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18.8.14

Universal Soldier al cinema in Italia, almeno credo


Rientrato da Colonia, m'è capitata d'avanti quest'informazione secondo cui il 31 luglio sarebbe uscito al cinema Universal Soldier: Day of Reckoning, con il titolo che si vede nel manifesto qua sopra. Ora, non so effettivamente se, come, dove e quando sarebbe uscito e soprattutto, onestamente, dubito che diciotto giorni dopo sia ancora fuori, ma tant'è, mi sembra un ottimo modo per giocarmi un post da lunedì mattina e quindi lo segnalo e, soprattutto, segnalo che ne io l'ho visto due anni fa al Fantasy Filmfest di Monaco e ne ho scritto a questo indirizzo qua.

Ieri, invece, ho visto quel film là con il procione e l'albero.

7.2.13

Cinghiali giganti


Oggi, in Italia, escono al cinema un po' di film, fra cui quello di Bin Laden e quello col morto vivente che impara ad amare. Non li ho ancora visti, così come non ne ho visti altri, però uno l'ho visto e mi è piaciuto da matti: Re della terra selvaggia, fuori dallo stivale noto come Beasts of the Southern Wild. Ci sono pareri contrastanti, al riguardo, ma secondo me è una delle robe più ganze dell'anno passato e, conseguentemente, dell'attuale anno italico. L'ho visto qua al Fantasy Filmfest e ne ho scritto a questo indirizzo qua. Poi, vedete voi.

Il film di Bin Laden dovrei andare a vederlo nel weekend. Quell'altro, mah.

26.10.12

Cose accadute di recente


Ieri è uscito in Italia The Possession, il film della paura basato su una storia vera che praticamente è l'esorcista ma ebreo. Non è brutto, non è neanche bello, sostanzialmente è. Io l'ho visto qua a Monaco, al Fantasy Filmfest, e ne ho scritto a questo indirizzo qua. Questo qua sotto, invece, è il trailer del remake di Evil Dead.



Ora, io non ho nulla contro i remake, mi vanno benissimo e bla bla bla, però, in questo caso, mi chiedo francamente quale sia il senso dell'operazione. Voglio dire, non è che l'Evil Dead originale c'avesse chissà quale soggetto incredibilmente sofisticato o interessante, era un film con una tramettina semplice, tutto basato sulla gran voglia, il gran talento, le grandi idee e i pochi soldi di un gruppo di amici. Quel che capisco dal trailer è che hanno spinto sullo schifo, e OK, mi sembra coerente con quel che all'epoca venne fatto col pongo. E, boh, mi rimane addosso l'immagine di un film dell'orrore tutto sangue, schifo e buh buh, che per carità, magari mi ci diverto anche, ma insomma, il fatto è anche che mica puoi metterti a fare un remake che copia col carboncino la regia di Sam Raimi. Ma se a Evil Dead levi quello, che rimane?



Eppoi c'è il trailer di Iron Man 3, che mi puzza di presa per il culo lontano un miglio. Tutto serioso, drammatico, cupo e Christopher Nolan. Vogliono darci a bere che improvvisamente non sarà più una commedia e Robert Downey jr. non dice scemenze tutto il tempo? Senza contare che, parliamoci chiaro, se vuoi fare una roba che si prende sul serio, si deprime e non fa ridere, che cacchio l'hai assunto a fare, Shane Black? Mah, vediamo. Comunque la battuta del Mandarino è simpatica.

Tre post in tre giorni, ma non credo sia il caso di vederci un trend positivo: sto per esplodere.

12.9.12

Cleanskin


Cleanskin (GB, 2012)
di Hadi Hajaig
con Sean Bean, Abhin Galeya, Tom Burke, Charlotte Rampling, Tuppence Middleton, Michelle Ryan

La cosa affascinante di guardare un film con protagonista Sean Bean, in cui oltretutto interpreta una specie di antieroe che bene o male neanche sarebbe tanto strano veder schiattare, è che sei talmente abituato a vedere Sean Bean morire in qualsiasi cosa faccia che tutto sommato ci credi, che alla fine l'eroe, il protagonista, potrebbe rimanerci secco. Anzi, a un certo punto ti viene pure il dubbio che, ecco, ci siamo, in questa scena muore e da qui in poi andiamo avanti seguendo le vicende del coprotagonista. È bizzarro, ma è appassionante e ti mette sicuramente in uno stato d'animo diverso rispetto a quando guardi un film che ha per protagonista, che ne so, Tom Cruise.

