si sottopone alle sue terapie, dando quindi spazio a situazioni fuori di cozza e a un continuo ribaltarsi di illusioni e contro-illusioni.

La storia, semplice semplice, vede il nostro amico ipnotizzatore alle prese con un caso proposto da una collega: una donna che sostiene di vedere la gente morta. Si ritrovano una sera nello studio di lui, provano a gestire la cosa con una normale seduta d'analisi e poi si passa all'ipnosi. E a quel punto il film parte per la tangente, fra illusioni, dubbi e verità nascoste, mettendosi a giocare con la percezione, le immagini e le incertezze su cosa stia realmente accadendo. La donna ci fa o ci è? Sarà mica che parla davvero coi morti? Oppure è convinta di farlo? O fa finta? E perché? Come fa a conoscere certi segreti del protagonista? Avrà mica delle intenzioni discutibili? Oddio, sarà mica che... anche lei è un'ipnotizzatrice?

Tutto questo viene raccontato concentrando la gran parte del film all'interno dello studio e piazzandolo sulle spalle dei due ottimi attori protagonisti. Poi, certo, dallo studio si esce spesso e volentieri per entrare nel mondo della mente, ma nella sostanza il racconto, da lì, non si sposta. Ed è un racconto appassionante, composto da misteri intrecciati in maniera complicatissima, ma impeccabile, e molto ben sviluppato nei modi in cui semina indizi, depistaggi e incasinamenti vari, oltretutto mettendoli in scena attraverso un'estetica notevole (anche se forse si poteva osare qualcosina in più sul fronte delle assurdità visive all'interno delle menti). Dove il film crolla un po' è nel lungo, esagerato finale, ingolfandosi prima su uno spiegone interminabile (e in larga parte superfluo), poi su una chiusura impacciata e pacchiana. Ma insomma, ne vale comunque la pena.

L'ho visto qualche tempo fa al festival del cinema cinese qui a Parigi. Il film è dell'anno scorso ed è già disponibile una versione occidentale per l'home video. Non tratterrei il fiato in attesa di una possibile versione italiana.

30.6.15

Macbeth


Macbeth (UK, 2015)
di Justin Kurzel
con Michael Fassbender, Marion Cotillard, Jack Reynor, David Thewlis

Se c'è un singolo filo conduttore che lega Snowtown, placida, angosciante, ruvida, quasi documentaristica cronaca di una famosa tragedia australiana, e Macbeth, è la passione di Justin Kurzel per la recitazione basata sulla voce bassa, i grugniti, l'espressione quasi animalesca della personalità, con improvvisi scatti d'ira e momenti di furia. C'è ovviamente anche altro, ma questo aspetto spicca forse anche perché Macbeth vi unisce l'inglese shakespeariano e l'accento scozzese, generando un borbottio che a tratti perfino parecchi spettatori madrelingua hanno ammesso di interpretare a fatica. D'altra parte, Kurzel è anche un fantastico direttore di attori, che qui tira fuori da Fassbender, Cotillard e tutti gli altri interpretazioni pazzesche, capaci di comunicare con gli occhi, il corpo, le movenze, tutta la furia delle devastanti emozioni che vivono nei loro personaggi.

L'interpretazione di Marion Cotillard, ovviamente, è impressionante anche per il fatto di stare recitando in una lingua non sua, ma il modo in cui trasmette quello strano miscuglio di lucido calcolo, disperazione e rabbia ha dell'incredibile. E non è comunque da meno Michael Fassbender, che sembra nato per questo ruolo e comunica in maniera meravigliosa l'altalena d'insicurezza, arroganza, crudeltà e ambizione che definiscono il personaggio. Attorno a loro si sviluppa un film che unisce la filologia dell'ambientazione medievale scozzese, una volta tanto rispettata anche nella scelta delle location, a un'interpretazione molto moderna sul piano visivo e in alcune rielaborazioni a livello di sceneggiatura, per esempio nel tentativo abbastanza riuscito di dare maggior sostanza al personaggio di Lady Macbeth.

Dove però Kurzel lascia veramente di sasso è nella pazzesca carica visiva che riesce a tirar fuori, magari intuibile nella sua opera prima, ma forse non attesa a questi livelli. Aiutato dal "solito" Adam Arkapaw alla fotografia, Kurzel apre e chiude il film con due battaglie pazzesche per potenza evocativa, forza delle immagini, capacità di far muovere il racconto fra una testa mozzata e l'altra, e popola l'intera pellicola con una brutalità estetica fuori misura. Il suo Macbeth è un adattamento tosto, intenso, che replica il sapore della lingua shakespeariana, riproduce gli ambienti con uno spettacolare lavoro sui costumi e sui luoghi e trasporta il tutto in una dimensione visiva da moderno blockbuster, se non nei ritmi, certamente compassati, di sicuro nella forza delle immagini. Imperdibile.

Io l'ho visto al cinema, qua a Parigi, durante la rassegna locale del Festival di Cannes. La distribuzione nelle sale italiane è prevista per novembre 2015. Intanto, Kurzel è al lavoro con Fassbender e Cotillard sul film di Assassin's Creed, che dovrebbe arrivare l'anno prossimo. La cosa, onestamente, mi spiazza e non so cosa attendermi. Un regista addomesticato per staccare l'assegno in serenità? Un film pazzesco e la miglior pellicola mai tratta da un videogioco? Un divorzio per differenze creative? Vai a sapere.

26.6.15

Police Story 2013


Jing cha gu shi 2013 (Cina, 2013)
di Sheng Ding
con Jackie Chan, Ye Liu, Tian Jing

I titolisti dei film americani mi hanno sempre affascinato per il modo in cui, spesso, se ne fregano di tirar fuori il titolo "tradizionale" ad effetto e preferiscono andare più sul descrittivo. Che poi, intendiamoci, spesso ne vengono fuori comunque titoli dal bell'impatto, ma mi sembra indiscutibile che dalle nostre parti si sia abituati diversamente. Voglio dire, in America possono fare uscire film intitolati Cinque piani di scale, da noi devono ribattezzarli Ruth & Alex - L'amore cerca casa. Ci sono però situazioni in cui anche i titolisti americani tirano una riga e dicono no. Ed è per esempio il caso dell'ultimo Police Story, che in Cina, per non stare a perdere tempo, hanno intitolato Police Story 2013. È un Police Story, esce nel 2013, a posto così, no? In America, invece, hanno voluto fare quel piccolo sforzo in più e l'hanno intitolato Police Story: Lockdown. Che comunque, intendiamoci, è il classico titolo, appunto, descrittivo, ma perlomeno ci prova.

Però, in fondo, il titolo scelto dalla distribuzione cinese dice un po' tutto. Stiamo parlando infatti di un reboot, che prova a reinventarsi completamente la serie partendo dall'assunto che Jackie Chan, oggi, le cose che l'hanno reso famoso (1) non è più in grado di farle e (2) si è anche un po' rotto le scatole di provare a farle. E quindi si riparte da zero, spostando il tutto nella Cina fuori da Hong Kong, cambiando il nome del protagonista e, insomma, mantenendo come unica costante il fatto che al centro della faccenda si trova un poliziotto. Un poliziotto con alle spalle una lunga carriera e tanta azione, chiaramente, ma che oggi è un po' troppo vecchio per queste stronzate e limita le sue acrobazie alla prova Olio Cuore su una ringhiera in cima a un palazzo e a qualche capriola mentre si barcamena fra condotti d'areazione e ascensori.

