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30.4.10

Shutter Island

Shutter Island (USA, 2010)
di Martin Scorsese
con Leonardo Di Caprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Max von Sydow, Michelle Williams


Shutter Island è, tanto per cominciare, il primo film di Martin Scorsese che non mi lascia addosso una sensazione "meh" dai tempi di Casino. Oh, son passati quindici anni, hai detto niente. Questo non significa che sia uno Scorsese ai suoi massimi livelli, o che sia un capolavoro. Proprio per niente. Però è un bel film, che mi sono goduto dall'inizio alla fine, che ha momenti davvero memorabili e che, insomma, mi ha dato soddisfazione. Boh, sarà anche che gioca con il mio genere preferito, vai a sapere.

Comunque, pare che il problema di Shutter Island sia che si sgama il colpo di scena a metà film. Io, pensa, l'ho sgamato nei primi cinque minuti. Quando i due protagonisti scendono dalla barca, per capirci. Ok, è successo probabilmente perché sapevo che c'era un qualche colpo di scena da sgamare, ma in ogni caso è successo, e ho passato praticamente tutto il film sapendo cosa m'avrebbero svelato a un certo punto. È stato un problema? No, visto che mi è piaciuto lo stesso da matti. Anzi, mi son goduto di più tutto quel lavoro di regia e di cura per il dettaglio messo in scena da Scorsese. Quelle cose per cui tipicamente si dice: "Vorrei guardarlo di nuovo per farci caso".

Ora, data la premessa, facciamo che non ho proprio voglia di girare attorno alle cose ed evitare gli spoiler. Quindi, chi non vuole sapere cos'è 'sta roba che ho capito dopo cinque minuti smetta di leggere dopo questo paragrafo, sapendo che Shutter Island è un gran bel film, con una splendida atmosfera, una fantastica sensazione di degrado costante e di continuo scivolare verso la follia, un fortissimo e per nulla sterile spirito cinefilo, delle sequenze oniriche dal fascino pazzesco, degli ottimi interpreti, qualche idea di sceneggiatura molto raffinata, un paio di spiegoni finali forse eccessivi ma che in effetti chiariscono altrettanti concetti non semplicissimi, un finale, quello sì, bellissimo e un regista che sembra dire: "Ora gli spiego io a 'sti stronzetti giovincelli come si fa il film di paura e col colpo di scena. Sì, sto parlando pure con te, indiano". Ah, occhio: può anche capitare che il taglio cinefilino e il colpo di scena sgamabile ti fottano un po' il coinvolgimento. A me non l'hanno fottuto, ma insomma, capita.

Dunque, si diceva: Di Caprio in realtà non è più un "federal marshall" da tempo ed è invece un paziente dell'istituto di Shutter Island. Ma per dimenticarsi l'orrore che l'ha portato lì, si è convinto di stare facendo ancora il suo lavoro e s'è inventato una roboante sequela di fesserie a giustificazione della cosa. Fesserie che il personale dell'isola decide di assecondare nell'estremo tentativo di farlo scendere a patti con la realtà. Il film si basa su quest'idea, certo, ma l'apice del racconto non è tanto la rivelazione, che avviene relativamente presto anche per chi non l'ha sgamata in anticipo, quanto piuttosto il tremendo, disperato, cupissimo finale, in cui un Teddy ormai guarito decide di fingersi ancora preda dell'illusione per ottenere il metodo di fuga definitivo. Una cosa poco più che suggerita, ma che tira un ulteriore pugno nello stomaco già indebolito dal precedente gioco di sguardi fra il personale dell'istituto, convinto che il loro lavoro sia tragicamente fallito.

Per il resto, fra quello sbarco sull'isola e quella terribile conclusione, c'è un film diretto con mano divina, che elargisce atmosfera a pacchi e generose manate, che dipinge un'immagine abbagliante dietro l'altra, che regala tanti piccoli e gustosissimi dettagli (sì, sì, il bicchiere, quello l'han visto tutti), che parla della morte di giovani virgulti con una forza e una sincera tranquillità non esattamente all'ordine del giorno nel cinema hollywoodiano. E che si interroga in maniera amara e fortissima sul senso di colpa e di accettazione, mostrando un protagonista che fugge dalla consapevolezza di aver in qualche modo permesso alla moglie di fare ciò che ha fatto e che arriva addirittura a inventarsi dal nulla un dolore fittizio, un malessere da reduce di guerra costruito a tavolino nel laboratorio della sua mente.

Certo, dopo una prima metà dalla bellezza sublime, il film sbanda un pochino, si dilunga in alcuni passaggi, ma paga anche il coraggio di tentare strade difficili e riesce comunque a percorrerle in maniera eccellente. E poi arriva quel finale lì, con quegli sguardi lì, quell'amarezza lì, quelle decisioni lì. Lì.

Il film l'ho visto in lingua originale al cinema Arcobaleno di Milano, nel contesto del sempre amabile ciclo Sound & Motion Pictures. Stavano insolitamente tutti zitti, al di là delle solite risatine/chiacchiere di chi si sta cacando sotto nei momenti di tensione e vuole nasconderlo facendo il figo. Importanza di guardare questo film in lingua originale? Beh, gli attori sono bravi e se lo meritano, per dirne una. Per dirne un'altra, riporto quanto trovato in coda a questo post: "Ovviamente traduzione e doppiaggio italiani penalizzano pesantemente anche questo film. I piani sonori di un film così ambientale sono – ci scommetto una palla – curati minuziosamente; l’edizione italiana presenta le voci tutte fuori e l’ambiente in cantina, come al solito. Il personaggio del medico interpretato da Max von Sydow è tedesco, e ha un accento tedesco che nel doppiaggio italiano manca del tutto. Questo rende assurda una serie di battute, e indebolisce una parte della trama. Poi, per fare un esempio, se «It’s out of the question» fosse stato tradotto «È fuori discussione» e non «È fuori questione», saremmo stati tutti più felici. Gli errori simili sono numerosi e insopportabili. E non ce ne frega un cazzo del labiale."