Al di là di queste scemenze, comunque, Cleanskin è un film interessante. Uno di quei film che provano a dipingerti il mondo completamente in grigio, tutto sfumature di mezzo, raccontandoti che non c'è divisione netta fra bene e male, che i "buoni" c'hanno un sacco di marcio dentro e che i "cattivi" sono in fondo brave persone. Si racconta di terrorismo islamico nella cara vecchia Inghilterra e si esplorano sia le zozzerie commesse dai servizi segreti, sia le motivazioni dietro ai giovini che decidono di farsi saltare per aria per la causa. Non è esattamente un racconto ricco e profondo, ma è un thriller ruvido e viscerale, con un paio di sequenze piuttosto coinvolgenti e che affascina bene o male fino alla fine.

Certo, la storia d'amore  è un po' tanto caramellosa (ma va bene perché Tuppence Middleton è un po' tanto carina) e in generale c'è l'impressione di un film che se ne resta troppo di mezzo in tutto, senza voler essere genere fino in fondo, senza voler puntare sul dramma quanto potrebbe, senza insomma affondare il coltello fino al manico. Eppure le idee non mancano, Hajaig si gioca anche la carta sempre efficace di mostrarti una faccia nota per farti pensare che sarà un personaggio importante e poi ammazzartela all'improvviso a inizio film, e tutto sommato la natura da piccola produzione riesce a dare al tutto una sua personalità che tanti altri film più roboanti, e magari anche più riusciti, non hanno.

Mi pare di capire che nei pesi anglofoni il film si sia fatto un giro anonimo nelle sale e abbia poi velocemente raggiunto il mercato dell'home video. Affascinante, comunque, che IMDB riporti la data di uscita di ieri negli USA, considerando che si tratta di un film sul terrorismo. Comunque è l'ultimo film che ho visto al Fantasy Filmfest. C'era in realtà anche l'interessantissimo Doomsday Book, film coreano a episodi con nomi di peso dietro la macchina da presa, ma c'hanno avuto casini coi sottotitoli e ho dovuto mollare il colpo. Pace, diciannove film in nove giorni, ho fatto di peggio.

11.9.12

Universal Soldier: Il giorno del giudizio


Universal Soldier: Day of Reckoning (USA, 2012)
di John Hyams
con Scott Adkins, Jean-Claude Van Damme, Dolph Lundgren, Andrei Arlovski, Mariah Bonner

Tanto quanto il precedente Universal Soldier: Regeneration, questo quarto episodio della serie dall'andamento più improbabile della storia si apre con un pezzo di bravura che in un colpo solo ricorda a tutti il talento di John Hyams e il tono sconsolato, cupo e sanguinario che la saga ha ormai imboccato. Tutto il prologo è un piano sequenza in prima persona, attraverso gli occhi di un impotente Scott Adkins che viene ridotto ai minimi termini a bastonate in faccia ed è costretto ad assistere all'esecuzione della sua famiglia. L'unico elemento non del tutto riuscito della sequenza è dato da Van Damme, che pure se la cava a fare lo sguardo della macchina umana ormai andata completamente alle cozze, ma in versione pelata fa davvero venire un po' troppo in mente Silvio Berlusconi. Rimane comunque un grande inizio, sorprendente, che stabilisce un tono e un'atmosfera ben lontani da quel che ti aspetteresti da un film del genere, soprattutto visto come Day of Reckoning si presenta nel trailer (ma era accaduto lo stesso con Regeneration). E che porta avanti la storia di Luc Deveraux in una maniera un po' bislacca, tutto sommato più coerente del solito con quanto visto prima, ma con anche diverse premesse date per scontate su cui sorvoliamo perché alla fine anche chissenefrega.