Il film racconta infatti di un intero locale, avventori compresi, preso sotto controllo (Lockdown) da un gruppo di criminali, che hanno in testa un piano ben preciso ma non lo sveleranno prima del gran finale. Il nostro caro Jackie si trova prigioniero sul posto assieme alla figlia e cerca di venirne fuori in qualche maniera, dando vita a un film che sulle prime sembra una specie di Die Hard, ma poi si evolve in qualcosa di completamente diverso e va a concludersi nella classica risoluzione finale iper-complicata da poliziesco cinese, dove però il macello non è tanto di azione, quanto di pezzetti assurdi che vanno a comporre le motivazioni del cattivo. E quindi? E quindi Police Story 2013, di Police Story, ha molto poco: via i toni da commedia, dentro il melodrammone esagerato dagli occhi a mandorla, con un puzzle finale abbastanza intrigante e un combattimento verso metà piuttosto brutale e riuscito, in cui Jackie Chan prende una raffica infinita di schiaffi perché, ehi, non ce la fa più, tanto il personaggio quanto l'attore. Il ritmo non è dei migliori, ma tutto sommato è un film godibile e di certo se lo sono goduto in Cina, dove ha passato in agevolezza i cento milioni d'incasso e confermato quindi la solidità, da quelle parti, tanto della serie quanto dell'ultrasessantenne (!) protagonista.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, durante il festival del cinema cinese di qualche tempo fa. Il film è già uscito sul mercato dell'home video in diversi paesi, quindi penso sia reperibile senza troppi problemi.

25.6.15

Contagious: Epidemia mortale


Maggie (USA, 2015)
di Henry Hobson
con Arnold Schwarzenegger, Abigail Breslin, Joely Richardson

Uno legge un titolo come Contagious, per di più accompagnato da un sottotitolo come Epidemia mortale, vede sul manifesto Schwarzy con la faccia tutta preoccupata che guarda verso sinistra, dove probabilmente c'è qualcosa di sinistro (magari un'orda di zombi), e, beh, si preoccupa. Anche se sa che con Arnie in campo, male che vada, saltiamo tutti sull'elicottero e via. E invece. E invece Maggie, questo il titolo originale del film d'esordio di Henry Robson, è una totale deviazione dal percorso con cui il Governator ha deciso di rilanciarsi al cinema dopo la sua carriera politica. In mezzo a una lunga serie di film d'azione d'ogni foggia, fra gli omaggi al passato, le citazioni dal passato, i recuperi dal passato, la qualunque dal passato, ecco che ti salta fuori la svolta drammatica, il film di zombi che in realtà ha dentro molto poco horror e parecchio dramma. E in cui Arnold tira fuori una signora prova d'attore. Pensa te.

La storia racconta di un mondo che cerca di rimettersi in piedi dopo un'epidemia di necrovirus. La causa del contagio è stata individuata, la diffusione comincia ad essere contenuta, ma non si trovano cure per gli infetti. L'unica soluzione? Quarantena e soppressione. In questo contesto, Arnie interpreta il ruolo di un padre alle prese con una figlia adolescente (Abigail Breslin) fresca di contagio, con quindi la prospettiva di trascorrere le prossime due settimane in attesa dell'inevitabile. A far loro compagnia c'è la seconda moglie di Arnie, interpretata da una Joely Richardson che ripropone i suoi classici momenti da lacrima tremolante che gli appassionati di Nip/Tuck conoscono fin troppo bene. E il film, sostanzialmente, è tutto qui: non ci sono particolari momenti horror, non c'è azione, c'è solo la lancinante tragedia di un padre messo di fronte alla morte inevitabile della propria figlia.

Hobson qua e là si lascia prendere un po' troppo la mano nella ricerca dell'immagine poetica e della grande allegoria, ma dà al film un taglio da drammone indie che funziona e valorizza le buone prove degli attori. Abigail Breslin fa ottimamente il suo, ma la rivelazione è uno Schwarzenegger intenso, concentratissimo e soprattutto impotente come di rado l'abbiamo visto. Spalle basse, movimenti impacciati, tristezza costante... Hobson ce lo racconta come un uomo distrutto, sempre in difficoltà quando alle prese con la violenza, incapace di reagire e affrontare la situazione. E alla struttura fondamentalmente da classico dramma su una giovane condannata dalla malattia si aggiunge un ulteriore strato dettato dalla natura assurda del contagio, dal pericolo devastante che i malati rappresentano per chi sta loro attorno, dalla crudeltà degli unici modi in cui è possibile affrontare la questione. Insomma, Maggie non è un film perfetto, ma è un tentativo riuscito, toccante e intenso di affrontare in maniera diversa dal solito una fra le correnti più abusate dell'horror contemporaneo, parlando fondamentalmente di malattia, rassegnazione, accettazione.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, qualche settimana fa, ma in Italia esce oggi. Quanto sarebbe diversa, la concezione che abbiamo di Arnold Schwarzenegger, se i suoi doppiatori italiani avessero provato a replicarne l'accento? Vai a sapere.

24.6.15

Mountains May Depart


Shan he gu ren (Cina, 2015)
di Zhangke Jia
con Tao Zhao, Yi Zhang, Jing Dong Liang

Due anni dopo aver portato a casa il premio per la miglior sceneggiatura con Il tocco del peccato, Zhangke Jia è tornato sul luogo del delitto, ancora una volta a Cannes, per l'ennesima volta a raccontare, con un taglio e un'ispirazione sempre diversi, i mutamenti subiti nei decenni dal suo paese e dal suo popolo. Questa volta la via scelta è quella del melodramma, del triangolo amoroso con due vertici distantissimi, il proletario romantico tutto d'un pezzo che lavora in miniera e il testa dura innamorato dell'occidente, che si cambia nome in Peter, chiama il figlio Dollar e si trasferisce appena può in Australia, alla ricerca di un sogno capitalista che troverà forse solo nella propria testa. Nel mezzo, una donna tesa fra i due estremi, la cui storia non rimane al centro dell'azione per tutto il film ma fa comunque da filo conduttore che unisce apertura e bellissima chiusura sulle note di Go West.

Mountains May Depart è un film bizzarro, forse a tratti perfino sconclusionato. Si apre con un taglio leggero, sciocchino, che sembra quasi uscito da certi anime anni Ottanta (probabilmente difficile, per gente della mia generazione, non pensare a Orange Road/È quasi magia Johnny), e si fa via via sempre più drammatico e intenso, mentre salta da un decennio all'altro provando a raccontare passato, presente e futuro della Cina Moderna. Dagli ingenui anni Ottanta, carichi di aspettative per un futuro travolgente, si passa all'incasinato oggi e quindi a un domani un po' scassato, nel quale il figlio dell'uomo che ha "vinto" il triangolo si riscopre cinese senza una patria, esportato in un paese che non è il suo, incapace di rapportarsi con la lingua, la nazione e la famiglia da cui ha avuto origine.

Non tutto il film funziona allo stesso modo e soprattutto la parte ambientata nel 2025, con quel futuro dalla mobilia lucida targata Google e la sua ricerca di simbolismi fin troppo semplici, non riesce a trasmettere fino in fondo la potenza di ciò che racconta. Ma nell'imperfetto film di Zhangke Jia c'è comunque la forza di un melodramma delicato, intenso e toccante, una storia molto personale, tutta costruita attorno alla grande prova della protagonista Tao Zhao e più riuscita nel (ma forse anche più interessata a) parlare delle sue vicende, invece che del paese in cui vive. E a raccontare tutto al meglio ci pensa anche una cornice visiva e sonora fantastica, basata sull'utilizzo di tre formati diversi per le tre epoche (un po' come in Grand Budapest Hotel), ma anche su una composizione dell'immagine che raggiunge vette strepitose in quei momenti che raccontano tutto con lo sguardo, i movimenti degli attori, le musiche, senza alcun bisogno di affidarsi alla parola.