29.4.10

Firefly

Firefly (USA, 2002)
creato da Joss Whedon
con Nathan Fillion, Gina Torres, Alan Tudyk, Adam Baldwin, Morena Baccarin, Jewel State, Sean Maher, Summer Glau, Ron Glass


Se la prima stagione di Buffy l'ammazzavampiri è col tempo tremendamente invecchiata, viene difficile affermare lo stesso per Firefly. La sfortunata serie di Joss Whedon, primo suo tentativo “televisivo” al di fuori del mondo di demoni e vampiri, conserva oggi gli stessi pregi e difetti che la caratterizzavano anni fa. E rimane un vero gioiello, una specie di coito interrotto che parte con calma, s'intrattiene con piacevoli preliminari, cresce piano piano verso un'esplosione di piacere e poi, proprio lì, sul più bello, svanisce nel nulla e ti lascia inebetito, con un'espressione ancora più idiota del solito stampata in faccia, la bavetta a un angolo della bocca e una tremenda voglia di averne ancora.

La resistenza allo scorrere degli anni, ovvio, non è solo figlia della qualità, ma anche dell'ambientazione fuori dal tempo. Una specie di divertito, sporco, giullaresco mix fra western e fantascienza, che sposta letteralmente le avventure di frontiera (vai a sapere se ultima) nello spazio. Sui pianeti di Firefly ci sono società rurali, ci si muove a cavallo, si scatenano risse in saloon popolati da brutti ceffi e ci si spara revolverate al primo segno di diffidenza. Lo si fa, però, gironzolando a bordo di astronavi (sporche e burine tanto quanto chi le pilota, ovvio), piazzando mirini futuristici sulle bocche da fuoco e combattendo contro una federazione di militari impomatati e – loro sì – fantascientifici, con tanto di Star Destroyer del caso e uniformi militaresche.

Ma non è solo l'ambientazione a rendere interessante Firefly. C'è anche, per esempio, la solita, grande cura per i personaggi, le personalità, la crescita dei rapporti fra di loro e la continua evoluzione dei meccanismi che regolano l'ecosistema della Serenity, scassata astronave teatro di buona parte dell'azione. Ci sono le idee un po' fuori dal comune e che non si sono purtroppo potute sviluppare fino in fondo. C'è la scelta di dare un taglio realistico all'azione "stellare" (nello spazio nessuno può sentirti sparare). C'è uno stile registico e visivo che anticipa di un anno buono quello che poi si vedrà in Battlestar: Galactica. C'è una qualità della scrittura semplicemente fuori scala, con un perfetto bilanciamento fra umorismo smargiasso e delizioso dramma.

Certo, ci sono anche i limiti di budget, che però impoveriscono la messa in scena forse nel solo pilota, ci sono un paio di puntate meno riuscite delle altre e c'è soprattutto l'ansia di vedere il tutto interrompersi proprio sul più bello, quando gli episodi sono ormai uno meglio dell'altro e le trame ad ampio respiro sono lanciate verso l'infinito e oltre. Ma del resto, se prendi una serie comunque già un po' difficile di suo, decidi di iniziare a trasmetterla saltando l'episodio pilota e poi a un certo punto, nonostante il successo di critica, nonostante sia evidente che per come è costruita ci voglia un po' a ingranare, nonostante stia per la puttana finalmente ingranando abbestia, te ne salti fuori con un bel "sapete che è? Chiudiamo e neanche trasmettiamo gli ultimi tre episodi che avete girato", beh, devi veramente bruciare all'inferno.

Firefly l'ho visto e rivisto nel mio bel cofanettino in DVD (che include il pilota e i tre episodi extra, tutti messi nel giusto ordine) comprato anni fa su Play.com. So che è stato trasmesso pure in Italia, su un qualche canale di Sky, ma pare si sia perso tutto l'affascinante lavoro linguistico che in originale miscelava inglese, cinese e puttanate varie. Senza contare che uno che parla come Nathan Fillion va ascoltato in lingua originale, su.

28.4.10

Friday Night Lights - Stagione 1

Friday Night Lights - Season 1 (USA, 2006/2007)
creato da Peter Berg, Brian Grazer, Jason Katims
con Kyle Chandler, Connie Britton, Scott Porter, Taylor Kitsch, Minka Kelly, Zach Gilford, Aimee Teegarden, Adrianne Palicki, Gaius Charles, Jesse Plemons


C'è poco da fare, quando si mette di mezzo la retorica sportiva, se è ben fatta e scritta a puntino come in questo caso e in pochissimi altri, io non ci capisco più niente. E infatti, di fronte ai primi due episodi di Friday Night Lights, ho ripreso esattamente da dove avevo lasciato al termine del film: commuovendomi come uno stronzo. Perché le storie di quei ragazzini sepolti dalla responsabilità, dalla passione, dal fascino dello sport e distrutti dall'imprevisto, dal fallimento, dal senso di colpa mi lasciano così, un po' stranito e col fiato sospeso. E che ci posso fare?

Friday Night Lights nasce come romanzo giornalistico, scritto da H. G. Bissinger, sulle vicende della cittadina texana di Odessa. Romanzo che non ho letto ma che - a quanto trovo su Wikipedia - dalle iniziali intenzioni di semplice reportage in stile Hoosiers (chi sa, sa) si è trasformato in corsa in una forte critica allo stile di vita della cittadina, al genere di pressioni e priorità che vengono imposte ai ragazzi relativamente al football e al tremendo razzismo che si respira da quelle parti. Insomma, un mondo di favole e di piacere.