Sbrigata la pratica del prologo virtuoso, il film di John Hyams prosegue mostrando la stessa ambizione di tre anni fa, la stessa voglia di raccontare una lettura realistica, violenta, senza compromessi delle idee alla base di Universal Soldier, gli stessi inevitabili problemi quando qua e là si sfiora il ridicolo, lo stesso apprezzabile coraggio. Anzi, volendo, anche una punta di coraggio in più, perché qua si abbandonano la bellissima, ma "facile", ambientazione evocativa del precedente episodio e quella fotografia sporca per spostarsi, tolto il finale, in luoghi più solari, comuni e meno comodi per ottenere il giusto mood. Inoltre ci si affida in toto a Scott Adkins, che deve reggere da solo il peso di un protagonista tormentato e, poverino, si vede che si impegna, ma fa davvero fatica e alla fine convince solo quando può scatenarsi fra piroette e mazzate. Ed è un po' un peccato, perché Hyams fa di tutto per far funzionare anche i momenti più improbabili, e spesso ci riesce, ma quando poi deve insistere sul primo piano di uno che recita proprio come il Van Damme di vent'anni fa, o forse anche peggio, eh, si fa fatica.

Eppure, nonostante i suoi limiti, Day of Reckoning rimane un film interessante, perché porta avanti ed estremizza i discorsi del precedente episodio, trattando gli Universal Soldier come creature sfruttate e abusate dal governo, parlando - grossolanamente, ma con belle intenzioni - di libero arbitrio e identità personale, chiudendo il percorso umano di Luc Deveraux in una maniera incredibilmente surreale e ambiziosa, anche se magari un po' troppo ambiziosa, con quel suo trasformare Van Damme in una specie di colonnello Kurtz. Inoltre, continua ad essere un film che si prende i suoi tempi e si concede il lusso di raccontare quel che vuole inserendo l'azione solo nei momenti adatti. E quando lo fa, quando lascia spazio ai calci in faccia, riesce ad essere viscerale, violento, esaltante e pure un po' vezzoso, con quel lungo piano sequenza (palesemente pieno di tagli al buio, but still) in cui Adkins fa a pezzi tutti i suoi avversari infilandosi nella base finale. E sono pure divertenti le mazzate con il trio Arlovski/Lundgren/Van Damme.

L'ho visto al Fantasy Filmfest qua a Monaco e vedo su IMDB che fra ottobre e novembre uscirà in un po' di posticcioli in giro per il mondo. L'arrivo in Italia immagino dipenda anche da quanto ha incassato il terzo film, che era uscito al cinema pur essendo un direct-to-video, e vai a sapere. Questo, comunque, è pensato per il cinema ed è in 3D, anche se non è esattamente un uso del 3D di quelli che salti dalla sedia e dici "poffarbacco!". 

10.9.12

Compliance


Compliance (USA, 2012)
di Craig Zobel
con Ann Dowd, Dreama Walker, Pat Healy

Compliance è un piccolo e strano film, che si racconta in maniera cruda, asettica, divertente e un po' agghiacciante, con quella comicità viscida che ti fa vergognare del tuo divertirti per quel che vedi. Narra i bizzarri eventi di una bizzarra giornata in un fast food americano, ispirandosi a fatti realmente accaduti in più di un posto, anche se magari non riproducendo in maniera fedele un episodio specifico. E che accade? Accade che la manager del posto riceve una telefonata dalla polizia, in cui le viene detto che una sua cassiera ha rubato dei soldi da una cliente. A quel punto il poliziotto comincia a impartire ordini, pretende che la ragazza in questione sia portata nel retro del negozio e perquisita, prosegue imponendo gesti e comportamenti sempre più inquietanti. E tutti, spaventati, ubbidiscono.