L'ho visto qualche tempo fa alla rassegna parigina del Festival di Cannes 2015. Non sembra essere ancora prevista una distribuzione italiana e, fra l'altro, i film di Zhangke Jia, sarà un caso, paiono arrivare dalle nostre parti a corrente alternata. Vai a sapere.

21.5.15

The Lazarus Effect


The Lazarus Effect (USA, 2015)
di David Gelb
con Olivia Wilde, Mark Duplass, Evan Peters

Come accade che il regista di Jiro e l'arte del sushi, la cui carriera sembra in linea di massima stare sviluppandosi all'insegna dei documentari, finisca a dirigere The Lazarus Effect? Vai a sapere. Magari è un appassionato di cinema horror. Magari è amico del cuore di Mark Duplass. Magari voleva conoscere Olivia Wilde. Chissà. Però è accaduto e ne è venuto fuori un film horror girato in maniera discreta e capace di tirar fuori qualche bella soluzione visiva, probabilmente anche grazie alla collaborazione fra Dabid Gelb e Michael Fimognari, già direttore della fotografia sul ben superiore Oculus. Ma, onestamente, non c'è molto altro, in un film forse eccessivamente bastonato dalla critica d'oltreoceano, ma che certo si limita al compitino diligente, fa tutto come da copione e non rischia neanche per sbaglio di scherzare con i limiti del rating PG-13.

Insomma, The Lazarus Effect è un horror medio, guardabile, a tratti perfino divertente, che ha soprattutto il gran merito di durare appena ottantatré minuti, affidandosi con forza al dono della sintesi. Può sembrare poco, ma di questi tempi è merce rara. La storia parte da una base che può ricordare l'oggetto bizzaro che fu Linea mortale di Joel Schumacher e racconta di alcuni ricercatori impegnati a lavorare su una cura miracolosa per quella brutta malattia chiamata morte. Proprio quando sembrano aver svoltato riportando in vita un cane, tutto va a rotoli: il cane resuscitato mostra segni di squilibrio, vengono tolti loro i fondi per la ricerca e, durante un tentativo impacciato di non perdere tutto, ci scappa il morto. Da lì in poi le cose vanno come da copione, con i ragazzi che decidono di provare la mossa della resurrezione e la resuscitata che esce dalla vacanza all'altro mondo con un carattere pesantemente virato verso il brutto.

A quel punto il film si trasforma in una classicissima storia di mostri, col babau infernale che fa fuori tutti uno alla volta, i "buoni" che provano a fare appello al buon cuore del boia e la veloce discesa verso un finale già scritto, in pieno stile horror anni Ottanta, di quelli in cui i tarallucci e il vino non sono di casa. Nulla di sconvolgente, ma anche nulla di tragico, per un film che, nel suo essere classico ben oltre i limiti del risaputo, risulta paradossalmente piuttosto fresco, in quest'era di found footage assortiti. Poi, certo, non c'è una sorpresa che sia una e l'angoscia sta da un'altra parte, ma in fondo ci si diverte abbastanza, c'è una bella messa in scena e gli attori tengono in piedi la baracca con interpretazioni solide e naturali dei tradizionali personaggi puniti col sangue per la loro moralità discutibile. Insomma, The Lazarus Effect è il classico horror dignitoso che non fa danni, non disturba, non sporca, si lascia serenamente guardare e ti dimentichi dieci minuti dopo essere uscito dal cinema.

Me l'ho sono visto al cinema a San Francisco, lo scorso marzo, al termine della trasferta per la GDC 2015. Fun fact: il rating PG-13 non è un divieto, è un'indicazione, e il risultato è che in sala c'era un'allegra famigliola con un bambino che avrà avuto al massimo sei o sette anni, che del film se ne fregava e voleva andarsene. Il che, fra l'altro, mi fa venire in mente quella volta che mia madre mi portò, tredicenne, a vedere Linea mortale, vietato ai minori di quattordici anni, e riuscì a farmi entrare piantando una scenata col cassiere. La differenza sta nel fatto che io non chiedevo altro. E nell'età. E nella consapevolezza, da parte di mia madre, che ero uno psicopatico.

20.5.15

Cold in July - Freddo a luglio


Cold in July (USA, 2014)
di Jim Mickle
con Michael C. Hall, Sam Shepard, Don Johnson

Partiamo dalle doverose premesse. Sono un discreto fan di Joe R. Lansdale. Nell'ultimo paio d'anni l'ho un po' perso di vista, ma ho letto quasi tutto quel che ha scritto e ho voluto molto bene a parecchi dei suoi romanzi. Non vado però matto per il Lansdale che vira più verso il thriller, quello per esempio di In fondo alla palude, Il lato oscuro dell'anima o Atto d'amore. E magari sarà per questo che Freddo a luglio fa parte del ristretto gruppo di suoi romanzi a cui non mi sono dedicato. Non so cosa sia, ma c'è qualcosa che non mi convince nel Lansdale che si prende più sul serio. Magari è un problema mio, ma per me il suo meglio lo dà nell'horror stralunato di La notte del drive-in, nel ciclo di Hap e Leo (nonostante gli ultimi libri della serie mostrino un po' la corda) e in romanzi come Tramonto e polvere. Se c'è però un singolo tratto distintivo che gli riconosco sempre, anche nei suoi libri meno riusciti, è la capacità di raccontare storie scorrevoli, coinvolgenti e dai dialoghi brillanti, efficaci, divertentissimi. È, fra i suoi tanti pregi, uno dei più evidenti e costanti.

Il fallimento principale del Cold in July cinematografico sta proprio nel non essere riuscito a trasportare al cinema quella capacità di scrivere i personaggi e le loro interazioni. Manca la classica verve di Lansdale, la sua bravura nell'infilare in bocca ai protagonisti battute che ti ricordi per mesi e che vai a condividere col mondo su Facebook. Manca quel sapore lì, tutto particolare e fortemente distintivo. D'altro canto, è forse l'unico reale limite di un film per il resto molto riuscito, ben diretto da un Jim Mickle che mostra forse per la prima volta di saper padroneggiare a dovere cambi di registro e di stile continui, assecondando un racconto che ha la sua principale intuizione proprio nel mescolare, attraverso le proprie svolte narrative, commedia, dramma, thriller, poliziesco, azione e perfino una punta di orrore. In questo, senza dubbio, Cold in July è un gran bel film.

Dove poi l'adattamento funziona a meraviglia è nel saper mettere su schermo i classici eroi romantici un po' scapestrati di Lansdale, grazie anche a un trio di attori davvero azzeccati. È difficile immaginare gente più adatta di Sam Shepard e Don Johnson per interpretare ruoli nati dalla capoccia del romanziere texano e il secondo, in particolare, regala un'interpretazione di quelle che si meritano di rilanciare una carriera. È soprattutto grazie a loro, e al comunque bravo Michael C. Hall, se Cold in July regge nel suo continuo gioco di ribaltoni e coinvolge nonostante certe scelte stilistiche un po' troppo focalizzate sullo strizzare l'occhio con l'ambientazione eighties. E poi, al di là di tutto, l'aspetto migliore del film è la promessa che rappresenta: Mickle è al lavoro su una serie TV dedicata a Hap e Leo per conto di quella brava gente di Sundance Channel. Incrociamo le dita.