Poi arriva Friday Night Lights, il film, che forse non è altrettanto critico ma di sicuro è un gioiello, ben diretto da Peter Berg, pieno di attori in parte e appassionante come pochi grazie all'ottima scrittura e alla capacità di non eccedere nella bieca retorica. E poi c'è il telefilm, che racconta della fittizia cittadina di Dillon, del quale gli iuessei stanno attendendo la quinta e ultima stagione, con cui ha sempre le mani in pasta Berg e che, almeno a giudicare dal primo anno, non sfigura affatto rispetto alle altre due versioni. Anzi.

La prima caratteristica, fin troppo ovvia, del Friday Night Lights televisivo sta nel suo essere nato per il racconto seriale. Un pregio e una differenza rispetto al film sta proprio in questo, nella bravura con cui la cadenza settimanale viene sfruttata per far respirare allo spettatore il profumo di un'intera stagione sportiva (e accademica, via). I primi episodi, soprattutto, sono fantastici nel mostrare la violenza con cui di giorno in giorno cresce l'attesa per il venerdì sera e la monotona ciclicità attorno a cui ruota la vita dell'intera cittadina.

E poi proprio la struttura seriale permette agli sceneggiatori di affondare ancora di più le mani nella melma delle vite personali di tutti coloro che in qualche modo sono legati ai Dillon Panthers, mostrando personaggi estremamente credibili, ricchi, umani. La verosimiglianza, l'umanità, la visceralità sono i tratti più forti e convincenti della serie. Tratti che le permettono di andare oltre temi e situazioni fin troppo comuni nel genere sportivo e di sopravvivere ai saltuari momenti di stanca, a passaggi meno riusciti che sono comunque rarità, in una serie che riesce nel non facile compito di mantenere un livello costante per tutti e ventidue i suoi episodi.

Ma il bello, poi, è che la serie funziona in maniera meravigliosa esattamente come il film, nel suo sapersi reggere soprattutto sul lato umano, sulla scrittura e sulle fantastiche interpretazioni, per dare maggior potenza e trasporto all'aspetto sportivo. Aspetto tutt'altro che dominante, ma sempre presente sullo sfondo e pronto ad esplodere ogni volta che scatta il venerdì sera. Con quel devastante match che chiude il primo episodio. Con la trascinante esplosione di Matt Saracen. Con lo splendido, splendido, splendido (splendido) parallelo fra la semifinale e quel che nel frattempo avviene in una città deserta e abbandonata dalla sua popolazione. Una scena, quella, che davvero sta lì in cima nell'olimpo delle robe più belle mai viste in televisione, assieme a Buffy che trova il corpo sul divano, a Riker che spara i razzi in faccia a Picard, alla signora Longari che mi casca sull'uccello e a poco altro che adesso non mi viene in mente ma se me lo suggerite è sempre bello.

La prima stagione di Friday Night Lights mi è passata davanti agli occhi a fine 2009, ma questo post si è nascosto fra le innumerevoli bozze mai completate su Blogger, il cui numero cresce sempre di più e con sempre meno pietà. Guardare la seconda annata, però, mi ha fatto venire la voglia e l'ispirazione per scriverne qualcosa. Giusto perché son pignolo e se inizio a parlarne dalla seconda mi si scompagna il servizio. A proposito di servizio: l'ho vista in DVD, lingua originale, e non voglio neanche iniziare a sentire parlare di quel che han trasmesso su Rai 4. I Dillon Panthers senza la parlata texana non sono i Dillon Panthers. Clear eyes, full hearts!

27.4.10

È complicato

It's Complicated (USA, 2009)
di Nancy Meyers
con Meryl Streep, Alec Baldwin, Steve Martin


Mi piacerebbe dire che questo film è un po' come quell'altro film lì. Una roba semplice semplice, povera povera, ma simpatica, accattivante, abbastanza divertente e con Meryl Streep, Alec Baldwin e Steve Martin, che sono bravi, adorabili, irresistibili e tante altre cosette, seppur con qualche "issimi" in meno. Solo che guardando È complicato proprio non ce l'ho avuta, quest'impressione, e pur fra qualche risata ho visto davvero poco di interessante, oltre ad essermi pure piuttosto innervosito.

Il problema è che, nonostante Alec Baldwin sia lo stesso adorabile puccettone che da una decina d'anni buona illumina d'immenso qualsiasi cosa a cui partecipi, nonostante Meryl Streep sia ottima come al solito, nonostante lo Steve Martin attempato funzioni sempre bene in quel tipo di ruolo, qualcosa non m'è ingranato. Magari il problema è il taglio della Nancy Meyer, che proprio trovo tanto tanto pacchiana. Oppure è colpa di certe caratterizzazioni così tirate via. Dell'insostenibile famiglia che rotea attorno alla protagonista. Del fatto che Alec Baldwin ha dieci anni meno degli altri due, vale a dire il tempo che ha trascorso bombandosi Kim Basinger, quindi uno si chiede che senso abbia tutto questo.

Comunque, capiamoci, quel film lì di cui dicevo in apertura l'ha scritto e diretto una che nella sua vita ha tante colpe, ma ha pure il gran merito di aver partorito la sceneggiatura di Harry ti presento Sally. E hai detto niente. Questo qui l'ha diretto la stronza di What Women Want. E sì, lo so che ho scritto bene di L'amore non va in vacanza, però, dai, abbiate pazienza, l'avevo guardato in aereo e c'era di mezzo Jude Law. Comunque ritratto senza problemi, sulla fiducia: fa sicuramente schifo.