Come le cose si sviluppino non lo dico, anche perché il bello di Compliance sta anche nel suo lento preparare la vicenda e nel modo in cui fa intuire ma lascia in sospeso fino a quando decide di far capire cioò che comunque si intuisce fin da subito (e in realtà immagino sia detto anche nella promozione del film, ma io sono entrato in sala senza saperne nulla). Quel che dico e ribadisco è che si tratta di un film capace di mettere davvero a disagio nonostante la sua comicità anche un po' surreale, forse proprio perché quei fatti surreali sono in realtà tutt'altro che fantasiosi. E poi per la bravura degli attori, tutti assolutamente in parte nel riprodurre una mediocrità comune, da gente qualunque, in una giornata qualunque, in un'America qualunque. Gente che magari conosci, gente che potresti pure essere te.

Menzione d'onore, comunque, per Dreama Walker. Intanto per il nome che si porta dietro, santo cielo. Poi perché è sorprendentemente brava e in grado di interpretare un personaggio non semplice. Infine per la scelta di casting perfetta: con quella faccia che si ritrova, rischia di essere condannata a interpretare più o meno sempre il ruolo della fidanzatina stronza e un po' puttana (tipo in The Good Wife), e anche per questo motivo ci si sente ancora più a disagio nel seguirne le disavventure, perché ci si rende conto che no, neanche alla fidanzatina stronza e un po' puttana, vorremmo veder capitare cose del genere.

Il film, per il momento, ha fatto solo il giro dei vari festival internazionali e sta iniziando a conquistarsi delle date di uscita nel mondo. Attendiamo.

7.9.12

Re della terra selvaggia


Beasts of the Southern Wild (USA, 2012)
di Benh Zeitlin
con Quvenzhané Wallis, Dwight Henry

Beasts of the Southern Wild racconta le vicende di una comunità che risiede nella Bathtub, un luogo fittizio ispirato a tanti luoghi reali, una sacca di povertà nascosta su un'isola circondata da acque che la minacciano alla prima tempesta, separata dal mondo "civilizzato" per mezzo di una diga. Qui tutti adorano la loro casa, non ne vogliono sapere di come si vive dall'altra parte, nel cemento, e sono ben felici di starsene a mollo, nel verde, in mezzo a capre e galline. E qui vive, assieme a suo padre Wink, Hushpuppy, la bambina tramite il cui fantasioso e vibrante sguardo ci viene raccontato il film.

Ora, viste le premesse, verrebbe da pensare a un pietoso e scocciante sermone, magari con quella simpatica faccia da Sundance, insopportabilmente caramelloso. E invece Beasts of the Southern Wild ha uno sguardo furioso, evocativo, trascinante. Racconta tutto tramite gli occhi della sua protagonista, mettendo in scena un mondo dalla cruda e faticosa realtà, filtrato però dalla fantasia con cui una bimbetta adorabile si inventa giustificazioni per eventi più grandi di lei, immaginando che la tempesta in arrivo sia causata dal disgelo polare e che dai ghiacci eterni stiano uscendo mitologiche creature selvagge.

Ed è un film meraviglioso, che mi ha lasciato con occhi, bocca e orecchi spalancati dal'inizio alla fine, sommergendomi con la sua incredibile colonna sonora, facendomi venire due lucciconi così, ininterrotti, per un'ora buona, ricordandomi in una qualche maniera Il buio oltre la siepe, per la maniera fantastica con cui riesce a farti realmente vedere il mondo attraverso gli occhi di una piccola creatura. È diretto con uno sguardo incredibile da un regista al suo primo lungometraggio e ha due intensi, meravigliosi, bravissimi protagonisti: un pasticciere a cui non interessa fare l'attore e una bambina di sei anni, entrambi esordienti. C'è della magia, probabilmente, nella riuscita così perfetta di una roba del genere.

Allora, l'ho visto al Fantasy Filmfest, in lingua originale, e quel modo tutto croccante e ruspante di parlare che hanno gli attori si merita di essere ascoltato così com'è. Detto questo, il film ha fatto un gran parlare di sé in giro per i festival e infatti IMDB mi offre date d'uscita per un po' tutto il mondo. Tranne l'Italia, of course.