Nel mondo il film c'è uscito l'anno scorso e infatti io me lo sono visto a gennaio, al cinema, qua a Parigi, nello splendore della lingua originale e dei suoi polverosi accenti texani. In Italia ci arriva oggi, direttamente sul mercato dell'home video.

7.5.15

Forza maggiore




Turist (Svezia, 2014)
di Ruben Östlund
con Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Clara Wettergren

Ah, le vacanze in famiglia! Papà, mamma, figlio e figlia, tutti nel fiore degli anni, all'apice della forma, felici e sorridenti, pronti a godersi una settimana di riposo e divertimento sulle alpi francesi. L'albergo è confortevole, gli impianti sciistici sono di primo livello e quel ristorantino coi tavoli sulla balconata del rifugio è una delizia. Fantastico, no? No? "Niente male", almeno? Sì, dai, niente male, perché poi in una famiglia ci sono sempre quelle piccole tensioni irrisolte, quei problemi che non si affrontano per mancanza di tempo, voglia o coraggio, e la vacanza serve spesso più che altro a dimenticarsi cosa non va e concentrarsi su quel che funziona. Solo che non sempre ci si riesce, perché a stare in quattro chiusi nella stessa stanza, impegnati nella routine quotidiana fissa da sciatori, si finisce inevitabilmente per cozzare. Soprattutto se ci si mette di mezzo una valanga.

Forza maggiore, quarto film dello svedese Ruben Östlund, vincitore del premio della giuria a Cannes, candidato come miglior film straniero ai Golden Globe e "snobbato" poi dagli Oscar, parte da questa situazione e si appoggia su uno spunto forte per chiacchierare di rapporti umani, ipocrisie, difficoltà famigliari, sentimenti e piccole menzogne. Posto di fronte all'improvviso panico per un pericolo imminente, il padre pensa a salvarsi la pelle e non degna di uno sguardo la sua famiglia, che in realtà non corre alcun rischio, ma ci resta un po' di sasso. A conti fatti non succede nulla di grave, ma qualcosa si è incrinato: lei è sconvolta, lui nega l'evidenza, il dubbio si infila con forza e l'intero nucleo famigliare sembra in procinto di finire allo sfascio a causa dell'improvvisa voragine appena apertasi fra mamma e papà.

Seppur magari un po' forzato in alcune reazioni, lo spunto è affascinante, per il modo in cui fa da apertura per raccontare mille aspetti dei rapporti umani all'interno della famiglia. E la bellezza del film sta soprattutto nel tono tenuto da Östlund, che si allontana dai personaggi e tratta il racconto quasi come un'indagine giornalistica, senza farsi trascinare dalle emozioni, senza offrire letture facili, lasciando allo spettatore il compito di dare la propria. E poi, nelle belle immagini e nel placido muovere la macchina da presa del regista fra i corridoi dell'albergo e le piste da sci, c'è quell'inconfondibile sapore nordico fatto di ritmi lenti, posati, sfiancanti, e umorismo improvviso, assurdo, dissacrante. Insomma, Forza maggiore è un filmone, che ha un sacco di cose da dire e le dice in una maniera cinematograficamente forte, mai pedante.

Me lo sono visto al cinema a febbraio, qua a Parigi, in lingua originale sottotitolata. Chiaramente i personaggi parlano in svedese, ma a un certo punto si manifesta un americano e diventa tutto un saltellare fra una lingua e l'altra. Chissà se questa cosa è stata mantenuta nel doppiaggio italiano? Comunque, in Italia ci arriva oggi, anche se trovarlo in una sala vicino a casa vostra potrebbe non essere facile. Fun fact: il titolo internazionale è Force Majeure, ma ai francesi non andava bene e l'hanno ribattezzato Snow Therapy. Wut?

5.5.15

Un ultimo (?) post inutile su Battlestar Galactica


Tanto tempo fa, in una galassia lontana, se n'è saltata fuori dal nulla (si fa per dire) quella serie strepitosa di Battlestar Galactica. Come qualsiasi serie del pianeta, anche questa aveva alti e bassi, momenti controversi, fan irriducibili e quelli che la odiavano a morte. Mano a mano che me la guardavo, coi miei soliti ritmi alla un po' come viene, passando da un cofanetto di DVD all'altro, ne ho scritto qua sul blog, lungo una serie di post che, volendo, è possibile recuperare a questo indirizzo. Però, per qualche motivo, quando ho finito di guardare la quarta stagione, lei e le due maledette parti in cui l'hanno divisa, non ho scritto nulla al riguardo. Avevo la bozza pronta qua su Blogger, eh, con tanto di immagine di apertura, dati iniziali e tutto quanto, il che è fra l'altro più di quel che faccio solitamente quando creo le bozze qua su Blogger. Ero pronto a scriverne, ma non l'ho mai fatto. Come mai? Vai a sapere.

"Perché faceva pietà", urla qualcuno dal fondo della sala. Ma no, non faceva pietà. Certo, quella mossa un po' avanti nei tempi di spezzarla in due sezioni non le fa un gran favore e sì, tutta la parte dedicata alla missione spirituale di Starbuck mi ha fatto due palle così, però poi l'annata si riprende in abbondanza verso metà stagione, soprattutto grazie alla strepitosa parte dell'ammutinamento, e lancia un crescendo finale che chiude molto bene tutti i discorsi aperti con calma nel corso degli anni. Continuano ad esserci alti e bassi? Sì. Ma del resto, per come la vedo io, l'unica stagione davvero senza grossi punti deboli rimane quella iniziale. Vogliamo aggiungerci che la rivelazione sull'ultimo Cylon, a conti fatti, non vale le precedenti? Tranquillamente. Eppure quell'ultima manciata di puntate, che saluta i tanti personaggi in maniera emotivamente forte e dà una chiusura da molti poco amata, ma secondo me molto in linea coi toni spirituali che hanno percorso l'intera serie, me la ricordo come efficace e riuscita ancora quattro anni dopo.

E come mai ne scrivo oggi? Perché improvvisamente mi sono guardato Battlestar Galactica: The Plan, l'unico pezzetto di 'sta serie che ancora mi mancava. Perché ora e non all'epoca? Qualcuno mormora in fondo alla sala, ma non saprei dare un motivo preciso. Ce l'avevo lì, non l'ho mai guardato, è capitato. Forse il fatto è che, una volta giunto alla fine, non sentivo poi 'sto gran bisogno di tornare indietro. M'è venuta voglia adesso perché l'ho notato che mi guardava dallo scaffale e, insomma, poverino, era lì abbandonato da quattro anni, m'ha fatto pena. Mi sono tolto lo sfizio, dunque, giungendo alla conclusione che tutto sommato potevo farne a meno. The Plan ripercorre la miniserie iniziale e le prime due stagioni mostrando gli eventi dagli occhi dei Cylon, riempiendo buchi, aggiungendo dettagli, illuminando sui diversi punti di vista. A tratti è interessante, in certi aspetti propone spunti gustosi e ha un paio di scene piuttosto azzeccate, ma insomma, m'è sembrato veramente il trionfo del superfluo. Del tutto inutile? Ma no, dai, alla fine è stato gradevole tornare per un paio d'ore in quell'universo che tante soddisfazioni m'ha dato. Anzi, in questo senso, forse, l'aver atteso quattro anni, se da un lato mi ha ovviamente impedito di cogliere tutte le sfumature e i riferimenti, dall'altro ha ampliato proprio quel piacere lì del ritorno a casa.