Il film l'ho visto in lingua originale al cinema Mexico di Milano, nel contesto del sempre amabile ciclo Sound & Motion Pictures. Comincia ad esserci qualche chiacchierone rompipalle anche lì. Non c'è scampo, siamo circondati. Importanza di guardare questo film in lingua originale? Ma chissenefrega.

26.4.10

Alice in Wonderland

Alice in Wonderland (USA, 2010)
di Tim Burton
con Mia Wasikowska, Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Anne Hathaway


La mia storia d'amore con Tim Burton è finita più o meno con Il pianeta delle scimmie. Da allora ad oggi, anzi, a una settimana fa o poco più, non ci siamo più parlati. E non perché Il pianeta delle scimmie fosse la porcheria che in effetti era. No no, è solo che ormai sono maggiorenne e un pochetto tanto snob. Quindi, di fondo, mi sembra che Tim non abbia più nulla da dirmi. Di sicuro non ho trovato la voglia di guardare Big Fish che, per quanto mi dicano tutti essere molto bello, dal trailer mi sembrava il bigino di tutti i motivi per cui non ne volevo più sapere di lui. Men che meno m'è venuta voglia di guardare il successivo remake di un film che da bimbetto amavo molto. Già di più m'aveva intrigato Sweeney Todd, ma mi son distratto un attimo e me lo sono perso. In compenso sono andato a vedere Alice in Wonderland e madonna mia che porcata invereconda mi son trovato davanti.

Quel che di buono c'è in 'sto film lo si può vedere anche nei manifesti. Se proprio si vuole un pochino di più, si può guardare il trailer. Ma basta, finita lì. Tutto il resto è superfluo, inutile, pasticciato, tirato via, oltre che realizzato inseguendo un tentativo di razionalizzazione del testo originale che veramente sarebbe da prenderlo, scuotergli la testa fortissimo e urlargli in faccia: "Perché? Perché? PercheccazzopperrRRRCHEEEEEEEE?!?". Uno pensa a Tim Burton che si diletta col Paese delle meraviglie e, magari perché c'è ancora troppa ingenua fiducia in questo mondo, si immagina un bel talento visivo scatenato per dare vita a una roba che ti riempie gli occhi e ti sconvolge il cervello. E invece ci sono giusto qualche idea qua e là, un sacco di noia e un totale spreco del materiale di partenza, con risultati che - casomai ci fossero dubbi - non valgono un singolo fotogramma del capolavoro animato di sessant'anni fa. E basta, non ho altro da dire.

Il film l'ho visto in lingua originale al cinema Arcobaleno di Milano, nel contesto del sempre amabile ciclo Sound & Motion Pictures. C'erano un po' meno spaccapalle chiacchieroni del solito. Importanza di guardare questo film in lingua originale? Beh, parlano tutti in inglese (nel senso che non è americano), o quantomeno ci provano, ed è un po' un peccato perdersi 'sta cosa. Ah, non l'ho visto in 3D, però ho visto benissimo che l'approccio di Tim Burton è stato "qualsiasi cosa ci sia su schermo, la lancio in faccia allo spettatore". Ah, che gran regista, eh sì.

22.4.10

24 - Stagione 3

24 - Day 3 (USA, 2003/2004)
creato da Joel Surnow e Robert Cochran
con Kiefer Sutherland, Dennis Haysbert, Carlos Bernard, Elisha Cuthbert, Reiko Aylesworth, James Badge Dale, Jude Ciccolella, Penny Johnson, Paul Schulze, Mary Lynn Rajskub


Della prima stagione di 24 mi sono rimaste in mente immagini molto chiare. La figlia di Jack Bauer che spacca le palle al padre. La figlia di Jack Bauer che si fa catturare da terroristi, stupratori, criminali a caso ogni volta che ne ha l'occasione. La figlia di Jack Bauer che, per quanto nana, è piuttosto gnocca. La figlia di Jack Bauer che frantuma pure le mie, di palle.

Della seconda stagione di 24, anche, mi sono rimaste in mente immagini molto chiare. La figlia di Jack Bauer che continua a spaccare le palle al padre. La figlia di Jack Bauer che riesce di nuovo a farsi catturare da terroristi, stupratori, criminali a caso ogni volta che ne ha l'occasione. La figlia di Jack Bauer che, per quanto nana, rimane piuttosto gnocca. La figlia di Jack Bauer che ha ormai polverizzato pure le mie, di palle.

E nella terza stagione di 24 che succede? Succede che la figlia di Jack Bauer continua a spaccare le palle del padre. Succede che la figlia di Jack Bauer viene messa a lavorare in un posto dove è finalmente protetta e non può essere catturata, ma dal quale può spaccare le palle del padre e mie con potenza quadruplicata. Succede che la figlia di Jack Bauer non ha guadagnato in altezza ma rimane ancora piuttosto gnocca. Succede infine che della figlia di Jack Bauer non ne posso veramente più.

Per fortuna, in queste tre stagioni, ci sono anche altre costanti. Per esempio c'è un cast di personaggi molto azzeccato e ben sviluppato, che popola un arco narrativo solido, appassionante e compiuto, seppur con qualche filo lasciato aperto per gli anni successivi. C'è una serie interminabile di colpi di scena, che ogni tanto sembran davvero forzati, ma funzionano quasi sempre e ti tengono incollato allo schermo, facendoti tirare le tre di notte perché non puoi fare a meno di guardare in fila le prime sette puntate. E c'è poi un tratto fondamentale, che in qualche modo mi ha ricordato la seconda, spettacolare, stagione di Prison Break: tolto Jack Bauer, che ok, mica può rimanerci secco, nessuno è al sicuro.