6.9.12

The Possession


The Possession (USA, 2012)
di Ole Bornedal
con Jeffrey Dean Morgan, Natasha Callis, Madison Davenport, Kyra Sedwick, Matisyahu

Quando l'avviso "Basato su avvenimenti reali" genera risolini in sala, è evidente che qualcosa non funziona. Oppure è evidente che questo genere di disclaimer lascia perplessi gli spettatori tedeschi, come ho scoperto alla proiezione di Compliance, un film per cui questo genere d'avviso è già più credibile. Ma sto divagando. Il punto è che The Possession sostiene di raccontare eventi realmente accaduti, per quanto magari romanzandoli. Insomma, qualche anno fa, sul serio, per una trentina di giorni una famiglia americana si è trovata in una situazione bizzarra, con la figlia più piccola che ha dato di matto. Magari stava solo sclerando pesantemente per il divorzio dei suoi. O magari, come sostiene il film, in quella scatola comprata al mercatino dietro l'angolo c'era un demone ebraico che l'ha posseduta e ha fatto un macello. Vai a sapere.

The Possession è diretto da Ole Bornedal, il danese che nel 1994 si era fatto notare con Il guardiano di notte, tre anni dopo s'era fatto da solo il remake con Ewan McGregor e poi è tornato sostanzialmente a farsi i fatti suoi in Danimarca, prima di questo nuovo esperimento hollywoodiano. Il lato più interessante del suo nuovo film (e c'è dietro sicuramente il tocco del regista, dichiaratamente più interessato alla metafora sul divorzio che al Dybbuk) sta nella voglia di concentrarsi più sui personaggi e sul racconto, che sullo spettacolo e gli effettacci. Per carità, c'è qualche inevitabile "buh" a sproposito e ci sono un po' di scene spettacolari con gente che vola in giro e bambine dagli occhi storti, ma ci si arriva con calma. La prima parte di film è largamente dedicata a raccontarci la famiglia, i personaggi, i rapporti fra di loro. A dipingere, insomma, esseri umani di cui dovrà poi importarci quando comincerà il casino. E per arrivare al casino il film si prende i suoi tempi, che è una cosa che apprezzo sempre molto.

Oltretutto, anche quando le cose si fanno serie, la sceneggiatura spreca un po' di minutaggio inseguendo tutt'altro, portando il suo protagonista (un bravo Jeffrey Dean Morgan, sempre più simile a un Robert Downey jr. con la mole e la voce di Javier Bardem ma senza il suo accento) a cercare una soluzione nel quartiere ebraico della città. E alla fine ne viene fuori una specie di versione col cappellino e la barba de L'esorcista, certo meno incisiva e di qualità, e soprattutto con poco di nuovo da dire, al di là della religione diversa che fa esotico. Poi, ok, c'è anche il problema che a me le storie di spiriti fanno poco effetto e L'esorcista mi sembra più che altro un gran bel film drammatico senza mezzo brivido. Ma quello è appunto un problema mio.

IMDB mi insegna che l'uscita italiana è prevista per il 21 settembre, assieme a The Tall Man e un po' di altra roba. La voce della bambina indemoniata fa un po' ridere già in originale, lo dico subito. Però in italiano vi perdete la voce di Javier Bardem senza accento sulla faccia di Robert Downey jr. in 16:9.

5.9.12

Ace Attorney


Gyakuten Saiban (Giappone, 2012)
di Takashi Miike
con Hiroki Narimiya, Takumi Saito, Mirei Kiritani, Ryo Ishibashi, Akiyoshi Nakao, Shunsuke Daito

Ace Attorney è un film tutto bizzarro e mattarello, che potrebbe tranquillamente piacere a chi apprezza il Takashi Miike un po più fuori di cozza (di sicuro ha poco a che vedere con Audition e 13 assassini) e, in generale, a chi ha voglia di una storia di quelle assurde che solo in Giappone sanno fare in questo modo. Ma è, evidentemente, e nonostante una certa attenzione a renderlo "comprensibile" per chiunque, un film dedicato ai fan della serie di videogiochi Capcom da cui è tratto. E lo è senza la minima vergogna, senza quei tentativi di "normalizzare" storie e ambientazioni impossibili da normalizzare che rendono completamente insensate operazioni come il film di Super Mario Bros. No, qua ci sono le pettinature assurde, ci sono gli atteggiamenti folli, c'è la gestione processuale completamente fuori di testa... c'è insomma tutto il quid del videogioco, traslato su pellicola e schiantato su grande schermo. Ed è un trionfo.

