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3.7.15

The Great Hypnotist


Cui mian da shi (Cina, 2014)
di Leste Chen
con Jing Hu, Zhong Lü, Karen Mok

The Great Hypnotist si apre con una balla, ma è una balla che detta fin dal primo istante le regole del racconto e ti prepara a un paio d'ore interamente giocate su illusioni, immaginazione, detto, non detto e detto apposta per far credere ad altre balle. La prima scena sembra uscita per direttissima da un horror giapponese in zona Ringu, con una donna che scappa dentro a un edificio assieme a un bambino e una seconda donna, dalle movenze inquietanti, che li insegue. Ma, appunto, è una balla, o comunque un'illusione, messa in piedi dall'ipnotizzatore protagonista del film. The Great Hypnotist racconta la sua attività e lo fa mettendola in scena in maniera diretta, mostrando quel che accade nella testa di chi si sottopone alle sue terapie, dando quindi spazio a situazioni fuori di cozza e a un continuo ribaltarsi di illusioni e contro-illusioni.

La storia, semplice semplice, vede il nostro amico ipnotizzatore alle prese con un caso proposto da una collega: una donna che sostiene di vedere la gente morta. Si ritrovano una sera nello studio di lui, provano a gestire la cosa con una normale seduta d'analisi e poi si passa all'ipnosi. E a quel punto il film parte per la tangente, fra illusioni, dubbi e verità nascoste, mettendosi a giocare con la percezione, le immagini e le incertezze su cosa stia realmente accadendo. La donna ci fa o ci è? Sarà mica che parla davvero coi morti? Oppure è convinta di farlo? O fa finta? E perché? Come fa a conoscere certi segreti del protagonista? Avrà mica delle intenzioni discutibili? Oddio, sarà mica che... anche lei è un'ipnotizzatrice?

Tutto questo viene raccontato concentrando la gran parte del film all'interno dello studio e piazzandolo sulle spalle dei due ottimi attori protagonisti. Poi, certo, dallo studio si esce spesso e volentieri per entrare nel mondo della mente, ma nella sostanza il racconto, da lì, non si sposta. Ed è un racconto appassionante, composto da misteri intrecciati in maniera complicatissima, ma impeccabile, e molto ben sviluppato nei modi in cui semina indizi, depistaggi e incasinamenti vari, oltretutto mettendoli in scena attraverso un'estetica notevole (anche se forse si poteva osare qualcosina in più sul fronte delle assurdità visive all'interno delle menti). Dove il film crolla un po' è nel lungo, esagerato finale, ingolfandosi prima su uno spiegone interminabile (e in larga parte superfluo), poi su una chiusura impacciata e pacchiana. Ma insomma, ne vale comunque la pena.

L'ho visto qualche tempo fa al festival del cinema cinese qui a Parigi. Il film è dell'anno scorso ed è già disponibile una versione occidentale per l'home video. Non tratterrei il fiato in attesa di una possibile versione italiana.

30.6.15

Macbeth


Macbeth (UK, 2015)
di Justin Kurzel
con Michael Fassbender, Marion Cotillard, Jack Reynor, David Thewlis

Se c'è un singolo filo conduttore che lega Snowtown, placida, angosciante, ruvida, quasi documentaristica cronaca di una famosa tragedia australiana, e Macbeth, è la passione di Justin Kurzel per la recitazione basata sulla voce bassa, i grugniti, l'espressione quasi animalesca della personalità, con improvvisi scatti d'ira e momenti di furia. C'è ovviamente anche altro, ma questo aspetto spicca forse anche perché Macbeth vi unisce l'inglese shakespeariano e l'accento scozzese, generando un borbottio che a tratti perfino parecchi spettatori madrelingua hanno ammesso di interpretare a fatica. D'altra parte, Kurzel è anche un fantastico direttore di attori, che qui tira fuori da Fassbender, Cotillard e tutti gli altri interpretazioni pazzesche, capaci di comunicare con gli occhi, il corpo, le movenze, tutta la furia delle devastanti emozioni che vivono nei loro personaggi.

L'interpretazione di Marion Cotillard, ovviamente, è impressionante anche per il fatto di stare recitando in una lingua non sua, ma il modo in cui trasmette quello strano miscuglio di lucido calcolo, disperazione e rabbia ha dell'incredibile. E non è comunque da meno Michael Fassbender, che sembra nato per questo ruolo e comunica in maniera meravigliosa l'altalena d'insicurezza, arroganza, crudeltà e ambizione che definiscono il personaggio. Attorno a loro si sviluppa un film che unisce la filologia dell'ambientazione medievale scozzese, una volta tanto rispettata anche nella scelta delle location, a un'interpretazione molto moderna sul piano visivo e in alcune rielaborazioni a livello di sceneggiatura, per esempio nel tentativo abbastanza riuscito di dare maggior sostanza al personaggio di Lady Macbeth.

Dove però Kurzel lascia veramente di sasso è nella pazzesca carica visiva che riesce a tirar fuori, magari intuibile nella sua opera prima, ma forse non attesa a questi livelli. Aiutato dal "solito" Adam Arkapaw alla fotografia, Kurzel apre e chiude il film con due battaglie pazzesche per potenza evocativa, forza delle immagini, capacità di far muovere il racconto fra una testa mozzata e l'altra, e popola l'intera pellicola con una brutalità estetica fuori misura. Il suo Macbeth è un adattamento tosto, intenso, che replica il sapore della lingua shakespeariana, riproduce gli ambienti con uno spettacolare lavoro sui costumi e sui luoghi e trasporta il tutto in una dimensione visiva da moderno blockbuster, se non nei ritmi, certamente compassati, di sicuro nella forza delle immagini. Imperdibile.

Io l'ho visto al cinema, qua a Parigi, durante la rassegna locale del Festival di Cannes. La distribuzione nelle sale italiane è prevista per novembre 2015. Intanto, Kurzel è al lavoro con Fassbender e Cotillard sul film di Assassin's Creed, che dovrebbe arrivare l'anno prossimo. La cosa, onestamente, mi spiazza e non so cosa attendermi. Un regista addomesticato per staccare l'assegno in serenità? Un film pazzesco e la miglior pellicola mai tratta da un videogioco? Un divorzio per differenze creative? Vai a sapere.

26.6.15

Police Story 2013


Jing cha gu shi 2013 (Cina, 2013)
di Sheng Ding
con Jackie Chan, Ye Liu, Tian Jing

I titolisti dei film americani mi hanno sempre affascinato per il modo in cui, spesso, se ne fregano di tirar fuori il titolo "tradizionale" ad effetto e preferiscono andare più sul descrittivo. Che poi, intendiamoci, spesso ne vengono fuori comunque titoli dal bell'impatto, ma mi sembra indiscutibile che dalle nostre parti si sia abituati diversamente. Voglio dire, in America possono fare uscire film intitolati Cinque piani di scale, da noi devono ribattezzarli Ruth & Alex - L'amore cerca casa. Ci sono però situazioni in cui anche i titolisti americani tirano una riga e dicono no. Ed è per esempio il caso dell'ultimo Police Story, che in Cina, per non stare a perdere tempo, hanno intitolato Police Story 2013. È un Police Story, esce nel 2013, a posto così, no? In America, invece, hanno voluto fare quel piccolo sforzo in più e l'hanno intitolato Police Story: Lockdown. Che comunque, intendiamoci, è il classico titolo, appunto, descrittivo, ma perlomeno ci prova.

Però, in fondo, il titolo scelto dalla distribuzione cinese dice un po' tutto. Stiamo parlando infatti di un reboot, che prova a reinventarsi completamente la serie partendo dall'assunto che Jackie Chan, oggi, le cose che l'hanno reso famoso (1) non è più in grado di farle e (2) si è anche un po' rotto le scatole di provare a farle. E quindi si riparte da zero, spostando il tutto nella Cina fuori da Hong Kong, cambiando il nome del protagonista e, insomma, mantenendo come unica costante il fatto che al centro della faccenda si trova un poliziotto. Un poliziotto con alle spalle una lunga carriera e tanta azione, chiaramente, ma che oggi è un po' troppo vecchio per queste stronzate e limita le sue acrobazie alla prova Olio Cuore su una ringhiera in cima a un palazzo e a qualche capriola mentre si barcamena fra condotti d'areazione e ascensori.

Il film racconta infatti di un intero locale, avventori compresi, preso sotto controllo (Lockdown) da un gruppo di criminali, che hanno in testa un piano ben preciso ma non lo sveleranno prima del gran finale. Il nostro caro Jackie si trova prigioniero sul posto assieme alla figlia e cerca di venirne fuori in qualche maniera, dando vita a un film che sulle prime sembra una specie di Die Hard, ma poi si evolve in qualcosa di completamente diverso e va a concludersi nella classica risoluzione finale iper-complicata da poliziesco cinese, dove però il macello non è tanto di azione, quanto di pezzetti assurdi che vanno a comporre le motivazioni del cattivo. E quindi? E quindi Police Story 2013, di Police Story, ha molto poco: via i toni da commedia, dentro il melodrammone esagerato dagli occhi a mandorla, con un puzzle finale abbastanza intrigante e un combattimento verso metà piuttosto brutale e riuscito, in cui Jackie Chan prende una raffica infinita di schiaffi perché, ehi, non ce la fa più, tanto il personaggio quanto l'attore. Il ritmo non è dei migliori, ma tutto sommato è un film godibile e di certo se lo sono goduto in Cina, dove ha passato in agevolezza i cento milioni d'incasso e confermato quindi la solidità, da quelle parti, tanto della serie quanto dell'ultrasessantenne (!) protagonista.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, durante il festival del cinema cinese di qualche tempo fa. Il film è già uscito sul mercato dell'home video in diversi paesi, quindi penso sia reperibile senza troppi problemi.