Il senso di pericolo costante, di posta continuamente alzata, viene sempre più rinforzato dalla voglia degli autori di colpire senza il minimo ritegno e in tutte le direzioni. Praticamente ogni personaggio, anche il più stronzo, viene tratteggiato in modo da risultare se non simpatico perlomeno emotivamente indispensabile e fartene sentire la mancanza quando, inevitabilmente, verrà tolto di mezzo. Perché c'è poco da fare: in 24, se non sei Jack Bauer, prima o poi sono cazzi. Il meglio che ti può capitare è di essere licenziato, o di levarti dalle palle per scelta tua, ma stai tranquillo che a un certo punto dovrai sparire. Ed è molto probabile che tu lo faccia in una bara.

E del resto non è un caso se poi, di fondo, anche a distanza di mesi o anni, le scene che più mi rimangono stampate in memoria riguardano la morte di questo o quel personaggio. Talvolta eroica, talvolta molto meno, ma sempre orchestrata in maniera perfetta e capace di colpire nel segno. Certo, poi ci sono anche le scene in cui la figlia di Jack Bauer spacca i coglioni. Ma per fortuna, a un certo punto, anche lei si leverà dalle palle. Oddio, spoiler.

Comunque, a proposito di spoiler, se volete saltate del tutto questo paragrafo. Della seconda stagione di 24 ricordo anche un'altra cosa: il fallimento totale della sua struttura globale. Come accade più o meno tutti gli anni, ci sono una prima e una seconda metà. Il problema è che in questo caso i cattivi della prima metà sono totalmente ridicoli, impresentabili, inguardabili. Fanno pena, non ci crede nessuno, neanche loro. E il risultato è che si passano dodici episodi (in tempo reale, pure) ad aspettare che salti fuori il cattivo, quello vero, quello cazzuto che spacca tutto e tutti. E che sicuramente funziona molto meglio, pur non convincendo anche lui fino in fondo, perché un po' tirato via e poco approfondito. Insomma, pollice verso, nonostante qualche momento davvero riuscito.

In realtà la terza stagione (anzi, il terzo giorno) di 24 l'ho vista (anzi, visto) un anno fa, ma non ne avevo mai scritto. In questi giorni, però, sto guardando la quarta (anzi, il quarto) e mi è venuta voglia di provare a scriverne così, in questa maniera un po' cosà. Piace? Ah, sì, ovviamente, lingua originale, bla bla bla, DVD su play.com, bla bla bla, sapete già tutto.

21.4.10

Baycast

Lunedì sera si doveva registrare il secondo episodio di Outcast Magazine, ma la lebbra ha assalito mezzo cast e s'è rimandato. Preso da rincoglionimento senile, ho coinvolto il Marrone in questa cosa che sta qua e che è un reportage su Cartoons on the Bay 2010.

Il prossimo appuntamento, vulcani permettendo, penso sarà a maggio. Ciao e grazie.

16.4.10

Rapallam


Spammino veloce veloce. A questo link qua, ma pure al link spammato in homepage con la sua bella loncandina nelle slide, trovate la pagina in cui vengono raccolti gli articoli dedicati al Cartoons on the Bay 2010. Ne sto preparando uno per giornata, cui dovrebbe poi aggiungersi qualcosa d'altro (un'intervista, forse un'altra robetta, vediamo). Se interessa, sta lì.

Certo che avere un assaggio anche solo superficiale di come vengono trattati i giornalisti quelli veri quelli col tariffario è straniante. Sarà che non ci sono abituato, però un po' mi mette a disagio. Non troppo, eh, e di sicuro non mi faccio problemi a mangiare spendendo i soldi delle vostre tasse, però un po' mi vien da dire bah.

14.4.10

Rapalloonz

Mentre leggete queste righe io sarò probabilmente sul mio bel trenino per Rapallo, dove mi dirigo nelle vesti di inviato inviatissimo speciale sotto copertura a Cartoons on the Bay, la manifestazione organizzata tutti gli anni dalla Rai e dedicata al cinema d'animazione e alle serie animate per la TV. Non ho schiaffato null'altro in pubblicazione automatica e non so se avrò modo di aggiornare il blog durante la trasferta, quindi direi che ci si rilegge la settimana prossima. Saluti e baci.

Quedex ha emesso la sua sentenza e io ho emesso la carta di credito: entro fine mese dovrei avere per le mani un nuovo pargoletto da portarmi in giro nei viaggi (prossimamente su questi schermi) e il prode Vaiolo di Sole potrà andarsene in pensione. Un minuto di silenzio, grazie.

13.4.10

Borderzine

Secondo appuntamento con l'Outcast dedicato al cazzeggio disorganizzato su fatti, cose & situazioni. Con un nuovo esordio nello staff e tante scemenze messe in fila senza senso. Lo trovate qui.

Questo è forse l'episodio che più di tutti si merita l'aggettivo "borderline". È un bene? È un male? Non lo so, però così è.

12.4.10

Aliens vs Predator

Aliens vs Predator (Sega, 2010)
sviluppato da Rebellion


Aliens vs Predator è il compitino precisino e pulitino, neanche fatto troppo bene. È il minimo indispensabile, la raccolta di tutto quel che ci deve essere in un gioco che contiene Alien e Predator. I suoni, le musiche, i gadget, le situazioni, la marine sudamericana, l'acido, i ragnetti, l'alveare, la regina e cinquantamila altre cose, fra cui ovviamente l'immancabile ibrido. C'è tutto, non manca niente. A parte magari qualche idea decente e un filo di personalità propria che vada oltre la luce riflessa.