La storia segue quella del primo episodio per Nintendo DS, riarrangiandola un po', modificando alcuni dettagli e concentrandosi in particolare su due casi, ma mettendo sostanzialmente in scena quegli eventi, dagli esordi di Phoenix fino al gran duello con Manfred Von Karma. Tutto è raccontato recuperando alla perfezione il bizzarro mix di dramma e insensata demenzialità del videogioco: le situazioni sono assurdamente contorte, le interpretazioni sempre sopra le righe e segnate da una mimica che ricalca quella esagerata del videogioco, ma gli eventi restano drammatici e potenti. Ne viene fuori appunto un film bizzarro e magari non facilissimo da apprezzare, ma che non è insensato ritenere il miglior film mai tratto da un videogioco (e sì, lo so che la concorrenza è quella che è, ma Ace Attorney vince anche per meriti suoi).

Non solo c'è una fedeltà ammirevole al modello e allo spirito, c'è comunque anche un discreto lavoro di adattamento, per esempio nell'idea delle prove presentate sotto forme di enormi ologrammi, che in qualche modo riesce a recuperare il senso dello spettacolo con cui quelle azioni si verificano nei videogiochi. In più, come detto, la caratterizzazione dei personaggi è perfetta, ci sono tutte le cosette che ci devono essere (sì, compresi gli "Hold it!" e gli "Objection!") e alla fine l'unico vero limite è forse la durata, probabilmente inevitabile volendo comprimere gli eventi del gioco, ma a tratti un po' pesante. In ogni caso, per chi ha amato gli Ace Attorney, è un film francamente imperdibile.

L'ho visto in lingua originale con sottotitoli in inglese e va sottolineato che i nomi dei personaggi, nei sottotitoli, erano adattati seguendo i nomi che sono stati usati per le edizioni occidentali del videogioco. Fra l'altro, Takashi Miike ha dichiarato che è prevista una distribuzione occidentale e che gli adattamenti seguiranno appunto quelli dei videogiochi. Per il momento, comunque, credo sia uscito solo nell'oriente più remoto.

4.9.12

Replicas (In their Skin)


Replicas (USA, 2012)
di Jeremy Power Regimbal
con Selma Blair, Joshua Close, Rachel Miner, James D'Arcy

Replicas, che a me risulta intitolarsi Replicas, che nel manifesto qua sopra vedo intitolarsi Replicas, ma che su IMDB mi sostengono intitolarsi pure In Their Skin, è una specie di Funny Games un po' meno riuscito, un po' meno interessante, un po' meno d'autore, un po' meno brutalmente inquietante, un po' meno col cattivo che prende il telecomando e usa il rewind in un tripudio tutto meta. C'è qualche differenza nelle intenzioni dei cattivi di turno, e si tratta di differenze che è possibile intuire dal titolo (io ero convinto di andare a vedere una nuova rielaborazione della faccenda Body Snatchers, figuriamoci), ma per il resto siamo lì: famigliola in vacanza in casa isolata, arrivano dei tizi a intromettersi, finisce male.

Jeremy Power Regimbal, al suo esordio da regista, non insegue la ricerca d'autore di Haneke ma prova comunque a dire la sua e a staccarsi dagli stereotipi del filone con una prima parte davvero azzeccata. A funzionare, soprattutto, è il senso di disagio provocato dal comportamento bizzarro dei vicini di casa, assolutamente gentili e non aggressivi, ma stranissimi per atteggiamenti e davvero inquietanti in quei piccoli segnali che lasciano intuire quel che arriverà. Poi, però, Replicas si instrada lungo i soliti binari, succede tutto quel che deve succedere e le emozioni tendono un po' a diradarsi.