24.6.15

Mountains May Depart


Shan he gu ren (Cina, 2015)
di Zhangke Jia
con Tao Zhao, Yi Zhang, Jing Dong Liang

Due anni dopo aver portato a casa il premio per la miglior sceneggiatura con Il tocco del peccato, Zhangke Jia è tornato sul luogo del delitto, ancora una volta a Cannes, per l'ennesima volta a raccontare, con un taglio e un'ispirazione sempre diversi, i mutamenti subiti nei decenni dal suo paese e dal suo popolo. Questa volta la via scelta è quella del melodramma, del triangolo amoroso con due vertici distantissimi, il proletario romantico tutto d'un pezzo che lavora in miniera e il testa dura innamorato dell'occidente, che si cambia nome in Peter, chiama il figlio Dollar e si trasferisce appena può in Australia, alla ricerca di un sogno capitalista che troverà forse solo nella propria testa. Nel mezzo, una donna tesa fra i due estremi, la cui storia non rimane al centro dell'azione per tutto il film ma fa comunque da filo conduttore che unisce apertura e bellissima chiusura sulle note di Go West.

Mountains May Depart è un film bizzarro, forse a tratti perfino sconclusionato. Si apre con un taglio leggero, sciocchino, che sembra quasi uscito da certi anime anni Ottanta (probabilmente difficile, per gente della mia generazione, non pensare a Orange Road/È quasi magia Johnny), e si fa via via sempre più drammatico e intenso, mentre salta da un decennio all'altro provando a raccontare passato, presente e futuro della Cina Moderna. Dagli ingenui anni Ottanta, carichi di aspettative per un futuro travolgente, si passa all'incasinato oggi e quindi a un domani un po' scassato, nel quale il figlio dell'uomo che ha "vinto" il triangolo si riscopre cinese senza una patria, esportato in un paese che non è il suo, incapace di rapportarsi con la lingua, la nazione e la famiglia da cui ha avuto origine.

Non tutto il film funziona allo stesso modo e soprattutto la parte ambientata nel 2025, con quel futuro dalla mobilia lucida targata Google e la sua ricerca di simbolismi fin troppo semplici, non riesce a trasmettere fino in fondo la potenza di ciò che racconta. Ma nell'imperfetto film di Zhangke Jia c'è comunque la forza di un melodramma delicato, intenso e toccante, una storia molto personale, tutta costruita attorno alla grande prova della protagonista Tao Zhao e più riuscita nel (ma forse anche più interessata a) parlare delle sue vicende, invece che del paese in cui vive. E a raccontare tutto al meglio ci pensa anche una cornice visiva e sonora fantastica, basata sull'utilizzo di tre formati diversi per le tre epoche (un po' come in Grand Budapest Hotel), ma anche su una composizione dell'immagine che raggiunge vette strepitose in quei momenti che raccontano tutto con lo sguardo, i movimenti degli attori, le musiche, senza alcun bisogno di affidarsi alla parola.

L'ho visto qualche tempo fa alla rassegna parigina del Festival di Cannes 2015. Non sembra essere ancora prevista una distribuzione italiana e, fra l'altro, i film di Zhangke Jia, sarà un caso, paiono arrivare dalle nostre parti a corrente alternata. Vai a sapere.

8.6.15

As the Light Goes Out


Jiu huo ying xiong (Cina, 2014)
di Chi-kin Kwok
con Nicholas Tse, Shawn Yue, Jun Hu

Attivo ormai da quindici anni come sceneggiatore e da circa la metà come regista, Chi-kin Kwok (per gli amici Derek Kwok) si è girato un po' tutti i generi possibili e immaginabili e un paio di anni fa ha pure cosceneggiato e codiretto assieme al nostro amico Steven Chow l'ennesima rivistazione di Il viaggio in occidente. Il suo film successivo è questo As the Light Goes Out, melodrammone catastrofico di stampo classico, che si concentra su uno di quei disastri dalla scala "ridotta" che negli ultimi tempi sono un po' passati di moda. Il racconto trova infatti il suo culmine in un terribile incendio che scoppia nella notte di Natale in un impianto energetico dedicato a rifornire di elettricità Hong Kong. Il tutto, chiaramente, fa da pretesto per raccontare e risolvere le vicende personali e professionali di una squadra di pompieri dalla composizione piuttosto variegata, ma il cui nucleo è rappresentato da tre uomini le cui vicende si sono incrociate in maniera deflagrante durante un'operazione andata male diversi anni prima (e raccontata nel prologo).

La composizione del trio è semplice semplice: quello che si è preso la colpa per il bene degli altri, quello che se n'è rimasto da parte e quello che l'ha passata talmente liscia da essere l'unico a fare carriera. Lo sviluppo dei rapporti fra di loro, però, è meno banale del previsto, a cominciare dal fatto che l'infame dei tre non è poi così infame e, pur avendo un carattere che te lo raccomando, non diventa assolutamente il villain della storia. Più in generale, seppur col solito taglio da mariomerolata senza fine che caratterizza il cinema di genere orientale, è il buon lavoro sui personaggi a tenere in piedi il film. Poi, certo, nonostante qualche svolta magari abbastanza originale, ci sono tutte le situazioni classiche, tra morti impreviste, sacrifici estremi d'ordinanza e figli di uno dei protagonisti che GUARDACASO proprio quel giorno erano in gita alla stazione energetica e GUARDACASO proprio loro fanno casino e rimangono lì quando l'autobus parte e GUARDACASO proprio la squadra del loro paparino è l'unica che riesce ad arrivare sul posto nel macello generale. Guardacaso.

Non manca anche il tentativo di poetizzare l'incendio, trasformandolo in una sorta di creatura mitologica che brama le vite degli eroici pompieri. In Backdraft - Fuoco assassino c'era tutto il pippone sul fuoco come essere dotato di una vita propria che s'arrampica sulle pareti, qua abbiamo il fumo come nemico principale che ti insegue con un incedere degno di Jason Voorhees e all'interno del quale puoi perderti in una sorta di privazione sensoriale zen che ti porta ad affrontare ricordi, scheletri nell'armadio, timori e paranoie. Insomma, c'è tutto quel che serve e il film funziona abbastanza bene anche sul piano visivo, nonostante degli effetti speciali ben lontani dalle vette hollywoodiane, grazie al buon mestiere di Kwok. Paradossalmente, però, è proprio nel gran macello conclusivo che As the Light Goes Out perde buona parte della sua carica, affidandosi a tutti i cliché più ovvi del genere, rinunciando a quel tentativo di buttar lì invenzioni che si era visto nella prima parte e diventando insomma semplice routine. Insomma, poca cosa.

L'ho visto qualche settimana fa al festival del cinema cinese di Parigi, ma sembrerebbe essere uscito in sala solo in oriente, con qualche puntata in occidente fra home video e servizi di video on demand. Quindi, insomma, cercandolo, in qualche lingua intellegibile si trova.

4.6.15

The Lobster


The Lobster (Grecia/UK, 2015)
di Yorgos Lanthimos
con Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly, Ben Whishaw, Léa Seydoux

Ci sono sicuramente tanti motivi diversi per i quali la giuria del Festival di Cannes ha assegnato un premio a The Lobster, ma fra i principali mi sento tranquillamente di inserire la sua natura totalmente fuori di cozza e il modo in cui sceglie di raccontarla. Per questo, e anche per il fatto che il film inizierà il suo regolare percorso nei cinema mondiali a ottobre, voglio dire il meno possibile in questo primo paragrafo: io mi sono presentato in sala sapendo solo che era il nuovo film di Yorgos Lanthimos, che i protagonisti erano quelli elencati là sopra e che si trattava di un film di fantascienza. Avevo in mente la foto promozionale con Colin Farrell e Rachel Weisz che corrono in un campo e fine. E, beh, guardare questo film senza saperne nulla in anticipo è davvero qualcosa di spettacolare. Quindi, come faccio in questi casi, chiudo così il primo paragrafo: se quanto detto fino a qui vi intriga, smettete di leggere, aspettate il film, guardatevelo e poi ne riparliamo.

Una Rachel Weisz di spessore per invogliare ulteriormente. Nel film non la trovate così.

Andiamo avanti, cercando comunque di svelare sempre il minimo indispensabile, perché davvero è giusto così. Innanzitutto, bisogna dire che quell'immagine promozionale là, quella di loro due che corrono, forse un po' mente. Magari la interpreto male io, ma mi evoca nella memoria un racconto di fantasia romantico e movimentato, con un po' d'azione. Una roba stile I guardiani del destino, magari. E invece, in The Lobster, di azione non ce n'è praticamente mai, neanche in quella scena lì con loro due che corrono. O, meglio, tecnicamente un po' di azione c'è, ma viene messa in scena nella maniera meno action possibile. E, già che ci siamo, diciamo pure che l'elemento fantascientifico è piuttosto labile: alla fin fine il punto è che si tratta di una società distopica in cui c'è un'invenzione scientifica molto particolare, ma per il resto potrebbe essere ambientato l'altro ieri. In un altro ieri alternativo, certo, ma pur sempre l'altro ieri. E quindi che cos'è? È un film che fa quella cosa che alla buona fantascienza riesce sempre tanto bene: prendere qualche tratto della nostra società, estremizzarlo e sfruttarlo per parlare di noi stessi, facendo una satira feroce e intelligente, nel caso specifico sulla natura dei rapporti coniugali, della vita di coppia e delle imposizioni dall'alto che la riguardano. È un film lento, estremamente dialogato, ricco di belle immagini, molto ben interpretato e con parecchio da dire. Se queste cose non vi spaventano, attendetelo con ansia, perché merita, nonostante il finale sia forse un po' tirato via. E smettete di leggere.

Neanche questa c'è nel film.