La cosa agghiacciante, poi, è il tremendo senso di déjà vu, di pochezza, di aridità che ho provato pur non avendo giocato i tre precedenti FPS di Rebellion sul tema. Chi è alla sua quarta esperienza con la serie dev'esser stato colto da attacchi epilettici al quarto stereotipo consecutivo. Ma d'altra parte, intendiamoci, va pure bene così: in fondo se compri un Aliens vs Predator non è che puoi aspettarti una componente narrativa di livello e, anzi, gli stereotipi e la banalità ben fatta sono probabilmente proprio quel che cerchi. Ma è veramente ben fatta, 'sta banalità? E non si può sperare comunque in qualcosa di più?

Per dire, un paio di idee ci sarebbero anche, ad esempio nel modo in cui viene gestito il movimento delle due razze aliene o nell'enfasi posta sul sistema di lotta corpo a corpo. Il problema è che la sterilità nel design di livelli e situazioni rende ripetitive, meccaniche, sostanzialmente pallose anche le idee migliori. Ché al quarantacinquesimo combattimento risolto con parata e contromossa non se ne può davvero più. Ecco, in effetti, in AVP funziona un po' tutto così: neanche male in avvio, tremendamente stracciapalle sulla lunga distanza (anche se forse “lunga” non è l'aggettivo migliore per la distanza che si percorre in questo gioco).

La campagna del marine non inizia neanche malissimo, ha per brevi tratti la giusta atmosfera (anche se magari figlia solo della luce riflessa di cui sopra), ma scivola velocemente nella monotonia, spazzando fra l'altro nel nulla qualsiasi anche solo minima sensazione d'impotenza e panico. Molto meglio le due razze aliene, se non altro perché, almeno in potenza, restituiscono a dovere le sensazioni che uno s'aspetta di provare. Il Predator, con tutti i suoi gadget e la sua strabordante superiorità, ti fa sentire un Papa. L'alieno, con la necessità di girare, aggirare, attaccare da tutte le direzioni, ammazzare sul colpo, almeno per un po' ti dà una certa soddisfazione.

Poi però vai avanti ed emergono i difetti. Per esempio ti rendi conto di avere a che fare con gli esseri umani più stupidi nella storia del videogioco (almeno reagire quando un tuo compagno urla a un metro di distanza mentre viene squartato, essù). Non che gli alieni siano poi tanto meno stupidi, se consideriamo che si fanno ammazzare come cretini ogni volta che tenti una fatality al momento sbagliato. Perché bilanciare come si deve il gameplay era troppo complicato, si fa molto prima a fare in modo che uno non possa interrompere un'animazione anche mentre gli stanno tirando dei razzi termici in mezzo alla fronte.

Ma se insisti e continui ad andare avanti le cose peggiorano: scopri infatti che le ambientazioni hanno sì il pregio di essere ampie e aperte, dando quindi la possibilità di studiare la propria strategia, ma sembrano anche sfruttare questa "scusa" per nascondere una certa pochezza di design. D'altra parte, far esplorare le stesse ambientazioni da tutte e tre le razze è affascinante perché ti offre tre punti di vista diversi sulla stessa storia, lo è molto meno se finisci per avere ambientazioni che non fanno sfruttare al meglio le caratteristiche di nessuna fra le tre razze.

Senza contare che, a un certo punto, avere tre punti di vista su una storia scritta da cani come questa, eh, insomma, ma anche chissenefrega.

L'anno scorso ho giocato un bel po' di roba interessante della quale non ho scritto nulla qui dentro. Qualche esempio: Resident Evil 4 e 5, Mirror's Edge, Psychonauts, Mass Effect, Brutal Legend, Crayon Physics Deluxe, The Path, World of Goo. E quest'anno? Bioshock 2, God of War III, Heavy Rain, Red Steel 2. Pedditte. E invece scrivo di minchionate tipo Dante's Inferno, Dark Void e questo. Sarà che mi viene più facile insultare che lodare. Comunque, sto divagando: Aliens vs Predator l'ho giocato col doppiaggio inglese. Non so come sia la versione italiana, ma insomma, tanto la storia fa pena, l'atmosfera pure e al massimo ci si perde l'accento sudamericano di Tequila: non mi sembra un grosso problema. A margine, noto che su Metacritic questo AVP ha una media del 60 abbondante. E insomma, ci può anche stare, ma anche no. Magari è figlia della luce riflessa. Di sicuro non credo sia figlia del multiplayer, che non ho provato ma mi sembra venga insultato da tutti. In ogni caso, la sua milionata di copie l'ha venduta, quindi direi che il seguito cui accennano i finali di tutte e tre le campagne si vedrà. Oh, poi, il potenziale per fare un giocone ci sarebbe anche, eh. Ma chi ci crede? Ah, ultima cosa: le tre campagne durano rispettivamente pochino, poco e pochissimo. E in tutti e tre i casi mi è sembrato durassero più del necessario.

9.4.10

Invictus

Invictus (USA, 2009)
di Clint Eastwood
con Morgan Freeman, Matt Damon

Sono andato a vedere Invictus dopo aver letto praticamente ovunque che si trattava di un bel filmetto, con tutte le cosine al punto giusto, con una seconda parte da banalissimo film sportivo, e che sì, ok, va bene, però da Clint ci si aspetta qualcosa in più. Ah, e da qualche parte avevo pure letto che la vera finale di quei mondiali fu in realtà una partita piuttosto barbosa, tutta giocata sulla difensiva, con poche emozioni.

Io la partita vera non l'ho vista, ma quella del film mi è sembrata esattamente quello: uno spaccamento di palle indicibile, tutto giocato sulle azioni difensive, con punti segnati solo a calci. Mi sfugge insomma un po' il senso di quell'osservazione. Oddio, poi magari la partita vera è stata ancora più noiosa, però, ecco, io lo apprezzo un film "sportivo" che mi mostra tutte le partite con questo tono dimesso e distratto e che mi racconta la finale senza spettacolarizzarla troppo, cercando di riprodurne le dinamiche monotone e riuscendo comunque a mostrare quanto anche un match tutto difesa e testate sappia essere viscerale, emozionante, trascinante e regalare emozioni forti, in chi lo disputa come in chi lo guarda.