È un peccato, perché gli interpreti meritano, in particolare i "buoni" Selma Blair e Joshua Close, e le scene più riuscite sono davvero efficaci, ma alla fine rimane addosso la sensazione di aver visto qualcosa che era a uno o due passi dal diventare memorabile. E che proprio per colpa di quei due o tre passi diventa completamente trascurabile.

L'indecisione sul titolo mi fa intuire che il film sia ancora lontano dall'uscire nelle sale e si stia facendo il giro dei festival. IMDB sembra confermare, ma vai a sapere.

3.9.12

Sushi Girl


Sushi Girl (USA, 2012)
di Kern Saxton
con Tony Todd, James Duval, Noah Hathaway, Andy MacKenzie, Mark Hamill

Sei anni abbondanti dopo essere stato arrestato, Fish esce di galera. La sua prole non lo riconosce, la moglie gli mette giù il telefono e i suoi quattro ex compagni di rapine lo "invitano" a cena per fargli confessare dove cacchio siano finite le gemme scomparse in quell'ultimo colpo andato male. Roba che ti passa la voglia di uscire di prigione. La cena consiste in una corposa dose di sushi servita sul corpo ignudo della ragazza che dà il titolo al film e la storia si sviluppa tutta attorno al tavolo, coi quattro che cercano di ottenere quel che vogliono in maniera non proprio gentile e con il classico, inevitabile, veloce andare tutto a mignotte a colpi di sfiducia, menzogne e crisi isteriche assortite.

Il problema di un film del genere è che, per funzionare fino in fondo, deve essere scritto, diretto e interpretato in maniera brillantissima, da gente dotata di talento cristallino. Non è il caso di Sushi Girl, o comunque non del tutto. Gli attori sono anche bravi, il film ha i suoi bei momenti e tutto sommato non stanca per tutti i novanta e oltre minuti che dura, ma quel che sembra mancare davvero è il guizzo di talento, la trovata geniale. È un po' tutto placido e già visto e i brividi al massimo possono arrivare se ci si impressiona per le maniere violente con cui gli amigos cercano di scoprire la verità. Di buono, comunque, c'è che la matrice chiaramente tarantiniana viene a conti fatti inseguita solo fino a un certo punto (c'è un singolo monologo su argomento a caso, per fortuna) e tutto sommato l'equilibro fra la scemata autocompiaciuta e il voler davvero raccontare qualcosa si mantiene abbastanza bene.

Al di là di questo, e della struttura un po' in stile Le iene che comunque ti fa sempre venire voglia di scoprire cosa caspita sia accaduto, il motivo d'interesse del film sta anche nel cast, che sembra messo assieme col solo scopo di raggruppare attori di scarsa fama ma molto noti nel circoletto dei geek. E così fra i protagonisti troviamo Tony "Candyman" Todd, un bolsissimo Mark Hamill e Noah Hathaway (Atreyu de La storia infinita), mentre in giro per il film appaiono Sonny Chiba, Michael Biehn, Jeff Fahey e un Danny Trejo machete-munito. Abbastanza per divertirsi? Boh, questione di gusti, immagino.

IMDB non sa darmi notizie su eventuali uscite al di fuori del giro dei festival. Non che se ne senta troppo l'esigenza, eh.