Quando avevo preparato questa bozza, quattro anni fa, avevo appena scoperto che nella versione italiana Adama si chiama Adamo e Starbuck si chiama Scorpion. Oggi come allora, la mia reazione rimane quella che lascio qua di seguito: non voglio sapere altro, voglio solo smettere di soffrire.

4.5.15

American Horror Story: Coven


American Horror Story: Coven (USA, 2013/2014)
creato da Ryan Murphy e Brad Falchuk
con Jessica Lange, Sarah Paulson, Taissa Farmiga, Kathy Bates, Angela Bassett, Evan Peters, Emma Roberts, Frances Conroy, Lily Rabe, Danny Huston, Denis O'Hare

Rispetto alle due precedenti stagioni, American Horror Story: Coven sceglie un approccio abbastanza diverso, meno casinista nel mescolare centomila cose assieme accazzodecane, più lineare nel dedicarsi solo ed esclusivamente al suo argomento principale. Poi, certo, quell'argomento principale lo tratta facendo un gran pastrocchio, altrimenti non sarebbe American Horror Story: streghe bianche e streghe di colore, vudù e zombi, resurrezioni stile Frankenstein e misticismi d'accatto, cacciatori di streghe corporativi e donne capaci di diventare streghe senza esserlo per davvero. C'è di tutto e di più, la qualunque a tema stregoneria, ma ci si limita appunto a quel campo da gioco, tolta l'eccezione del serial killer di passaggio che ha la sfortuna di finire coinvolto nelle vicende dell'allegra famigliola.

Si parla insomma di streghe, raccontando le vicende di una congregazione centenaria alle prese con un punto di svolta drammatico nella loro storia, e lo si fa abbracciando in maniera ancora più aperta il tono smaccatamente "easy" che già a tratti emergeva nelle due precedenti stagioni. Di horror, ormai, c'è quasi solo la facciata: la sempre inquietante sigla iniziale, due o tre immagini sanamente creepy che emergono di qua e di là, qualche ettolitro di sangue e in generale il farsi pochi problemi a trattare tematiche un po' scomode. Ma l'inquietudine non è esattamente di casa, come del resto è forse anche inevitabile quando metti al centro delle vicende un gruppo di adolescenti squinternate che si tirano i capelli a vicenda per conquistare il ruolo di reginetta del ballo.

In un certo senso siamo in zona Buffy, in quell'area da horror all'acqua di rose che lo stesso True Blood è andato ad occupare di prepotenza dopo un paio di stagioni e che in fondo, per certi versi, ha sempre fatto parte dell'anima di American Horror Story. La maschera viene forse gettata definitivamente sull'assalto degli zombi risolto a botte di motosega, ma è un po' tutta la stagione a seguire questi binari pazzerelli e, come al solito, il divertimento si piazza su quel labile confine che separa la fase "Sì, ancora, apri a mille, spara tutto" da quella "OK, qua si è andati troppo oltre". Con Stevie Nicks, forse, si va un po' oltre, ma per il resto siam sempre lì: American Horror Story è un tripudio scemotto e ben poco spaventoso di sangue, romanticismo caramelloso e idiozia, che funziona solo se si sta al gioco. E se si sta al gioco, in mezzo al paciugo, si trovano un po' di idee fenomenali (quanto è bella la satira del tira e molla con cui madame LaLaurie non si pente, poi si pente, poi si pente di essersi pentita, poi addirittura mostra orgoglio?), parecchie risate e un branco di attrici fuori misura, con Jessicona Lange a guidare il branco ma Angela Basset e Kathy Bates a risponderle per le rime. E poi c'è quell'idea di base della regina condannata a morte, senza poterci fare nulla nonostante viva in un contesto nel quale praticamente chiunque muore e resuscita con uno schiocco di dita, che è un po' sbalestrata e forse non funziona dall'inizio alla fine, ma quando ingrana colpisce per davvero. Insomma, non m'ha affascinato come alla seconda annata e non m'ha allucinato come alla prima, ma per me anche al terzo giro è stato un piacere.

Lo guardo su Netflix, con la calma che è propria di Netflix. Quindi, per la quarta stagione, mi tocca aspettare innanzitutto ottobre, e poi il momento in cui avrò voglia di guardarla. Cose che capitano.

28.4.15

The Fall - Caccia al serial killer - Serie 1/2


The Fall (GB, 2013/2014)
creato da Allan Cubitt
con Gillian Anderson, Jamie Dornan

Ambientato in quel posticino tranquillo e rassicurante che dev'essere Belfast nei suoi giorni migliori, The Fall racconta le vicende di una "superintendent" della polizia inglese che viene spedita in Irlanda del Nord per aiutare nelle indagini su un omicidio e si rende conto abbastanza in fretta che la cosa è più grossa di quel che si aspettava. A interpretarla c'è Gillian Anderson, che per tanti anni ha fatto forse un po' fatica a scrollarsi di dosso il ruolo di Scully ma qui trova un personaggio dalla forza pazzesca, scritto a meraviglia, carismatico e su cui si poggia sostanzialmente l'intera serie. La sua Stella Gibson non è una poliziotta forte da barzelletta, una macchietta generatrice casuale di frasi da dura, è una donna forte, di carattere, che si è conquistata il proprio ruolo con le unghie e non cede mai di un passo, non rinuncia alla propria femminilità e, anzi, la vive alla propria maniera senza chiedere nulla, o chiedere scusa, a nessuno.

All'altro angolo del ring c'è il Paul Spector di Jamie Dornan, un bravo ragazzo, padre di famiglia affettuoso, impegnato sul lavoro per aiutare come consulente psichiatrico le donne vittime di abusi. Una bella persona, insomma, giovane, dal sorriso affabulante e col pettorale guizzante. Che però ha un piccolo problema, una psicosi di poco conto: ogni tanto si fa prendere dal bisogno di accanirsi su una donna. Non una donna qualsiasi, eh, non stermina masse a caso: scova la sua preda, la studia, la segue, impara a conoscerla e poi - tac - la assale e ci fa un po' quel che vuole. E il fascino del personaggio sta anche lì, nella sua semplicità, nel classico "Sembrava una così brava persona" e nel modo in cui, pur essendo preda della propria debolezza, non le sfugge, anzi, la fa propria e la alimenta con tutte le forze. Poi, certo, non riesco a fare a meno di ridacchiare pensando che hanno preso quello strangolava le donne in TV per fargli fare quello che propone alle donne di farsi frustare al cinema e chiedermi se la carriera del povero Dornan sarà per sempre così, un po' come William Shatner è sempre stato Kirk. Speriamo di no, povero.

A ideare e raccontare le vicende di questi due personaggi e di chi ruota loro attorno è Allan Cubitt, uomo di televisione con oltre vent'anni di carriera alle spalle e che con The Fall ha trovato forse il suo progetto più personale e a lui più caro. Dopo aver scritto per intero la prima serie da cinque puntate, ha deciso che non era abbastanza e si è preso in carico anche il ruolo di regista per le sei puntate della seconda annata. E ha tirato fuori una gran bella serie, splendidamente diretta e fotografata, che porta avanti il proprio racconto con quel placido abbandono tipico di una certa televisione europea e immerge in un'atmosfera talmente pesante, sordida, buia, che dopo ogni puntata hai bisogno di riprenderti guardando una sitcom e mangiando un gelato. The Fall è un ottimo poliziesco, intelligente, ricco di spunti, curato nella scrittura dei personaggi e appassionante nello sviluppo delle vicende. C'è qualche aspetto che funziona meno degli altri e tutta la faccenda del marito rabbioso mi pare una maniera un po' forzata di far accadere alcune cose, ma l'intero cast è talmente pieno di ottimi attori che riesce a farti accettare tutto. E poi c'è quel modo così strano di tirare le fila: la seconda serie, in maniera non poi tanto dissimile dalla prima, offre una chiusura, ma lascia anche tanto di aperto per possibili sviluppi futuri. E per fortuna di recente è stato confermato che ne vedremo una terza. Bene così.