Siete ancora qui? E allora diciamo due cose sulla trama, ma proprio il minimo indispensabile e poi basta, eh! Nel mondo di The Lobster, essere single è fuorilegge. Se ti beccano al centro commerciale senza certificato di matrimonio, sono guai. Se tua moglie o tuo marito ti lascia o muore, sono guai. Oltre ai guai che di base derivano dall'essere abbandonati o dal rimanere soli, s'intende. I guai si concretizzano in un albergo d'alto profilo nel quale vieni spedito, con un mese e mezzo di tempo a disposizione per trovare una nuova dolce metà fra gli altri ospiti single. Se ce la fai e la coppia funziona, potete sposarvi e tornare a vivere in città. Se non ce la fai, scatta l'innovazione scientifica di cui sopra e vieni trasformato in un animale a tua scelta. Bonus: c'è chi non ci sta e decide di vivere da solitario nel bosco, ma ogni tanto gli ospiti dell'albergo vengono mandati a caccia dei ribelli e per ognuno di loro che catturano ottengono un giorno di permanenza in più. Ovviamente succedono tante altre cose, ma la sostanza è questa, una situazione in cui i sentimenti diventano secondari, l'affinità è una questione di forzature e si è disposti a tutto pur di accoppiarsi, perché ce lo dice la società, ce lo dice la legge, ce lo dicono la saggezza popolare e il sentire comune. Perché si fa così. Ne viene fuori un film incredibile, che nella sua maniera totalmente fuori di testa piazza uno specchio estremamente lucido di fronte al modo un po' stonato in cui spesso interpretiamo il rapporto fra noi picchiatelli esseri umani. Colin Farrell è fantastico nel suo vacillare in bilico proprio al centro di questa situazione assurda, un concentrato di emozioni represse e pronte ad esplodere in un mondo popolato da gente ridotta ad automi che sopravvivono rinunciando a loro stessi. Ma un po' tutto il cast funziona a meraviglia e il film è una vera bomba, anche se sì, lo ripeto, il finale sembra fare fatica a trovare una conclusione. Oppure no, magari è fantastico anche perché si conclude così.

L'ho visto un paio di settimane fa durante la rassegna parigina dei film del Festival di Cannes. In lingua originale è tutto un tripudio di gente che parla con accento irlandese, più un paio di francesi, un americano, un inglese... sembra una barzelletta. Non so ancora quando uscirà in Italia ma, come dicevo, dovrebbe manifestarsi in giro per il mondo a partire da ottobre.

3.6.15

Brotherhood of Blades


Xiu chun dao (Cina, 2014)
di Yang Lu
con Chen Chang, Shih-Chieh Chin, Zhu Dan

Brotherhood of Blades, per qualche motivo, mi ha fatto venire in mente John Carpenter. Non che stilisticamente lo ricordi, anzi, però racconta una storia che ha proprio quel sapore un po' politico e sociale di tanti film carpenteriani, col suo parlare di brava gente che si lascia tentare dal denaro e trasforma per questo le migliori intenzioni in un disastro completo. I protagonisti, qui, sono tre fratelli impiegati come guardie d'elite a palazzo reale sul finire della dinastia Ming. Per quanto cazzutissimi sul lavoro, sono di estrazione sociale bassa e faticano a uscire dal gorgo: il maggiore vorrebbe far carriera politica ma non ne ha i mezzi, il minore è malato e fugge da un passato che non lo molla, quello di mezzo vorrebbe aiutare gli altri due e, già che c'è, riscattare la libertà della prostituta di cui si è innamorato. Ma mancano i soldi. Un politicante dalla dubbia moralità li spedisce a far fuori un dissidente, ma quest'ultimo prova a cavarsela offrendo soldi ai nostri eroi e...

E insomma, bravi ragazzi in difficoltà che si fanno tentare dalla soluzione facile a base di quattrini e mondo che crolla loro attorno quando il destino si presenta a portare il conto. Ora, magari sovrainterpreto io a vederci del Carpenter, ma il punto è che si tratta di uno schema narrativo sicuramente classico, ma sempre molto efficace, che qui viene portato avanti con la classica mano pesante dell'estremo oriente, tutta melodramma, musiche incalzanti, cattivi schizoidi sopra le righe, buoni col senso dell'onore che strabocca, intrecci super complicati nello sviluppo dei rapporto e degli intrighi politici, tragedie interminabili all'orizzonte e scene d'azione esagerate. Ed è sicuramente un bel divertimento, anche grazie all'incredibile carisma del tris di protagonisti, che non fanno la minima fatica a tenere in piedi la baracca.

Dove Brotherhood of Blades non mi ha convinto fino in fondo, invece, è sull'azione. I combattimenti non mancano, sono spesso ingegnosi, o comunque interessanti e divertenti, per le coreografie, le premesse e i modi elaborati in cui si sviluppano, ma vengono per lo più penalizzati dalla regia. Quei bei momenti action a cui il cinema orientale ci ha abituati, quelli in cui la macchina da presa si allontana e se ne sta lì ferma a farci gustare il gesto atletico in tutto il suo splendore, beh, qui latitano in maniera pesante. È tutto un tripudio di shaky cam e montaggio frenetico che sembra uscito per direttissima dai film occidentali in cui bisogna far finta che sessantenni e gente fuori forma assortita sia in grado di combattere. Non so dire se si tratti di necessità o di scelta stilistica, ma il risultato fa perdere qualche punto a quello che altrimenti sarebbe un solidissimo esemplare all'interno di un filone ultraclassico. È un po' un peccato, ma insomma, non è comunque una tragedia.

L'ho visto al cinema, qua a Parigi, nel corso del Festival del cinema cinese di qualche tempo fa. Non è mai uscito e non so se mai uscirà in Italia, ma è stato distribuito nell'emisfero occidentale, con tanto di Blu-ray e passaggi sui vari servizi di video on demand, quindi, insomma, in qualche modo si trova.

26.5.15

Youth - La giovinezza


Youth (Italia, 2015)
di Paolo Sorrentino
con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano

Una caratteristica un po' surreale di buona parte dei film in concorso a Cannes 2015 sta in quel che, forse, racconta del modo in cui oggi si produce il cinema, con registi dalla personalità fortemente incastonata nella propria nazionalità che si ritrovano a lavorare con cast e produzioni anglofone, alle prese con una lingua che non è la loro. Da un lato, forse, è un peccato, perché in fondo il bello di manifestazioni del genere sta anche nel dare spazio a cinematografie di ogni dove, nell'infilare in un megafono voci lontane dall'omogeneizzazione in lingua inglese, voci come quella di Jia Zhangke e del suo bellissimo Mountains May Depart. Dall'altro, a voler ben vedere, è forse anche un'opportunità, perché da quello che magari è un compromesso possono venir fuori creature bizzarre, che parlano una lingua non loro ma riescono comunque a conservare l'identità forte del regista e del mondo da cui arriva. È un bene? È un male? Vai a sapere. Non è una novità, intendiamoci, e del resto gli ultimi tre anni di cinema hollywoodiano hanno premiato con l'Oscar altrettanti autori giunti da altrove, ma in qualche modo il regista "internazionale" che va a lavorare a Hollywood me lo aspetto un po' di più. Immagino sia un problema mio.

Ad ogni modo, com'è andata, con questo secondo Sorrentino all'inglese? Dovunque ti giri c'è un'opinione al riguardo e vai a trovare due persone che siano d'accordo. Se lo chiedete a me, è andata molto bene, nonostante qualche perplessità. Youth, intanto, è un film dalla potenza visiva strabordante, dalla prima all'ultima inquadratura. È forse anche esagerato in questo, perché Sorrentino sembra quasi voler mandare a mille ogni fotogramma, senza dare un minimo di sosta, alzando al massimo il senso di satira surreale, anche a costo di sparare a vuoto e di perdere il controllo. E io un approccio del genere, in fondo, lo ammiro, a maggior ragione poi considerando quella che è la cinematografia italiana dell'ultimo paio di decenni. Il primo impatto è soprattutto questo qui, quello con un regista che compone immagini, sequenze, musiche in maniera fenomenale e ti sommerge con la sua bravura pazzesca. Youth è una lunga collezione di scene meravigliose, che ogni tanto cozzano un po' l'una con l'altra, ma vanno a comporre un insieme affascinante e, forse, superiore nella somma alle singole parti che unisce.

Ma non c'è solo il tripudio audiovisivo e non ci sono solo degli attori in formissima, fra il sempre eccellente Michael Caine, una Rachel Weisz fantastica nell'ingenua semplicità del rapporto che racconta col proprio padre, nella fenomenale intesa che i due mettono a schermo, e un Harvey Keitel che un ruolo da interpretare degnamente non lo vedeva da un pezzo. Youth racconta gli anni del tramonto e la difficoltà nell'affrontarli, il rapporto fra anzianità e gioventù, la difficoltà nel rapportarsi con il proprio passato e con il futuro. Ma va a toccare anche tanti altri temi, senza aver paura di porli sotto forma di domanda diretta, letterale, anche a costo di risultare caramelloso e un po' stucchevole. È un film che mira alto ma lo fa senza sentirsi in obbligo di risultare pesante nel linguaggio, anzi, affidandosi a una deliziosa e surreale leggerezza, alla capacità di schivare tante possibili scene madri archiviandole con un delicato sorriso, senza per questo evitare di andar giù pesante quando c'è bisogno dell'esagerazione evocativa. Il suo susseguirsi di meravigliose cartoline può suonare sconclusionato, sbarellato, magari un po' vuoto nell'affidarsi a personaggi piuttosto schematici, dagli archi narrativi semplicistici, figuranti tramite cui raccontare temi ben più interessanti di loro. Ma in fondo, in mezzo a tutte le sue assurdità, è forse proprio questo mettere in scena esseri umani grandiosi fuori, ma di poco conto dentro, a renderlo brutalmente vivo.

L'ho visto in lingua originale durante la rassegna parigina dei film del Festival di Cannes. Ho un po' il timore che per un film dai toni così surreali e pacchiani il doppiaggio rischi di fare dei gran danni, facendoli oltretutto a una manciata di ottime interpretazioni, e mi scatta quindi il paradosso di consigliare la visione in lingua originale (inglese) per un film italiano. E che ci vuoi fare.

19.5.15

The Ferry


The Ferry (Cina, 2013)
di Shi Wei
con Guangda Zhou

Ispirato a una storia vera, le cui origini risalgono addirittura al periodo finale dell'epoca in cui regnava la dinastia Qing, The Ferry racconta di Tian Huai’en, un vedovo in là con gli anni la cui vita ruota interamente attorno al lavoro che la sua famiglia si è presa in carico da tre generazioni. Arrivati in un villaggio nei pressi del fiume Daisha, gli antenati del protagonista vennero accolti con calore e generosità e, stabilitisi proprio in riva al fiume, decisero di ricambiare l'accoglienza impegnandosi a fare da traghettatori per chiunque avesse bisogno di superarne le acque, senza mai chiedere un soldo in cambio. Tian vive una vita semplice, solitaria, trascorrendo le sue giornate nella propria casetta in attesa di gente da trasportare sulle acque. Si ciba di quel che pesca, di frutta e verdura, di ciò che i suoi passeggeri decidono spontaneamente di lasciargli, e trascorre le serate ubriacandosi mentre osserva la foto del figlio andato a lavorare presso un'impresa di costruzioni nella vicina grande città.