E apprezzo anche un film che tutto sommato, pur parlando di Mandela, di sport e di Mandela più sport, limita la retorica - scritta e mostrata - all'indispensabile e trova intensi spunti di commozione non solo nell'ovvia esultanza finale, ma anche in altri piccoli, riuscitissimi, momenti. Tutti, però, legati a François Pienaar e al suo punto di vista, tramite il quale viene raccontata buona parte della storia. La telefonata, i suoi sguardi al primo incontro, il modo in cui si rapporta con la squadra, la visita alla prigione... tutte scene che fra l'altro raccontano ancora una volta della bravura di Matt Damon.

Il limite vero di Invictus sta però nella figura di Mandela, degna praticamente solo grazie alla maestosa interpretazione di Morgan Freeman, certo non per una sceneggiatura che lo tratteggia come un'adorabile macchietta e che non ne approfondisce poi molto le gesta o l'importanza storica. Insomma, è l'ennesimo film che racconta un episodio accennando appena alla visione d'insieme. Altri hanno fatto la stessa cosa in maniera strepitosa, però. Clint no. Solo abbastanza bene. E magari ci si aspettava qualcosa di più. Mannaggia, l'ho scritto pure io.

Il film l'ho visto in lingua originale al cinema Arcobaleno di Milano, nel contesto del sempre amabile ciclo Sound & Motion Pictures. Purtroppo, il martedì sera all'Arcobaleno continua ad essere pieno di maleducate teste di cazzo. In compenso c'è il Wi-Fi gratuito, che mi permette di stronzeggiare con l'iPod mentre aspetto che inizi lo spettacolo. Importanza di guardare questo film in lingua originale? È un film in cui Morgan Freeman fa Nelson Mandela, altri bravi attori interpretano i ruoli di altre persone vere e, oltretutto, si sono tutti fatti il culo per parlare con l'accento giusto. In più mi dicono che il doppiaggio italiano fa sembrare Mandela un cretino. Oh, poi fate voi.

8.4.10

Happy Family


Happy Family (Italia, 2010)
di Gabriele Salvatores
con Fabio De Luigi, Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy, Diego Abatantuono, Valeria Bilello


Al Gabriele Salvatores gli piace il Wes Anderson. Pure a me mi piace il Wes Anderson. Anche se magari mi piace un po' meno di quanto piaccia al Gabriele Salvatores. Però, insomma, è uno che ha fatto e fa delle cose belle. Il Wes Anderson, tra l'altro, mi sa che gli piace anche all'Alessandro Genovesi, sceneggiatore di Happy Family. E l'Alessandro Genovesi piace un sacco ai titoli di coda di Happy Family, che ci tengono a segnalarci che ha vinto non mi ricordo quale premio per lo spettacolo teatrale da cui ha tratto la sceneggiatura di Happy Family. Insomma, Happy Family è un tripudio di felicità e di amore. Amore dei maschi del cinema. E del teatro.

Ed è un film un po' così. Un film che pure lui si vuole bene. Si piace, si ama, si rincorre da solo per abbracciarsi in un adorabile girotondo metalinguistico, metacinematografico, metamilanese. Fa i Tenenbaum milanesotti un decennio dopo, con un po' più Nirvana, un po' meno Bill Murray e una spruzzata di Keyser Soze. Con la gag triste del cane che fotte, certo, ma perlomeno senza l'ignobile sciacquetta. Ed è carino, via, simpatico ma non troppo, malinconico ma non abbastanza. Un po' meglio e un po' peggio, un po' più credibile e un po' più legnoso, un po' meno bello bellino, ma in fondo anche un po' meno antipatico. O forse no.

Il carrello più brutto, stanco e tirato via di Wes Anderson è comunque mille molte meglio della Milano da bere che Salvatores ci regala sul concerto. Epperò, di registi italiani che girano bene come lui, ce ne son pochi e non ce ne saranno mai abbastanza. Fra l'altro, dopo Muccino che fa Paul Thomas Anderson e Salvatores che fa Wes Anderson, ci manca qualcuno che faccia Paul W.S. Anderson. Ci vedrei bene un Sorrentino, con Toni Servillo che spara in faccia agli zombi. O magari un Garrone che mi fa Aliens vs Mangano.

7.4.10

Deliracolo

Come al solito Davide pubblica il tentacolo quando io sono dall'altra parte (del mondo, dell'Italia, della Padania, della città, del salotto... comunque dall'altra parte). E quindi lo spammo in ritardo. Ma vai a sapere, magari così funziona meglio e porto una seconda (sicuramente ENORME) ondata di ascoltatori. Comunque, qua trovate il settimo episodio del Podcast del Tentacolo Viola. Quello in cui c'è Vitoiuvara, ché l'altra volta non poteva e ci siamo dovuti accontentare di Ferruccio. Si parla di GDC (ancora? mabbasta!), PlayStation Move, Project Natal, i videogiochi dell'anno 2003 e un po' di altra roba a caso, in completa anarchia, proprio così come viene a cazzo di cane.

A Gianluigi non piace Prince of Persia: Le sabbie del tempo. Padre, perdonalo, perché non sa quello che fa.