Io The Fall me lo sono guardato su Netflix, ma in Italia lo trasmette Sky Atlantic e proprio stasera iniziano a dare la seconda serie. Così, ve lo segnalo. Vedete un po' voi cosa fare.

24.4.15

24: Live Another Day


24: Live Another Day (USA, 2014)
creato da Joel Surnow e Robert Cochran 
con Kiefer Sutherland, Mary Lynn Rajskub, Yvonne Strahovski, Kim Raver, Tate Donovan, William Devane, Michael Wincott, Benjamin Bratt, Gbenga Akinnagbe

L'ottava stagione di 24 ha i suoi bei problemi e i suoi bei momenti, come del resto praticamente tutte tranne la quinta, praticamente perfetta, e la sesta, praticamente una merda. Ma se c'è una singola cosa che quell'ultima annata fa è centrare alla perfezione il gran finale. E non è poco, quando hai il compito di chiudere una serie così. L'ultima manciata di episodi mette in scena un crescendo pazzesco e va a concludersi su una scena dalla potenza rara, con Jack Bauer che saluta come solo lui può fare. Hai detto niente. Che però il saluto non sarebbe stato estremo è stato chiaro fin da subito e poco importa se alla fine è stata abbandonata l'idea del film per puntare su una nuova stagione a durata ridotta: Jack è tornato a spaccare tutto armato della sua magica tracolla. E Live Another Day ha rappresentato un gran bel ritorno. Magari non perfetto, per carità, ma comunque avercene.

Già il concetto di partenza, conservare la narrazione in tempo reale ma dimezzare il numero di puntate nel tentativo di eliminare i tempi morti, ha quell'ottimo sapore dell'ammissione di colpa e del desiderio di farsi perdonare. E funziona. Intendiamoci, il personaggio inutile e dalla storia intollerabile, utilizzato per allungare il brodo fra una cosa importante e l'altra, c'è anche questa volta, ma tutto sommato la sua presenza è limitata, perché di tempo da perdere ne avevano davvero poco. E già questa è una vittoria. La scelta di procedere come al solito in tempo reale e giocarsi un balzo temporale sul finale per non smentire il discorso delle ventiquattro ore, poi, è un compromesso dignitoso, anche se leggo in giro di parecchia gente infastidita dalla cosa. Ma insomma, nel complesso, il delicato tentativo di snellire la serie e sfrondare quel che non funziona senza per questo tradire lo spirito originale m'è sembrato riuscito.

E lo spirito di 24 c'è tutto, nel modo in cui viene raccontata l'azione, nella natura dei due protagonisti storici, il cui viaggio personale è ormai diventato il cuore della serie e qui viene portato avanti in maniera azzeccata, e in tutti quei cliché che siamo ormai abituati ad aspettarci. Certo, dopo otto stagioni, alcune cose finiscono per essere prevedibili ed è difficile non capire abbastanza in fretta chi sarà la talpa di turno, considerando come si comporta. Ma non è un problema, fa parte del gioco. Fa parte del gioco anche la continuity strettissima, che è sempre stata un elemento cardine della serie e qui torna prepotentemente d'attualità, andando a chiudere tanti discorsi importanti che se lo meritavano. Nel farlo, tra l'altro, Live Another Day rimette al centro delle vicende le questioni della famiglia presidenziale, rimediando a uno fra gli errori più grossi dell'ottava stagione e regalandoci con Mark Boudreau un antagonista spettacolare. Aggiungiamoci che il cast di supporto è tra i migliori che abbiano mai graziato la serie e che il crescendo finale è, come quasi sempre, clamoroso, e io onestamente ho poco da lamentarmi. Sì, nella prima metà riesce ad esserci qualche brutto calo d'interesse nonostante la durata dimezzata e sì, il terrorista di turno non è esattamente un tripudio di carisma, ma è stato un gran bel ritorno a casa, anche se il pianeta non sembra essere più interessato a 24 come un tempo. Ma poco importa, perché in fondo, questa nona stagione (o quel che è) era palesemente un regalo per i fan. Lo si vede da come è costruita, dalla fedeltà al modello nonostante le modifiche e da quel che racconta. Ed è giusto così.

A me comunque l'idea di un film che se ne sbatta della narrazione in tempo reale continua a non dispiacere. Ma insomma, dubito. Magari un'altra stagionina? Il ritorno di Logan?

22.4.15

A Most Violent Year


A Most Violent Year (USA, 2014)
di J.C. Chandor
con Oscar Isaac, Jessica Chastain, David Oyelowo

Nel 1981, New York City dovette affrontare quello che le statistiche stabilirono essere l'anno più violento nella storia della città, grazie alla bellezza di 1841 omicidi. Il senno di poi ci dice che quel record durò poco, dato che il tasso di violenza continuò a crescere in maniera ininterrotta fino al 1991, ma tant'è, vai a raccontare a un newyorchese del 1981 di non lamentarsi perché poi le cose andranno peggio. Da questo dato statistico nasce il titolo dell'ultimo film di J.C. Chandor, regista parecchio apprezzato da queste parti grazie agli ottimi Margin Call e All Is Lost, che con questa sua terza opera si conferma autore interessante, estremamente versatile e dalla notevolissima personalità, capace di emergere anche quando, come in questo caso, si impegna soprattutto ad omaggiare i grandi classici del passato e realizzare un film come non se ne fanno più.

A Most Violent Year è infatti sotto molti punti di vista una sorta d'esercizio di stile, un tentativo riuscitissimo di realizzare un film che pare uscito per direttissima da un'epoca ormai svanita dell'Hollywood che conta. Il suo fascino tutto particolare arriva in larga misura proprio da questo approccio riverente, magari a tratti troppo innamorato del proprio classicismo, ma che comunque non scivola mai in ammiccamenti forzati. Nonostante questa natura un po' retrò, chiaramente resa ancora più forte dal contesto narrativo, dall'ambientazione d'epoca sottolineata a botte di abiti e pettinature, Chandor riesce però a imprimere sul racconto una personalità unica e fortissima. Lo fa grazie alla pazzesca ricerca visiva, al taglio funereo che la fotografia imprime su tutto il film, alla forza espressiva che emerge nell'utilizzo di ogni singola location e alla capacità di padroneggiare temi alti e raccontarli senza ipotizzare un pubblico di storditi da imboccare col cucchiaino.

Quella di Chandor è una New York viva, ma moribonda, preda di una decadenza morale a cui il suo protagonista cerca strenuamente di opporsi, ritrovandosi però costretto a scendere sempre più a patti con la realtà. Ne viene fuori un film strano, dal ritmo letargico ma bizzarramente ipnotico, una sorta di thriller placido che a tratti si risveglia con due o tre sequenze dalla potenza e dalla tensione fuori scala. E tutto ruota chiaramente attorno all'incredibile bravura di Oscar Isaac, che ancora una volta prende possesso di un film e lo domina dall'inizio alla fine, in ogni momento, in scene clou come quel fantastico monologo ai dipendenti ma anche in momenti più piccoli e apparentemente insignificanti. A Most Violent Year è soprattutto suo, nonostante il resto del cast esprima comunque il magnetismo delle grandi occasioni, ed è anche e soprattutto per godersi un'altra notevole performance di uno fra i migliori attori sulla piazza che bisognerebbe gustarselo. In attesa che jedi e mutanti riescano a donargli l'attenzione che meriterebbe ormai da un po'.