Proprio una visita del figlio per una decina di giorni è il motore che dà il via alle vicende, incentrate sul contrasto generazionale, sulla voglia di staccarsi da una tradizione difficile da comprendere, sul diverso approccio al senso del dovere, sulle mille cose non dette o dimenticate e sul tentativo di riavvicinarsi superando ogni difficoltà. Tian è vecchio, soffre di reumatismi, non si sa quanto potrà andare avanti, ma suo figlio non ha intenzione di prenderne il posto sulla barca, nonostante ricordi ancora che da piccolo era proprio quello il suo sogno. Decide però di fermarsi qualche giorno, imparare il mestiere a cui il padre si è dedicato, immergersi in questa vita così distante da quella che ha intrapreso e rientrare in contatto con le proprie origini, con il villaggio, con gli amici e le persone che si è lasciato alle spalle.

The Ferry è un film dall'intreccio semplice, che si sviluppa giocando sulle immagini e su una lunga serie di scambi tra padre e figlio. Perché Tian ubbidisce a testa bassa e continua ad aiutare della gente che lo dà per scontato, non gli mostra gratitudine e, anzi, lo tratta spesso a pesci in faccia? Da dove arriva questo cieco senso del dovere? Come può una promessa vecchia di generazioni, fatta in un contesto lontano anni luce, essere più importante di ogni cosa, forse anche della famiglia stessa, del presente? Sono ovviamente questi i dubbi che attanagliano il figlio di Tian in quello che, di fatto, è un film incentrato sul conflitto generazionale, sul contrasto fra sistemi di valori completamente diversi e sul provare a comprendersi a vicenda, a riavvicinarsi abbattendo un muro altissimo costruito negli anni. Tutto questo viene raccontato da Shi Wei con una grazia incredibile, affidandosi a uno splendido digitale per ritrarre dei paesaggi pazzeschi e la semplicità dei piccoli gesti, la cura e la passione con cui un uomo porta avanti il lavoro a cui ha dedicato una vita. C'è una semplice, elegante, delicatezza nel modo in cui viene raccontato il rapporto fra i due protagonisti e il loro tentativo di trovare un punto d'incontro che permetta di portare avanti la tradizione di famiglia senza distruggersi a vicenda. E ne viene fuori un film toccante, dolce, intenso, che apre una finestra su una moralità lontana anni luce dalla nostra ma racconta in fondo temi universali fortissimi.

È in corso in questi giorni in Francia una rassegna dedicata al cinema cinese. Siccome sono uno stordito, me ne sono accorto tardi e mi sono perso il nuovo film di Tsui Hark proiettato in apertura, ma sto più o meno recuperando tutti gli altri che mi interessano e ho intenzione di scriverne qua dentro. E poi comunque quello di Tsui Hark arriva al cinema a giugno, quindi va tutto bene.

26.1.15

Il regno dei sogni e della follia


Yume to kyôki no ôkoku (Giappone, 2013)
di Mami Sunada

Nella seconda metà del 2013 sono usciti in Giappone (e l'anno successivo nel resto del mondo) quelli che potrebbero essere gli ultimi due lungometraggi nelle fantastiche carriere di Hayao Miyazaki e Isao Takahata. Non sto qui a ripetere i motivi per cui Si alza il vento e La storia della principessa splendente sono due film meravigliosi, fra le cose più belle che ho visto l'anno scorso e [aggiungere aggettivi e superlativi a caso], però, insomma, Miyazaki ha poi annunciato (di nuovo) il ritiro, mentre Takahata ha settant'anni e non buttava fuori un film da quattordici, quindi, eh, se non è finita ci manca poco. Questo non significa necessariamente che lo Studio Ghibli debba chiudere i battenti, del resto ci sono altri registi, l'anno scorso è uscito l'ottimo When Marnie Was There e sperare non costa nulla, ma di certo, con l'eventuale ritiro dei due amichetti, si chiude un'epoca e le cose cambiano parecchio. Tant'è che attualmente è in atto un periodo di pausa e ristrutturazione.

Nel 2013, comunque, è uscito in Giappone anche The Kingdom of Dreams and Madness, un documentario realizzato in parallelo alla lavorazione delle ultime opere di quei due mattacchioni, che racconta soprattutto la produzione del film forse più personale di Hayao Miyazaki, concendedosi però anche divagazioni sullo studio in generale e su altre produzioni in corso allo stesso tempo, con ovviamente in testa quella dell'ultimo film di Isao Takahata. La regista Mami Sunada ha goduto di un accesso incredibile non solo agli uffici dello studio giapponese, ma anche e soprattutto a Miyazaki stesso, che ha seguito in giro mostrandone la ripetitiva e rigidamente organizzata attività quotidiana. Guardando il documentario, si segue quindi l'autore non solo mentre lavora sugli storyboard che daranno vita al suo film, ma anche nei momenti di pausa, nelle passeggiate fra casa e lavoro, in una serie di chiacchierate e riflessioni a cui si lascia andare fra le pareti domestiche.

Ne viene fuori il ritratto intrigante di un personaggio bizzarro e con cui non deve essere necessariamente facilissimo lavorare, poco importa se ad inseguire i suoi standard di meticolosa eccellenza sia l'ultimo degli impiegati o il figlio che cerca la propria via all'ombra del padre. Il documentario dura un paio d'ore, e magari poteva essere accorciato un po' o montato senza dare due o tre volte in fila la sensazione di essere arrivati alla fine, ma - pur concentrandosi molto su un film specifico - apre una finestra affascinante su un laboratorio che ha prodotto capolavori a ripetizione. In quei centoventi minuti osserviamo Miyazaki al lavoro, assistiamo alla discussione in cui si è deciso un po' a caso di proporre il ruolo da protagonista a Hideaki Anno, ascoltiamo i pensieri ruvidi del vecchio Hayao, sbirciamo in maniera fugace su quel che sta combinando Takahata, ci ritroviamo spettatori della sessione di doppiaggio per la scena madre di Si alza il vento, durante la quale lo stesso Miyazaki non riesce a trattenere le lacrime. Insomma, The Kingdom of Dreams and Madness ha forse anche un po' il limite di rivolgersi solo ai fan, dare tanto per scontato e non preoccuparsi minimamente di raccontare lo Studio Ghibli a chi non sa di cosa si stia parlando, ma chi ne ama e ne ha amato il lavoro non può davvero fare a meno di recuperarlo e gustarselo.

Il documentario, come dicevo, è uscito in Giappone nel 2013, più o meno in contemporanea con La storia della principessa splendente. Ha poi iniziato a farsi il giro dei festival mondiali ed è disponibile in versione sottotitolata in inglese sia in DVD che su qualche servizio di streaming online. Io l'ho visto alla serata di apertura dell'edizione 2014 di Kinotayo, un festival dedicato al cinema giapponese che non ho seguito nella sua interezza perché ero sfiancato dalla doppietta cinema coreano / Fantastic Film Fest. Però non potevo perdermi il documentario sullo Studio Ghibli.

23.1.15

Tusk


Tusk (USA/Canada, 2014)
di Kevin Smith
con Justin Long, Michael Parks, Haley Joel Osment, Johnny Depp, Genesis Rodriguez

Circa sette anni fa, ormai quasi otto, Kevin Smith e il suo amico per la pelle Scott Mosier scoprono di potersi divertire un sacco nel fantastico mondo dei podcast e iniziano a registrare ogni settimana un'ora di chiacchiere più o meno sceme sul tema "Boh, quel che ci interessa questa settimana". Una volta elargito a un mondo che non aspettava altro, il risultato di quelle chiacchierate, che si chiama SModcast perché i nomi dei podcast tendono a venir fuori così, riscuote un successone tale da diventare la base per un discreto business. Se da un lato infatti è noto che anche se ti chiami Kevin Smith e il tuo podcast lo scarica chiunque, i soldi non ce li fai lo stesso, dall'altro puoi trasformare il tutto in uno strumento tramite cui creare (o, se ti chiami Kevin Smith, consolidare) una fanbase che poi ti compra il libro, ti paga il biglietto per l'evento live e ti spinge a dirigere un film cretino che, pur incassando pochissimo, finisce per fare da trampolino per il rilancio della tua carriera da regista. E insomma, alla fine giusto così, no? Boh.

Comunque, Tusk nasce per l'appunto da SModcast, per la precisione dal duecentocinquantanovesimo episodio, nel quale Smith e Mosier si trovano a chiacchierare di un'inserzione pubblicitaria (poi rivelatasi finta) apparsa su Gumtree, in cui un tizio offre alloggio gratuito a chiunque sia disposto a travestirsi da tricheco. Dopo aver trascorso un'ora sparando cretinate col suo amichetto su un'ipotetica storia ispirata a quell'inserzione, Smith chiede a Twitter di fargli sapere se sia il caso di mettere in produzione un film del genere. #WalrusYes o #WalrusNo? Domanda retorica. Circa un anno dopo, Tusk arriva nei cinema e incassa meno di due milioni di dollari, ma - spiega Smith a chi gli sventola in faccia il flop - facendo la tara fra quei due spiccioli, il budget ridottissimo e i soldi arrivati con gli accordi di distribuzione, chiude in attivo e convince la gente che conta a finanziare non uno, non due, ma addirittura tre nuovi progetti del Kevinone. Nei prossimi anni, quindi, a meno di imprevisti, arriveranno Clerks 3 e altri due film ispirati al fantastico mondo dei podcast, che comporranno con Tusk la True North Trilogy. Tutto è bene quel che finisce bene.

"Stacce."