6.4.10

Wolfman

The Wolfman (USA, 2010)
di Joe Johnston
con Benicio Del Toro, Anthony Hopkins, Emily Blunt, Hugo Weaving


Quando a venti secondi dall'inizio di un film hai già le mani nei capelli e ti chiedi chi te l'abbia fatto fare, non è un buon segno. Se poi a metà di un film con le sue buone dosi d'azione e che dura un centinaio di minuti comincia a calarti la palpebra, pure, il dubbio di non star guardando un capolavoro ti viene. E quando ti rendi conto che neanche nei titoli di coda sei riuscito a trovare un lato positivo, proprio tu che di solito un qualcosa di sfizioso nei film horror lo individui sempre, oh, allora non c'è proprio speranza.

Wolfman è, semplicemente, una roba inutile, con un gruppetto di attori sprecati fra i quali svetta giusto un po' Del Toro, una sceneggiatura da dodicenni e un regista (anzi, due: il fuggito Mark Romanek e il subentrato Joe Johnston) che prova a fare il figo girando con lo sguardo di oggi il film degli anni quaranta. Senza esserne in grado. Poi ci sarebbe pure Emily Blunt, che è sempre un bel vedere, ma è la più sprecata di tutti, anche se per un attimo quasi mostra una tetta. Insomma, no. Davvero: no.

Il film l'ho visto in lingua originale al cinema Mexico di Milano, nel contesto del sempre amabile ciclo Sound & Motion Pictures. Se pensate che adesso vi dica quanto possa essere importante guardarlo in originale, forse non avete capito. Questo film non ha neanche il pregio di essere talmente brutto e trash da fare il giro e diventare bello. No. È brutto e basta.

2.4.10

Basta, basta, basta

Colpo di fulmine - Il mago della truffa è l'ignobile titolo della vergognosa edizione italiana di I love you Phillip Morris, l'ultima di una ormai lunga serie di vere e proprie truffe perpetuate ai danni dello spettatore meno informato: se leggete quattro siti di cinema il perché lo sapete tutti, il film è una commedia con una storia d'amore tra Jim Carrey e Ewan McGregor, ma viene promosso da Lucky Red (tu quoque!, santo cazzo) come un film in cui c'è Jim Carrey che fa le facce buffe e cade facendosi malissimo, mentre McGregor viene riposto sullo sfondo e quasi eliminato dal trailer perché "non è un selling point" quanto Carrey (sic). Tutto questo, sintetizzando, perché studi di marketing hanno dimostrato che noi italiani siamo tutti delle grosse teste di cazzo. Come se non bastasse, pare, dicono, che per l'edizione italiana sia stata tagliata la scena di sesso tra i due protagonisti, sulla carta per evitare un divieto ai minori, in realtà perché poi l'italiano si impressiona essendo una grossa testa di cazzo. Come se non bastasse, ---no, basta così. Permettetemi di fare il noioso antagonista di questa ceppa per una volta, ma anche se il film fosse bello e interessante, non lo si va a vedere e basta. Sono tutti soldi dati a un ragionamento distributivo cinico, malato, che PUZZA. Più bastonate, meno banconote.
Quello che c'è scritto qua sopra viene dall'odierno appuntamento con Friday Prejudice, un sito molto divertente in cui il Giovane Cinefilo Kekkoz valuta a pregiudizio i film in uscita. Io mi permetto solo di aggiungere che a maggio i milanesissimi cinema Anteo (lunedì 10), Arcobaleno (martedì 11) e Mexico (giovedì 13) proietteranno I Love You Phillip Morris in lingua originale. Sarà censurato? Mah, secondo me no, troppo sbattimento, ma vai a sapere. Ah, ovviamente, il tutto avverrà nel contesto del sempre amabile ciclo Sound & Motion Pictures.

Guardare in fila i trailer americani e poi quello italiano è agghiacciante:







Mi è sfuggito qualcosa, o veramente nel trailer italiano si cerca di far passare l'idea che il personaggio di Carrey non sia gay, ma faccia solo finta? Comunque, io a vederlo non ci sarei andato in ogni caso, aspettavo per l'appunto maggio, ma questa gente davvero non si merita i soldi che chiede. E ovviamente non devo essere io a spiegarvi che ci sono svariati modi - alcuni legali, altri molto meno - per guardare un film senza versare oboli ai distributori italiani.

1.4.10

Freepep

A partire da oggi, e con effetto immediato, rientro nel fantastico mondo del freelancing spinto. Dove poi vada a spingersi, questo fantastico mondo, immagino lo scoprirò con calma. Comunque, era da un po' di anni (tre? cinque? otto? dieci?) che mi lasciavo solleticare dall'idea. Probabilmente era dal giorno stesso in cui sono stato assunto nel mio primo posto di lavoro "vero", che mi facevo solleticare dall'idea. Ma non avevo ancora mai ceduto al solletico. Un po' perché se la gente mi offre dei contratti io che faccio, li rifiuto? Pare brutto. Un po' perché in fondo uno mica ci rinuncia facilmente, al cadreghino. E insomma, un po' per questo, un po' per quello... alla fine è successo che, come al solito, la decisione l'ho fatta prendere a qualcun altro.

Quindi da oggi si torna a lavorare da casa, a scrivere (e tradurre: mi raccomando, datemi un sacco da tradurre, che mi viene facile), a svendere la mia sacra arte al miglior offerente. Il tutto con un po' di contatto umano in meno, ma un gatto che miagola sullo sfondo in più. E un computer che fa rumori strani sotto il tavolo mentre aspetta di essere formattato da tutto lo schifo che gli ho messo dentro. E in attesa che Quedex mi dica che portatile devo comprare.

Comunque, almeno per il momento, continuerò a far casino su Nextgame, scrivendo come un dannato, trattando male i collaboratori (in particolare Stef) e facendo il presenzialista in giro per il mondo. E trattando male Billeri.

 
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