Uscito in America a fine 2014, probabilmente nel tentativo fallimentare di inseguire qualche Oscar, A Most Violent Year si è poi girato un po' tutti i paesi che contano ma sembra proprio non avere intenzione di graziare con la sua presenza i cinema italiani. Regolatevi di conseguenza, se non l'avete ancora fatto.

21.4.15

Scribe


Scribe (USA, 2014)
di Bob Ryan 

Bob Ryan è un giornalista sportivo americano, nato a Trenton, nel New Jersey, poco meno di settant'anni fa. In pensione dal 2012, continua a manifestarsi saltuariamente su riviste, quotidiani e trasmissioni televisive assortite, forte della sua esperienza enciclopedica, del suo bagaglio da storico dello sport e della sua profonda conoscenza di pallacanestro, baseball, varie ed eventuali. E io so a malapena chi sia. Sicuramente mi sarà capitato di vederlo apparire in qualche trasmissione televisiva americana o di leggere qualche suo articolo in giro per l'internet, ma da qui a conoscerne realmente il nome ci passa il fatto, presumo, di vivere dall'altra parte del pianeta. Epperò, qualche tempo fa ho ascoltato un episodio del B.S. Report di Bill Simmons in cui era ospite, chiacchierava dell'evoluzione del giornalismo nel corso dei decenni e, ovviamente, promuoveva il suo nuovo libro. Conseguenza? Ho comprato il libro. Ho fatto bene? Ho fatto bene.

Scribe è il classico libro da giornalista sportivo che si guarda alle spalle e ripercorre la propria vita, la sua carriera, le mille esperienze, cercando di utilizzarle come pretesto per parlare delle diverse epoche che ha attraversato. Ne vengono fuori oltre trecento pagine scorrevoli, affascinanti, in cui si percepiscono chiaramente il suo amore per lo sport e la passione, il rispetto, l'attaccamento alla professione cui ha scelto di dedicarsi. Ryan salta di qua e di là, raccontando gli inizi della sua carriera e i legami stretti con i campioni del passato in un periodo nel quale l'accesso agli atleti era vissuto in maniera totalmente diversa rispetto a oggi, andando a percorrere un po' tutta l'evoluzione del mestiere di giornalista sportivo dagli anni Sessanta a internet.

Nel farlo, racconta aneddoti deliziosi, ricorda i suoi rapporti - non sempre e non necessariamente amichevoli - con la gente di cui parlava come "columnist" e butta lì riflessioni, opinioni, approfondimenti su tanti avvenimenti sportivi ormai storici, oltre che su qualche argomento anche più di attualità, tipo la carriera in divenire del caro Lebron. Chiaramente, a leggerlo da questa parte dell'oceano, è difficile cogliere tutta una serie di riferimenti al giornalismo sportivo americano, ma rimane comunque il fascino di leggerli raccontati, al di là del fatto che per la maggior parte del libro Ryan parla soprattutto degli sport che ama. Poi, certo, bisogna essere interessati perlomeno a quegli sport, ma insomma, mi pare anche il minimo. Consigliato, assolutamente, a chi ama lo sport americano e anche a chi ama un certo tipo di giornalismo.

Il libro è disponibile solo in lingua inglese e dubito ci sia una anche vaga possibilità di vederlo tradotto in italiano. Magari sbaglio, eh. Vai a sapere. lo si trova comunque su Amazon in un po' tutte le forme: cartonato, brossurato, Kindle, perfino audiolibro!

20.4.15

You're the Worst - Stagione 1


You're the Worst - Season 1 (USA, 2014)
creato da Stephen Falk
con Chris Geere, Aya Cash, Desmin Borges, Kether Donohue

In casa San Maderna vige la malsana abitudine di guardare due serie in parallelo. Una con gli episodi lunghi, una con gli episodi brevi. Uso questa distinzione perché stare ancora a dividere fra "drama" e "comedy" sulla base della durata quando esistono cose totalmente trasversali come Orange is the New Black, Transparent, Girls e Louie in entrambe le "fasce" mi sembra sempre più assurdo e perché la sostanza comunque è quella: "Guardiamo una roba breve o una roba lunga?". Si guardano poche cose seguendo i ritmi della trasmissione televisiva, qua, giusto le serie Marvel e quella lì degli zombi, e non so neanche bene per quale motivo. Il resto è "Voglio la stagione completa, poi ci penso io". E se ne guardano due in parallelo, secondo quel metodo lì, procedendo un po' come capita. Senza sgarrare, eh. Siamo gente con grossi problemi, viviamo dominati dagli excel. In questo contesto, qualche tempo fa, dopo aver prosciugato tutte le stagioni di 30 Rock a botte di Netflix, ci siamo messi a guardare You're the Worst, ispirati dal fatto che praticamente chiunque sull'internet ne parlava come del secondo avvento della sitcom. E, in linea di massima, aveva ragione.

Come mai? Beh, per ragioni molto semplici. Intanto perché ha un cast perfetto, con quattro protagonisti azzeccatissimi, dal carisma infinito e che soprattutto nell'incredibile intesa fra i due personaggi principali trova gran parte della sua fortuna. Poi c'è il fatto che riesce nel miracolo di evitare quasi interamente l'avvio un po' impacciato che caratterizza quasi tutte le sitcom impegnate a prendere totale dimestichezza con personaggi, situazioni e tormentoni che possono funzionare. Certo, l'episodio pilota è ben lontano dall'essere il migliore della stagione, ma è già un gioiello che riassume alla grande il mix di cattiveria, scorrettezza, tenerezza e profondità nel caratterizzare personaggi, situazioni e rapporti. E la stronzaggine dei suoi protagonisti. Perché poi il fascino di You're the Worst sta anche e soprattutto lì, in quel mix assurdo e assurdamente realistico che riesce a creare grazie al suo essere, in buona sostanza, la commedia romantica di FX, quindi del canale che basa gran parte del suo successo su sangue e merda.

Ma soprattutto, You're the Worst è una sitcom che riesce ad essere una sitcom fregandosene di essere una sitcom. Non sono sicuro che questa cosa abbia senso, ma il punto è che Stephen Falk ha preso un po' tutti i cliché del genere, li ha appallottolati, ne ha conservati un paio rigirandoseli come voleva e ha buttato tutto il resto nella tazza del cesso. Di solito, le sitcom basano i loro intrecci amorosi o sull'eterno dubbio "Si decideranno?" o sull'impossibilità di mantenere le cose interessanti dopo che si son decisi e la necessità di sfasciare quindi tutto. E invece You're the Worst ha il coraggio di levarsi i dubbi dalle scatole dopo pochi minuti e mettere in piedi una serie in cui - pazzesco - una storia riesce a risultare interessante anche dopo che una coppia si è formata. Ne viene fuori una creatura adorabile, un trionfo di cattiveria e acidità sotto cui si nasconde una storia d'amore dolce e con tante cose da dire, oltre che raccontata con grandissima padronanza tanto dei tempi comici quanto degli sviluppi sentimentali. Ed è  scritta in una maniera incredibile, tanto nelle gag acide quanto nei momenti più seriosi. E quell'incertezza di sguardi su cui si conclude la prima stagione è fantastica.