Ma Tusk com'è? Beh, è un film che ha per protagonista un podcaster (wink wink) insopportabilmente borioso (Justin Long), amico di un podcaster un po' meno insopportabile ma insomma (Haley Joel Osment). Il borioso, per una serie di incredibili coincidenze nate dallo star cercando argomenti di discussione per il podcast, si ritrova nelle mani di un signore di una certa età (Michael Parks) che, per una serie di eventi che non andremo ad approfondire, non si accontenta di un costume da tricheco. L'inserzione che Justin Long e i suoi baffi scovano è più generica rispetto a quella "reale", offre alloggio gratuito e tante storie interessanti da raccontare, ma il nostro amico Parks è in realtà un pazzo furioso che ha la fissa di trasformare uomini in trichechi. Letteralmente. Justin si ritrova quindi velocemente drogato, senza baffi e vittima di disgustose operazioni che lo trasformano in uno scherzo della natura, una specie di tricheco umano che sbava, ringhia e mangia pesce.

Se sembra una situazione completamente cretina è perché si tratta esattamente di quello. E del resto Tusk nasce da una chiacchierata scema ed è realizzato a solo uso e consumo di chi voleva il film cretino nato da quella chiacchierata scema. A tutti capita di trascorrere una serata inventandosi idiozie assieme agli amici, buon per Kevin Smith che può permettersi di trasformare quelle idiozie in un film. L'aspetto paradossale della faccenda, per altro, sta nel fatto che Tusk funziona quando si prende sul serio e crolla miseramente quando la butta in farsa. La parte iniziale, che propone dei protagonisti a metà fra il fesso e il deprecabile e inizia pian piano a costruire il classico viaggio implacabile verso l'incubo, fa il suo dovere. Michael Parks che fa il matto, come già in Red State, è una meraviglia. Genesis Rodriguez è gnocca. I momenti più puramente horror e di disagio, seppur ovviamente cosparsi da un bel po' di humor nero, funzionano quasi tutti. Insomma, come horror grottesco e completamente sopra le righe, Tusk non sarebbe neanche male e ti farebbe quasi venir voglia di pensare che abbia cose interessanti da dire sull'attuale era dell'entertainment e della comunicazione online. Quasi, eh.

Il problema è che Smith non sembra interessato a crederci minimamente e butta nel mucchio una deriva demenziale impresentabile, più o meno tutta concentrata nella partecipazione di Johnny Depp truccato da Johnny Depp che fa il cretino canadese con l'accento francese di Johnny Depp e un po' di trucco raffazzonato da Johnny Depp sulla faccia di Johnny Depp. Un personaggio talmente cretino da risultare cretino anche nel contesto di un film cretino come Tusk, e che - immagino - dovrebbe farci molto ridere perché si capisce benissimo che c'è Johnny Depp sotto quel trucco talmente raffinato da rendere irriconoscibile Johnny Depp. Non ho riso. Sta di fatto, però, che ne viene fuori un film costantemente indeciso fra serietà e farsa, incapace di trovare un equilibrio fra le due direzioni, diretto da una persona a cui, probabilmente, fotte sega. Ciliegina sulla torta, i titoli di coda sono accompagnati dalle porzioni della chiacchierata originale fra Smith e Mosier in cui i due ridono come matti proprio delle parti di storia che il film prova a prendere sul serio. E, insomma, sarà un problema mio, ma faccio proprio fatica a non vederci un'enorme coda di paglia.

L'ho visto al cinema, in lingua originale, qualche tempo fa. Era il film di chiusura del PIFFF 2014. Non so, onestamente, se sia prevista una distribuzione italiana, però è passato al Festival di Roma dell'anno scorso. Fun fact: gli altri due episodi della True North Trilogy saranno Yoga Hosers, di cui si sono già concluse le riprese e che è incentrato - glom - sul personaggio di Johnny Depp, e Moose Jaws, descritto come "Lo squalo, ma con un'alce". E vabbuò, che gli vuoi dire?

22.1.15

Predestination


Predestination (Australia, 2014)
di Michael e Peter Spierig
con Ethan Hawke, Sarah Snook, Noah Taylor

Ogni tanto mi ritrovo a scrivere di un film in preda all'ansia del non volerne rovinare la visione e finisco per dire subito "È bello, smettete di leggere e guardatevelo". O anche "È brutto, quindi potete pure continuare a leggere, tanto chi se ne frega". In questo caso diciamo "È bello, se vi piacciono i film sui viaggi nel tempo smettete di leggere e guardatevelo". Fra l'altro, di fondo, già dire una cosa del genere finisce per cambiare almeno un po' l'esperienza di chi ti legge, perché poi si presenterà davanti allo schermo non completamente vergine, aspettandosi già il film in cui c'è qualcosa da scoprire, un colpo di scena, whatever. Ma d'altra parte, ehi, do per scontato che se sei uno a cui piace presentarsi vergine in sala (come fra l'altro è più o meno capitato a me per questo film), beh, non mi leggi prima di aver visto il film. Ad ogni modo, se vi piacciono i film sui viaggi nel tempo, smettete di leggermi, date una chance a Predestination e magari poi tornate a leggermi. Se vi interessa invece leggere un mio giudizio di merito sul film, scritto comunque stando attento a non svelare quasi nulla del racconto, potete passare al prossimo paragrafo.

Predestination è il terzo film dei fratelli Spierig, il secondo con protagonista Ethan Hawke, ed è ispirato alla storia breve —All You Zombies— di Robert A. Heinlein. Al centro del racconto si trova un'organizzazione governativa formata negli anni Cinquanta e dedita all'utilizzo dei viaggi nel tempo per sistemare cose che devono essere sistemate. Fra i pregi maggiori del film c'è un aspetto che mi dicono essere anche la migliore (e forse unica) qualità del precedente Daybreakers: la capacità di creare un mondo alternativo affascinante, carico di personalità e credibile basandosi solo su due o tre pennellate piazzate nel modo giusto. In questo caso, le pennellate sono fondamentalmente riassumibili in una gentile estetica da fantascienza anni Sessanta, che dona al tutto una personalità deliziosa e già da sola vale il prezzo del biglietto. Ma ci sono altri aspetti di gran merito: una sceneggiatura che tratta i viaggi nel tempo in maniera sì contorta, ma molto precisa e comprensibile; una gestione delle rivelazioni che non si preoccupa tanto di nasconderle (se insisti in quel modo sul "non mostrare" un volto, mi stai evidentemente suggerendo qualcosa), quanto di creare una rete di intrecci che, anche se hai già intuito tutto, rimanga coinvolgente grazie al lato umano della vicenda; due attori, il nostro amico Ethan Hawke e quella specie di incrocio fra Emma Stone e Leonardo di Caprio che è Sarah Snook, bravissimi a venderti il tutto. E son pregi non da poco, specie se consideriamo che l'azione sta dalle parti dello zero spaccato e il film ruota fondamentalmente quasi solo attorno al dialogo e alla gestione dell'incastro temporale. Se a questo punto siete definitivamente convinti, smettete di leggere e guardatevelo. Se volete leggere che altro ho da dire, proseguite pure: prometto di non svelare molto.

L'altro aspetto intrigante del film, o quantomeno intrigante per me, è che mentre spesso il paradosso temporale, per quanto possa essere importante nell'economia della storia, è soprattutto uno strumento utilizzato per raccontare delle vicende che gli ruotano attorno, in questo caso il paradosso temporale è la vicenda. Intendiamoci, Predestination appartiene comunque a quella fantascienza che sfrutta le sue assurdità per parlare del mondo reale, di umanità e di temi più o meno alti, ma è anche, in sostanza, il racconto di come nasca e si sviluppi un paradosso temporale. Praticamente tutta la vicenda è composta quasi esclusivamente dai pezzi del grosso puzzle che ne descrive la struttura e che pian piano vanno a unirsi fino a fornire un quadro completo e abbastanza coerente. Poi, certo, alcuni aspetti sono forse un po' traballanti e certi dubbi possono probabilmente essere risolti unicamente tramite una chiacchierata coi due Spierig (che per altro magari risponderebbero in pieno stile Rian Johnson: "Mboh, ci sembrava fico fare così"), ma la linea temporale che viene tracciata è solida e piuttosto affascinante. E questo è l'ultimo pregio che mi premeva sottolineare. Basta, ho finito, andate a guardarvelo, che merita.

L'ho visto al cinema, in lingua originale, durante l'ultima giornata di PIFFF. Fra l'altro, col senno di poi, sono abbastanza orgoglione del fatto di essere riuscito a seguirne la storia senza problemi dopo essermi sparato la maratona notturna sulle invasioni aliene e avendo dormito, boh, cinque ore al massimo. Ma forse il fatto è che un film del genere va visto così, quando sei sull'orlo del collasso isterico e hai i litri di caffè che ti scorrono nelle vene. Ad ogni modo, a casa sua (in Australia) il film è uscito l'estate scorsa, in questi giorni sta arrivando di qua e di là e secondo me non è totalmente da escludere una distribuzione dalle nostre parti.

20.1.15

Killer Klowns from Outer Space


Killer Klowns from Outer Space (USA, 1988)
di Stephen Chiodo
con Grant Cramer, Suzanne Snyder, John Allen Nelson, John Vernon

Stephen, Charles ed Edward Chiodo sono tre amorevoli fratelli che il Bronx ha deciso di regalare al mondo tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana. I tre hanno dedicato la loro vita adulta al lavoro nel mondo degli effetti speciali, con particolare attenzione su pupazzi, stop-motion e tutto ciò che stimola la nostalgia nella capoccia di chi è cresciuto negli anni Ottanta. La loro carriera vanta partecipazioni alle robe più disparate, daa Critters a Team America, passando per A cena con un cretino e svariati episodi de I Simpson. Fra i motivi per cui molti appassionati vogliono loro bene, però, c'è soprattutto Killer Klowns from Outer Space, un progetto assurdo e personalissimo, l'unico film da loro scritto e diretto, almeno fino a quando uscirà il più volte chiacchierato The Return of the Killer Klowns from Outer Space in 3D, che IMDB sostiene essere in arrivo nel 2016, con Grant Cramer pronto a tornare nel suo ruolo originale.

Ma che cos'è, Killer Klowns from Outer Space? È esattamente quel che il titolo può lasciar immaginare, niente di più e niente di meno: un film in cui arrivano dallo spazio dei pagliacci assassini. Facile, no? A distinguerlo da cinquantamila altri film di quegli anni basati su singole trovate fuori di testa c'è il fatto che in questo caso gli autori non si sono limitati all'idea di base e hanno invece spremuto fuori un film che è un frullato di invenzioni geniali una dietro l'altra, messe in fila senza freno alcuno. Tolti l'assegnino per convincere John Vernon a portare un (bel) po' di carisma attoriale e quello per commissionare ai Dickies la meravigliosa theme song, tutto il resto del budget è finito nello sviluppo di pupazzi, creature, aggeggi e assurdità varie, dando vita a un tripudio di follia incredibile, in cui non si smette mai di divertirsi ed essere sorpresi.

Killer Klowns from Outer Space è un film assurdo e fenomenale, un carico di stupidità camp sopra le righe in cui a vincere sono la fantasia e il divertimento, espressi comunque in un contesto a modo suo brutale e violento: fatico a considerarlo un film spaventoso, ma tutto sommato non mi stupisco se chi non si trova molto a suo agio coi pagliacci lo vive male. In testa, però, rimane soprattutto il modo in cui l'immaginario legato al circo, e più nello specifico ai clown, viene rielaborato per dar vita a una sorta di incubo stralunato. Dall'astronave a forma di tendone ai bozzoli di zucchero filato, passando per l'uso che viene fatto dei palloncini e delle ombre cinesi, la stupida e crudele giocosità dei pagliacci, il pop corn mutante, la fila di clown che escono dall'auto, il gelato, le vittime trasformate in marionette... cinque minuti a caso di questo film valgono tutti gli Sharknado di questo mondo per quantità di idee, senso dell'assurdo, deformazione della realtà e palpabile entusiasmo da parte di chi si trova dietro alla macchina da presa. Poi, certo, è un film scemotto, con personaggi e attori di terz'ordine e una storia che alla fin fine fa solo da pretesto per mettere in fila una lunga serie di sketch. Ma è uno spacco vero, adorabile e sincero. Avercene.

Era il film conclusivo della maratona notturna dedicata agli alieni del PIFFF 2014. Non l'avevo mai visto prima e spararmelo sul grande schermo, alle quattro del mattino, con alle spalle una notte passata davanti alle invasioni aliene, beh, è stato meraviglioso.

16.1.15

Blob - Il fluido che uccide


The Blob (USA, 1988)
di Chuck Russell
con Shawnee Smith, Kevin Dillon, Donovan Leitch Jr.

Quattro anni dopo quel capolavoro di La cosa, due anni dopo quell'altro capolavoro di La mosca, nel 1988 se ne salta fuori un ulteriore horror che aggiorna, attualizza e incupisce un successo di qualche decennio prima. Del resto, sono gli anni d'oro dei remake, è il periodo in cui degli autori dotati di un cervello funzionante ci regalavano reinterpretazioni di spessore, ben lontane dai rifacimenti al microonde cui siamo abituati oggi. In questo contesto, c'è poco da fare, Blob fa la figura del fratello scemo, ma la verità è che si tratta di un film divertente, dal gran ritmo, sorprendentemente cattivo (ci lascia le penne pure un bambino!) e che riesce appieno nel suo intento di riportare in sala quello spirito da drive-in che caratterizzava l'epoca da cui trae spunto.

Paparini del progetto sono dei giovani Chuck Russell e Frank Darabont, che scrivono assieme la sceneggiatura ma riescono a recuperare i finanziamenti per realizzare il film solo dopo essersi occupati di Nightmare 3: I guerrieri del sogno, da cui tirano per altro fuori uno fra i film più amati e di maggior successo della saga di Freddy Krueger. Dopo aver contato i soldi, quindi, spazio al loro remake, che recupera l'idea di base originale ma trasforma la massa informe assassina da creatura aliena a esperimento di laboratorio. Il classico tema dell'ansia da invasione comunista dei bei tempi si trasforma quindi, così timidamente che non è chiaro se Russell e Darabont siano davvero interessati alla cosa, in un metaforone sul terrore dell'A.I.D.S. che scuote il mondo in quegli anni. Ma d'altra parte l'idea, è piuttosto palese, sta soprattutto nel divertire e divertirsi.

Dove Russell e Darabont recuperano lo spirito dei bei tempi è infatti nel taglio assolutamente camp, seppur maggiormente cupo, ben supportato dalla truppa di caratteristi piazzati davanti alla macchina da presa. In questo senso, mi preme ricordare soprattutto gli occhi allucinati di Jeffrey DeMunn (attore feticcio di Darabont, ottimo Dale in The Walking Dead) e il classico anti-eroe motociclista con giacca di pelle, in pieno stile fifties, interpretato da Kevin Dillon (il Dave Franco degli anni Ottanta). È anche grazie a loro se Blob è fondamentalmente una divertente baracconata, che funziona alla grande ancora oggi grazie alla cattiveria, ai lievi accenni di satira e al puro senso di divertimento che sa esprimere. Anzi, forse funziona ancora meglio oggi, a quasi trent'anni di distanza, per quella sorta di affetto che si tende a provare nei confronti di un cinema ruspante, fisico, sincero e artigianale che oggi appare confinato alle piccole produzioni indipendenti, ma nel 1988 poteva permettersi un budget di tutto spessore. C'è ritmo da vendere, la fantasia nell'utilizzare l'assurdo mostro per ammazzamenti ingegnosi non manca e ci si diverte dall'inizio alla fine. Altro che Carrie.

L'ho visto al cinema, in lingua originale, come terzo film della maratona notturna sulle invasioni aliene al PIFFF 2014. Il terzo film è quello del giro di boa, dopo le tre di notte mi passa il sonno e da lì è tutto in discesa.

12.1.15

Essi vivono


They Live (USA, 1988)
di John Carpenter
con Roddy Piper, Keith David, Meg Foster

Nella seconda metà degli anni Ottanta, John Carpenter ottiene grazie a Starman uno fra i suoi più grandi successi commerciali e di critica. Sarà anche, più o meno, il suo ultimo vero successo al botteghino. Cose che capitano. Del resto, per sicurezza, a quel botto dà seguito infilando tre flop uno dietro l'altro ma, soprattutto, uno più bello dell'altro: Grosso guaio a Chinatown, forse il disastro commerciale più grande, perlomeno alla luce del budget investito, Il signore del male ed Essi vivono. E oggi chiacchieriamo proprio di quest'ultimo, che per molti versi è il film più incazzato, politico e brutale di un regista la cui filmografia, comunque, non è che le abbia mai particolarmente mandate a dire. Essi vivono prende ispirazione da un racconto di fantascienza di Ray Nelson, Eight O'Clock in the Morning, pubblicato negli anni Sessanta e chiaramente inserito nella tradizione delle invasioni silenziose in stile Ultracorpi. Ma se lo spunto fantascientifico del film è quello, il vero spirito nel racconto sta nel fastidio a quel punto ormai estremo che Carpenter prova nei confronti della politica americana degli anni Ottanta, del mondo in cui ogni aspetto della società a stelle e strisce è stato commercializzato.

Essi vivono, parola di Carpenter, racconta di "ricchi republicani reaganiani giunti dallo spazio profondo". Pone al centro dell'azione un uomo qualunque, con un cognome (Nada) che spiega tutto. È un americano medio, un operaio che si vuole guadagnare da vivere in maniera onesta, che sta cercando di rifarsi una vita nel bel mezzo di un tracollo economico devastante e che nonostante tutto crede ancora fortemente nel sogno americano, nella possibilità di costruirsi una vita sfruttando la libertà e gli strumenti che the greatest country in the world ti offre. Trova lavoro in un'impresa di costruzione a Los Angeles e si stabilisce in una specie di grosso accampamento assieme ad altri poveracci come lui. Vuole crederci, vuole essere una brava persona, ma conosce i propri limiti e cerca di non mettersi nei guai e tenere la bocca chiusa anche quando vede che attorno a lui succedono cose strane e la gente viene presa a calci in culo. Quest'uomo sconfitto dalla vita ma intenzionato a rialzarsi ha però una particolarità: oltre ad essere semplice e diretto, è interpretato da "Rowdy" Roddy Piper, uno che, se gli si chiude la vena sul collo, può diventare piuttosto pericoloso.

E cosa gli succede? Succede che a un certo punto indossa un paio di occhiali che, per qualche motivo, permettono di vedere cosa si cela dietro l'illusione, l'impalcatura di messaggi subliminali e manovre politiche tramite cui gli alieni repubblicani dal volto corrotto ci hanno ormai irrimediabilmente invasi. Tramite quegli occhiali, Carpenter ci mostra il cupo mondo in bianco e nero servito da chi comanda, un mondo in cui le forze aliene hanno invaso il pianeta Terra comprandolo, un mondo in cui anche la persona apparentemente più semplice e pura di cuore non si fa problemi a passare dalla parte dei "cattivi", se il prezzo è quello giusto, un mondo in cui qualsiasi cosa ci passi fra le mani o davanti agli occhi comunica lo stesso tipo di messaggio: compra, spendi, consuma, il denario è il tuo dio, lavora, sposati, riproduciti. Un mondo in cui alla fin fine siamo ben contenti di farci calpestare perché ci basta godere della quantità di ciarpame da cui siamo sepolti. È un mondo agghiacciante ma visivamente splendido, dipinto in un bianco e nero meraviglioso, che Carpenter mette in scena con il suo solito gusto fuori misura e che fa improvvisamente sbroccare il nostro amico Nada.


La sua reazione è quella di un uomo semplice e brutale, quella di una persona che fino a un attimo prima ancora ci credeva e improvvisamente vede tutto rosso, altro che in bianco e nero, perché si è reso conto che il mondo glie l'ha piantata in quel posto e lui se l'è presa di gusto, senza nemmeno accorgersene. È incredulo, scoppia a ridere, insulta i mostri che si trova davanti e poi decide di reagire, di farlo senza misure: imbraccia il fucile e si mette a sparare a tutti gli alieni che trova, infilandosi in una situazione da cui difficilmente potrà uscire sui suoi piedi, ma in cui forse la classe operaia salverà il mondo. Insomma, Essi vivono è un metaforone lungo novanta minuti, ed è un metaforone non esattamente sottile. Carpenter lavora di vanga e con la vena chiusa sul collo, ma del resto il messaggio è figlio della rabbia e, pur nella sua indubbia semplicità, arriva diretto come un treno merci, perfettamente attuale quasi trent'anni dopo, forse anche più attuale, al di là degli ovvi anacronismi tecnologici. E poi, sì, attorno a tutto questo c'è anche un film di genere, che Carpenter struttura con un lento accumulo d'atmosfera e giri di basso per poi scatenare una seconda metà tutta azione, battutacce, sparatorie e finale amarognolo. Nel mezzo, una meravigliosa scazzottata da sei minuti fra Roddy Piper e Keith David, i penetranti occhi azzurri di Meg Foster e tante risate a denti stretti. Poi, certo, gli eventi si sviluppano in maniera un po' tirata per i capelli, Roddy Piper, pur perfetto nel ruolo, esprime a tratti una rara carica di legnosità e l'azione stessa non è esattamente quella di Grosso guaio a Chinatown, ma del resto il punto è anche un po' quello. A Carpenter interessava tirarci in faccia il metaforone a colpi di vanga, l'ha fatto alla grande e fa male ancora oggi.