Trasmesso in America l'anno scorso, è stato rinnovato per una seconda stagione, anche se spostato su FFX, che è un po' il fratello scemo del network principale. Non mi risulta essere ancora prevista una trasmissione dalle nostre parti ma chissà, magari, vai a sapere. Fun fact: di recente mi sono reso conto che Chris Geere mi ricorda  un sacco John Ingle di Inkle Studios. È stato complicato intervistarlo alla GDC senza pensare a quel che combina in TV.

17.4.15

The Guest


The Guest (USA, 2014)
di Adam Wingard
con Dan Stevens, Maika Monroe, Sheila Kelley, Brendan Meyer, Leland Orser, Lance Reddick

Qualche tempo fa, per la precisione a fine dicembre, m'è spuntato The Guest sui vari servizi di streaming online da cui mi abbevero. Servizi legali, non fate i furbetti che ridono dietro i baffi. A cui accedo facendo le cose buffe con l'IP, certo, but still. E poi comunque vivo in Francia, qua Netflix è arrivato, quindi mi sento un po' meno in colpa. Non che prima mi sentissi in colpa, perché pago, ma insomma. Comunque, sto divagando. Dicevo: a dicembre m'è spuntato The Guest ed era un film che attendevo abbastanza con la bava alla bocca. Voglio dire, era la nuova opera del regista di quella bomba di You're Next e sui siti che contano ne avevano già parlato benissimo, quindi ero abbastanza carico. Non sembrava essere destinato ad arrivare nei cinema francesi in tempi brevi, nonostante - come noto - in Francia esca al cinema praticamente qualsiasi cosa preveda delle immagini su uno schermo, e allora m'è sembrato inutile aspettare e ho proceduto alla visione. OK che, potendo, preferisco il grande schermo, ma insomma, c'è un limite a tutto.

In linea di massima, però, ultimamente, prima di scrivere di un film, provo a capire se e quando arriverà in Italia. Così, per fare servizio utile. E siccome You're Next in Italia c'è arrivato, pure piuttosto in fretta, ho voluto crederci. Ho voluto crederci talmente tanto che son passati quattro mesi e ancora nulla. A fine febbraio m'è girata di parlarne nel Podcast del Tentacolo Viola e mi sono reso conto che parlare di The Guest è un discreto casino, da un lato perché si tratta di un film completamente assurdo, dall'altro perché il modo in cui si sviluppa prevede una serie di svolte se vogliamo anche un po' prevedibili, ma che comunque è divertente gustarsi davanti allo schermo. E quindi mi sono un po' incartato, andando avanti per qualche minuto solo a dire "ficata... rosa... Carpenter... Dan Stevens... Maika Monroe... ficata... rosa... fucsia... rosa... zucche... Halloween... " e cose del genere. Immagino il messaggio principale, vale a dire il consiglio di recuperarlo, credo sia comunque passato, ma tant'è, non so se sono riuscito a spiegarmi.

Son quasi passati altri due mesi, continuo a non avere notizie su un'eventuale distribuzione italiana, oggi non avevo nulla di particolarmente attuale su cui scrivere, IMDB mi segnala che il film sta uscendo sul mercato dell'home video di un po' tutta Europa e, insomma, sai che è? Proviamo a vedere se riesco a scrivere qualcosa di coerente per spiegare come mai bisogna correre a guardarsi anche The Guest, se non lo si è già fatto. Che cos'è The Guest? È il nuovo film del regista di You're Next, e se non basta questa, come argomentazione, siamo un po' meno amici di prima. Ed è un film che da un certo punto di vista è concettualmente simile a You're Next, nel senso che anche qui Wingard e il suo amicone sceneggiatore Simon Barrett hanno voluto mescolare un paio di cose diverse. Per la precisione, The Guest è una specie di mix fra Halloween e Terminator, virato al fuxia e con il tizio biondo, giovane e fico di Downton Abbey come protagonista. Ganzo, no? Aggiungiamoci però anche un gran bel gusto nel mescolare assieme i generi, rielaborarli e omaggiarli apertamente, senza inventare nulla di nuovo, per carità, ma anche senza risultare stucchevole, anzi, avvolgendo grazie a una mareggiata di amore sincero e che non si nasconde dietro un dito.

Ecco, The Guest è soprattutto questa roba che ho descritto qua sopra, ammesso e non concesso che tale descrizione abbia un senso. Il riferimento principale, talmente ovvio da risultare quasi urlato, è Halloween, e lo è non solo in alcuni elementi della storia e nel taglio da slasher che per ampi tratti il film assume, ma anche nel setting e, banalmente, nel fatto che non credo ci sia una singola inquadratura in tutto il film priva di zucche. Sul serio, dovunque ti giri c'è almeno una zucca. Sembra di aver accettato un qualche patto col diavolo (o con il Soros di Ualone, per chi sa cosa intendo), in base a cui ti toccherà vedere zucche sullo schermo per il resto dei tuoi giorni. La prima volta che ti metti a guardare un film, o qualsiasi altra cosa, dopo aver visto The Guest, per un attimo hai il timore che ci saranno zucche anche lì. È il tripudio della zucca. E se non ci sono zucche, stai tranquillo che c'è qualcosa di arancione. E pure parecchio rosa. Perché il rosa è fondamentale, in The Guest.

 C'è indubbiamente anche molto verde.

Comunque, sia chiaro, mi sto incartando. Continuo a non sapere come parlare di The Guest. Però ci tengo, a parlare di The Guest, perché secondo me non ha la carica di You're Next ma è comunque un film delizioso e che merita di essere recuperato. Racconta di questo militare misterioso che va a trovare la famiglia di un suo compagno caduto, è fichissimo, bravissimo, si fa amare da tutti, forse inciucia con la madre dell'amico, forse inciucia con la sorella dell'amico, diventa fratello di sangue del fratellino dell'amico, cose così. E sembra nascondere un segreto. Ed è circondato da un mondo tutto rosa e colorato. Queste cose vengono espresse chiaramente fin dalla prima inquadratura e da lì è tutto in discesa, in un film che parte lento, accelera pian piano e ora della fine è un delirio assurdo di luci, suoni, colori, synth, violenza, cattiveria, sparatorie, bombe a mano, humour nero, Dan Stevens che è fantastico e c'ha un carisma che levati, Maika Monroe che è piuttosto brava e ha quel look da ninfetta bionda mh mh, colori sempre più a palla, un altro po' di synth e due o tre svolte magari prevedibili ma che in fondo sanno di essere prevedibili e comunque funzionano forse anche perché lo sono, prevedibili. Insomma, è un gran paciugo, con uno stile e una ricerca (audio)visiva pazzeschi e pieno di divertimento. Poi, sì, alla fine è anche un po' una roba fine a se stessa che non resterà nella storia. Ma insomma, che problema c'è? Viviamo davvero in un mondo in cui non vanno bene i bei film gradevoli, girati alla grande, che sprizzano carisma da tutti i pori e omaggiano John Carpenter (no, dico, John Carpenter) in una maniera così adorabile? No, ditemelo, eh, perché allora vado a vivere da un'altra parte.

Come dicevo, io l'ho visto a gennaio, in lingua originale, comodamente nel salotto di casa mia grazie a quel mondo meraviglioso in base al quale è possibile scucire due soldi e guardarsi un film senza sbattimento sulla pleistescion. Son passati quattro mesi, non ho capito se arriverà mai in Italia ma, ehi, ormai dubito che sia un problema recuperarlo.

 
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