L'ho visto per la centododicimillesima volta, ma per la prima volta al cinema, come secondo pezzetto della maratona notturna a tema invasioni aliene del PIFF 2014. Ricevere metaforoni a colpi di vanga in faccia alle due di notte ha sempre il suo perché.

9.1.15

Terrore dallo spazio profondo


Invasion of the Body Snatchers (USA, 1978)
di Philip Kaufman
con Donald Sutherland, Brooke Adams, Jeff Goldblum, Veronica Cartwright, Leonard Nimoy

Terrore dallo spazio profondo, titolo italiano che sembra quasi voler negare la natura di remake del classico anni Cinquanta di Don Siegel, è il secondo film ispirato al romanzo L'invasione degli ultracorpi, di Jack Finney, in cui si racconta dell'arrivo sul pianeta Terra di forme di vita aliene capaci di sostituirsi agli esseri umani, mentre dormono, tramite delle copie sviluppate all'interno di baccelli. Si tratta di un'idea potente per mille motivi, un'invasione aliena dai metodi superficialmente quasi pacifici, sicuramente "tranquilli", che ci colpisce nel sonno, quando siamo più indifesi e teoricamente al sicuro, e che fa leva sul dubbio, il sospetto, la paranoia, l'assenza di sicurezza, la completa perdita di fiducia nei confronti di chi si trova al nostro fianco. Di fondo, affronta tematiche e suggestioni non poi così lontane da quelle di La cosa, ed è probabilmente proprio per la potenza dell'idea di base che queste due diverse versioni dell'invasione aliena subdola e mascherata tornano periodicamente a manifestarsi al cinema.

Il romanzo di Jack Finney è stato infatti adattato in quattro film diversi, con oltretutto solo uno, il bruttarello Invasion del 2007, davvero deludente. E d'altra parte, il bello dell'idea di partenza è che si presta benissimo a interpretare le paure, le suggestioni, i temi dominanti in epoche diverse. È difficile, del resto, non leggere nell'allucinata paranoia che serpeggia fra le immagini dello splendido L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel, uscito nel lontano 1956, dei riferimenti al maccartismo, ai timori dell'America postbellica, allo spauracchio del comunismo. Vent'anni dopo, Philip Kaufman sfrutta invece lo stesso racconto per parlare dei magici iuessei in cui sta vivendo, del decennio identificato da Tom Wolfe come "Me decade". C'è l'ossessione per l'individualismo, ma anche i timori nei confronti della sanità, dell'approccio all'alimentazione, oltre che un timido accenno al modo in cui la vita di coppia finisce per cambiare le persone e trasformarle - letteralmente, in questo caso - in creature completamente diverse. E proprio tramite la difficoltà nel distinguere gli esseri umani dalle copie si finisce chiaramente a parlare di conformismo e di come in fondo, forse, l'umanità vittima dell'invasione non sia poi così diversa da quella "finta" che vuole sostituirla.

Il sottotesto culturale e sociologico fa però da sfondo a una vicenda sci-fi e horror che getta la maschera fin dal primo istante. Kaufman non si gioca, questa volta, la carta del mistero e apre il suo remake dicendolo chiaro fin dai titoli di testa: delle creature aliene stanno arrivando, vogliono fregarci e vogliono farlo in quella maniera tremenda. Nonostante questo, o forse proprio per questo, il senso di paranoia è comunque devastante e il modo in cui la vita di Matthew Bennell si sgretola davanti ai suoi occhi rapisce ancora oggi in maniera incredibile, vuoi per il lavoro pazzesco e innovativo fatto sul suono, vuoi per le belle musiche, vuoi per la sceneggiatura perfettamente calibrata, vuoi perché il viso di Donald Sutherland pare progettato in laboratorio per un ruolo del genere. Al suo fianco, un adorabile e giovanissimo Jeff Goldblum, al massimo del suo splendore da ansia di prestazione, intento a gesticolare e dar spettacolo dal primo all'ultimo secondo, e una serie di attori perfettamente in parte.

Kaufman conduce il tutto mettendo in fila una serie di immagini suggestive, infilando un pezzo di bravura dietro l'altro (qua e là anche a costo di creare una certa mancanza di connessione fra le diverse scene) e dando vita a uno fra i film più sanamente inquietanti e tutto sommato meglio invecchiati di quegli anni. Terrore dallo spazio profondo riesce oltretutto nell'impresa di risultare piuttosto esplicito nel suo orrore, certo più del film originale, soprattutto quando mostra corpi parzialmente formati che escono da baccelli "vaginali", senza per questo forzare la mano e anzi finendo per mettere addosso disagio, ansia, angoscia soprattutto grazie a quel che non mostra, al dubbio, all'ignoto. Ti ammalia e assorbe fin dal primo minuto, trascinandoti nel suo abisso e chiudendosi su un finale che è una vangata in mezzo ai denti. È un remake come se ne facevano una volta: non un'inutile riproposizione moderna senza nerbo, ma una reinvenzione di forte personalità che vive di vita propria. È un filmone, insomma.

Me lo sono visto per la prima volta al cinema un paio di mesi fa, durante il PIFFF 2014, era il primo film della maratona notturna dedicata alle invasioni aliene (quattro film, dalla tarda serata all'alba, nello splendore della sala grossa, con la struttura del multisala tutta dedicata alla manifestazione: bar aperto, banchetto con panini e provviste assortite, varie ed eventuali). E, caspita, certe immagini funzionano a meraviglia, sul grande schermo.

24.12.14

Spring


Spring (USA, 2014)
di Justin Benson, Aaron Moorhead
con Lou Taylor Pucci, Nadia Hilker

Spring è il secondo film degli autori di Resolution, che non ho visto ma che una persona di cui mi fido abbastanza ha consigliato in una maniera della quale mi fido abbastanza. È ambientato in un paesello dell'Italia del sud che ho trovato ritratto in maniera abbastanza credibile, semplicemente normale, non troppo distante da ciò a cui sono abituato quando vado a gironzolare nell'Italia del sud, nonostante, per carità, abbia un paio di elementi curiosi che fanno folklore e sono a due passi dalla macchietta. Anzi, paradossalmente, l'unico vero sprazzo di cliché totale del turismo è un personaggio americano che si manifesta a un certo punto, comportandosi da turista cretino, maleducato e casinista americano. Dopo la proiezione al PIFFF 2014 ho pure preso il coraggio (e il microfono) stretto in mano, ho fatto presente alla platea che sono italiano e in francese non ce la posso fare e ho chiesto in inglese al duo se si erano posti il problema, se ci tenevano a realizzare un film in cui l'Italia non sembrasse uscita da un episodio de I Griffin. E mi hanno risposto di sì, che li ha aiutati il supporto della troupe e che le numerose vacanze zaino in spalla che il Benson s'è fatto dalle nostre parti hanno dato una mano. Insomma, bravi.

Un'altra cosa che ho fatto dopo la proiezione è stata prendere il mio bel bigliettino e dare il voto più alto fra tutti quelli che ho assegnato nel corso del festival, in cui il vincitore del concorso principale viene deciso dal pubblico. E alla fine, guarda un po', Spring ha vinto, portandosi a casa il premio e gli applausi della folla. A me fa piacere. Benson e Moorhead son simpatici, due bravi regaz. Dopo la proiezione hanno pure invitato tutti ad andare a farsi una birretta con loro nel pub di fronte, ma io dovevo rimanere in sala come un disadattato per spararmi la maratona notturna sui film di alieni. Però si apprezza il gesto, no? E magari chi mi legge apprezzerebbe che parlassi pure un po' del film. Parliamone. Spring è una romantica storia d'amore fra quello che nel remake di La casa leggeva incautamente il libro e una tizia dalle origini nebulose con nascosto nel cuore un tremendo segreto.

Materiale abbastanza tradizionale, insomma, ma scritto, diretto e interpretato da gente di talento. Spring non si vergogna di raccontare l'ennesima storia d'amore dannato, facendolo però in maniera sincera e per nulla stucchevole, inventandosi una mitologia di fondo intrigante e a modo suo originale, non tirandosi indietro in quel paio di momenti in cui bisogna mettere sul piatto la mostruosità e viaggiando su binari a metà fra l'horror, la commedia romantica e il film indipendente tutto silenzi e protagonisti mogi. E quando si arriva al dunque, incredibile ma vero, i protagonisti non si lasciano andare alla cretinaggine e decidono invece di affrontare la questione di petto, viaggiando verso un finale che funziona proprio per questo, oltre che per la notevole intesa fra i due attori. Insomma, non è che Spring sia il nuovo capolavoro dell'horror indipendente, anzi, però è una bella storia semplice, gradevole e - bonus - messa in scena tirando fuori il sangue dalle rape, con effetti speciali a basso budget che funzionano e un discreto manico dietro alla macchina da presa.

S'è fatto il giro di svariati festival mondiali e, se interpreto bene quanto dicono nella pagina ufficiale su Facebbok, alla fine ha trovato un accordo di distribuzione. IMDB lo dà in uscita in Gran Bretagna ad aprile.

23.12.14

Starry Eyes


Starry Eyes (USA, 2014)
di Kevin Kolsch, Dennis Widmyer
con Alex Essoe

Cinico, brutale, pessimista, senza speranza alcuna e testardamente intenzionato a mandare in vacca qualunque punta di buonismo, anche a costo di risultar ridicolo, Starry Eyes non è esattamente un film di Natale, ma destino vuole che finisca a scriverne proprio sotto Natale. Cose che capitano. È il secondo lungometraggio di Kevin Kolsch e Dennis Widmyer, coppia di registi che da una decina d'anni naviga nel sottobosco hollywoodiano e, forse, racconta qui anche un po' la propria esperienza nella città degli angeli e dei sogni infranti (o una versione estremizzata della stessa, si spera). Protagonista è la bella, ambiziosa, scoglionata e piuttosto brava Sarah, interpretata da una bella, volenterosa e [che ne so, non la conosco] Alex Essoe, che si dedica anima e core al ruolo passando attraverso una distruzione fisica, estetica e morale devastante.

La storiellina è semplice e prevedibile, potenzialmente quella di chiunque amerebbe mettere in pratica il proprio talento per un lavoro creativo ma si ritrova a sbattere contro il muro della mancanza di opportunità. Racconta di una donna che vuole sfondare nel mondo del cinema e vive non lontano da una certa qual scritta sulla collina, assieme a un gruppo di persone dai desideri simili ma un po' più rassegnate. La differenza fra lei e loro, scopriremo pian piano, sta soprattutto in quel che si è disposti a fare pur di ottenere il successo, nei livelli a cui si è pronti a spingersi e in quel che si ritiene accettabile, se non addirittura necessario. Circondata da mediocri, con davanti agli occhi il miraggio del successo, Sarah si lascia sedurre da un produttore che le offre il mondo e si ritrova immersa in un delirio di folle autodistruzione. Ed è tutta colpa sua.

A fronte di sviluppi tutto sommato prevedibili e di un metaforone buttato lì un po' coi guanti da forno, la forza di Starry Eyes sta soprattutto nella mancanza di pietà con cui tratta la sua protagonista, trasformandola da eroina con cui identificarsi a mostro disgustoso. Giunta alla rivelazione su quel che realmente vuole, Sarah incomincia a passeggiare sulle vite di persone magari mediocri, normali, senza ambizioni, ma che quantomeno non ti piglierebbero a coltellate pur di recitare in un filmetto di quart'ordine. E la sua trasformazione in creatura di successo, l'ingresso nell'elite che tando desidera, si manifesta anche e soprattutto sotto forma di espressione fisica, attraverso una mutazione del corpo ipnotica, disgustosa, brutale, che sembra un po' una versione patinatella del Cronenberg dei tempi belli. Ma di fondo, quel che resta dentro, come nei migliori horror che non si vergonano d'esserlo, è il senso di disagio figlio, certo, della trasformazione subita da Sarah, ma anche e soprattutto della bravura con cui Kolsch e Widmyer spostano mano a mano l'empatia verso il cast di contorno, banda di sfigati che in altri film vorresti solo veder scomparire e qui ti lasciano di sasso mentre vengono travolti dalla furia della protagonista.

L'ho visto al Paris International Fantastic Film Festival 2014 di fine ottobre. Nel frattempo è uscito negli USA, al cinema e in VOD, quindi immagino sia reperibile senza troppa fatica. Fun fact: il film è nato con una campagna di raccolta fondi su Kickstarter.

15.12.14

R100


R100 (Giappone, 2013)
di Hiroshi Matsumoto
con Nao Ōmori e un po' di pazzi furiosi

Quarta regia di quel pazzo scriteriato di Hiroshi Matsumoto, R100 si intitola così in riferimento al sistema di rating nipponico, in una sorta di meta-tripudio. La storia del protagonista Nao Omori, padre di mezz'età, la cui moglie sopravvive attaccata alle macchine in un letto d'ospedale, che per ritrovare la gioia di vivere si concede al masochismo, è raccontata sotto forma di film nel film, con degli stacchi durante i quali si esce dal racconto e si osservano le discussioni degli addetti all'applicazione del visto censura, sconvolti da quel che stanno osservando, da quanto in là il film si spinga e dall'insensatezza della trama. Nel mentre, in sala, il regista, centenario, se la ride della grossa, convinto che solo persone della sua età siano in grado di comprendere il film. E il whaddafack si sparge a macchia d'olio.

R100, sulle prime, sembra un film quasi normale. Almeno, nei limiti di quanto possa esserlo la storia di un uomo che accetta di subire pestaggi e umiliazioni, così, quando meno se l'aspetta, durante la vita di tutti i giorni, davanti alle reazioni sbalordite della gente, secondo le regole del club a cui si è iscritto. E che trova gioia, espressa attraverso un effetto speciale che gli modifica gli zigomi e gli fa emettere pulsazioni, solo quando viene raggiunto l'apice dei maltrattamenti. Ecco, in questo contesto qua, R100 è un film quasi normale, malinconico e divertente, sparato a schermo con un affascinante uso dei colori, talmente spenti da sfiorare il monocromatico, e raccontato con quella capacità tutta orientale di saltare senza vergogna dal delicato dramma di una moglie in coma al delirio demenziale più spinto offerto dalle dominatrici assurde che attaccano il protagonista.

Verso metà film, dopo la meravigliosa esibizione di Saliva Queen, roba che quasi ci resto secco dal ridere, R100 scollina e svacca definitivamente verso il delirio, trasformandosi in una specie di sconclusionato film d'azione in cui il protagonista e la sua famiglia, a causa di un incidente in cui ci scappa il morto, vengono presi di mira dalle "regine" più pericolose del gruppo. E il bello è che il conseguente tripudio di assurdità non si dimentica di portare avanti i suoi meta-discorsi, per esempio coi continui accenni a un fantomatico terremoto infilati solo perché, a quanto pare, nel cinema giapponese è obbligatorio parlare di questioni d'attualità. E insomma, R100 è sostanzialmente un gran casino, un film assurdo, pieno di invenzioni folli, con un protagonista incredibilmente bravo nel riuscire a veicolare comunque drammatica intensità all'interno di quel delirio. Ha forse un po' il limite di tirar troppo per le lunghe la parte finale, quando ormai le gag hanno un po' esaurito la benzina. O forse no. O forse quel concerto d'estasi su cui si chiude tutto è bellissimo. Non ne ho idea.

È uscito in Giappone a ottobre dello scorso anno e si è girato un po' tutti i festival internazionali, compreso il Paris International Fantastic Film Festival 2014, che è dove l'ho visto io. È uscito in qualche forma negli USA ed esiste un'edizione in DVD cinese, con sottotitoli anche in inglese. Non vorrei comunque dare l'impressione di stare consigliandolo. O sconsigliandolo. Non lo so. Voglio la mamma.

12.12.14

Musarañas


Musarañas (Spagna, 2014)
di Juanfer Andrés, Esteban Roel
con Macarena Gómez, Nadia de Santiago, Hugo Silva

Il film di cui chiacchiero oggi, in giro per l'internet, potreste trovarlo intitolato Shrew's Nest, ma a me piace il titolo originale. Voglio dire, provate a leggerlo ad alta voce, Musarañas, non ha un suono fantastico? Specie poi se - come me - non avete il benché minimo rapporto con la lingua spagnola e, quindi, lo leggete probabilmente in maniera sbagliata. Musarañas, musarañas, musarañas, musaragnagnagnagnagnas! È fantastico! Comunque, si tratta del film d'esordio di Juanfer Andrés ed Esteban Roel, due autori spagnoli con a curriculum un paio di cortometraggi ciascuno e un decennio di carriera da attore televisivo per il secondo. La loro natura di esordienti è ben esemplificata dalla presenza di un "Alex de la Iglesia presenta" sul manifesto del film, messo bene in alto, con l'evidente impressione che a un certo punto abbiano pensato fosse il caso di scriverlo ancora più grosso del titolo. E del resto, il film nasce come nascono tanti horror di questi tempi: un regista affermato ti nota, decide che gli piaci tanto e ti produce, permettendoti di mettere il nome in locandina e prestandoti anche quella bella gnocca di sua moglie per un ruolo minore. Alla grande.

Il risultato è un film bizzarro, con quell'atmosfera da horror spagnolo tutto strano che ci piace tanto, forse non riuscito fino in fondo, ma che si merita di essere recuperato in qualche maniera, magari sperando che il nome di Alex de la Iglesia scritto bello grosso sul manifesto finisca per farlo arrivare anche in Italia. Racconta di Montse, una donna brutalmente affetta da agorafobia, al punto che il solo tentativo di metter piede fuori dal suo appartamento le fa patire violenti attacchi di panico, vomito, varie ed eventuali. La poveretta, tormentata dai ricordi di un padre non proprio modello, vive con sua sorella minore, a posto con la testa ma frustrata dal pugno di ferro esercitato da Montse. L'atmosfera già non idilliaca che si respira in casa parte per la tangente quando quest'ultima si ritrova alla porta un uomo ferito, lo accoglie controvoglia per curarlo e si riscopre poi novella Kathy Bates, decidendo di bloccarlo a letto, drogarlo, aggravarne l'infortunio e, insomma, tenerselo in casa tutto per sé.

Il bello è che tutto questo viene raccontato con una serie di cambi di registro che levati, con tanto di suggestioni sovrannaturali (ma saranno realmente tali o è tutto nella testa di Montse?) e con un buon lavoro sul rendere la protagonista un personaggio sì folle e sopra le righe, ma allo stesso tempo umano, spinto da cause che te la rendono anche quasi simpatica, perlomeno fino a che non scoppia il delirio della seconda metà di film. Non manca il classico humor nero che ci si aspetta con quel nome là sulla locandina, anche se il tono generale tende a spingere soprattutto sul pedale del dramma e delle esplosioni brutali di violenza che prendono il controllo della situazione nella parte finale. Insomma, Musarañas è un film che sembra partire un po' confuso e invece, pian piano, unisce con cura tutta la roba sparsa in giro, fa salire la tensione a mille e si scatena quindi alla grande. Ben scritto, diretto con una gran cura per l'immagine e soprattutto interpretato da una Macarena Gómez totalmente fuori di testa, è sostanzialmente uno spacco.

Per il momento si è fatto solo il giro dei vari festival del fantastico mondiali. In Spagna esce a Natale. Del resto, è il classico film di Natale, no? Comunque, secondo me prima o poi in Italia ci arriva. Crediamoci fortissimo. Dai. Mano nella mano.

 
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