Flying Swords of Dragon Gate


Long men fei jia (Cina, 2012)
di Tsui Hark
con Jet Li, Kun Chen, Xun Zhou, e un po' di altra gente cinese, compreso il Karl Urban cinese

Remake, reboot, più o meno seguito, frullato, fusione e rimescolamento di due classici del genere wuxia, Flying Swords of Dragon Gate è il primo grande esperimento del cinema cinese (sezione gente che vola e tira di spada) con il 3D. E giustamente non poteva che essere realizzato da Tsui Hark e Jet Li (anche se Wikipedia ci insegna che l'attore è stato usato come rimpiazzo dopo il rifiuto di Donnie Yen). Ed è il classico film di Tsui Hark, vale a dire una roba lunghissima e un po' confusionaria, che dura tantissimo ma ti dà l'impressione che la trama fosse stata pensata per maggior minutaggio e abbia sofferto qualche sforbiciata di troppo (la famosa sindrome di The Dark Knight Rises), ma che ha anche delle scene d'azione e di combattimento da farti balzare in piedi e piangere di gioia (e questo con i film di Christopher Nolan c'entra già di meno).

La confusione narrativa, in realtà, è più che altro nella maniera magari frettolosa con cui vengono spiegate le premesse, facendole sembrare più articolate di quanto effettivamente siano. E i limiti del racconto stanno soprattutto in protagonisti maschili dalla personalità un po' scarsa (compreso Jet Li, che non sembra averci troppa voglia, magari perché offeso dalla faccenda Donnie Yen), che non riescono a reggere troppo il confronto con le belle figure femminili e con il cattivissimo cattivo, che tende abbastanza a mangiarsi il film. Ma alla fine la cosa conta relativamente, perché dopo una mezz'oretta si arriva alla locanda che dava il titolo ai film originali e tutto decolla, fra risse assortite, comicità surreale, intricatissimi piani di spionaggio e controspionaggio, i soliti melodrammoni da operetta e tre quarti d'ora circa di azione finale da lucidarsi occhi e baffi.

E il 3D? Ecco, il 3D, oltre magari a un certo abuso di effetti speciali (nel cast tecnico c'è anche il Chuck Comisky di Avatar), è usato in maniera eccellente e divertente, con un senso della profondità irreale, un sacco di roba lanciata per aria e pure grande attenzione nello spostare in giro i sottotitoli per far spazio a questa o quella spada che si mette in mezzo. Il problema, se problema deve essere, è che è forse usato un po' troppo, e a me girano i maroni, se son lì che voglio vedere Jet Li e i suoi amici che tirano di spada e Tsui Hark me li inquadra di fronte perché si diverte a infilarmi nella pupilla spade che si agitano a caso. Aggiungiamo pure che, ok, certe cose raccontate nel film le puoi fare solo al computer, ma insomma, io un wuxia lo guardo anche per la fisicità data dal vedere gente che salta e rischia la vita davvero appesa ai fili, e se invece in metà delle scene ci sono i pupazzetti in CG ci rimango male. Ma magari sono io che sono vecchio, un po' come Jet Li, che si agita ancora come pochi, ma guarda con nostalgia al suo se stesso di tanti anni fa. Detto questo, Flying Swords of Dragon Gate è comunque uno spettacolo di film, pieno di belle invenzioni, divertentissimo, trascinante ed esaltante nei tanti momenti in cui le cose funzionano come devono. Avercene, insomma.

Va anche detto che un film da due ore in 3D coi sottotitoli che ti costringono a cambiare continuamente l'attenzione e la messa a fuoco fra le robe in profondità e le scritte in primo piano può mettere un po' a disagio. Però, dai, è comunque girato con attenzione, il montaggio è docile, quando si menano parlano pochissimo, si sopravvive.

2.9.12

Cockneys vs Zombies


Cockneys vs Zombies (GB, 2012)
di Matthias Hoene
con Rasmus Hardiker, Harry Treadaway, Michelle Ryan, Alan Ford, Georgia King

Mi sono avvicinato a Cockneys vs Zombies aspettandomi un nuovo Attack the Block, e sicuramente l'errore è stato mio. Speravo di godermi una bella proiezione in una sala piena di tedeschi ubriachi pronti a divertirsi, far casino, ridere e scatenare applausi davanti a un film divertente, ben girato, carico d'azione e di battute adorabili. I tedeschi c'erano ed erano ubriachi, ma il problema è che ci siamo trovati tutti assieme davanti alla solita commedia che ti aspetti divertentissima e poi scopri che le scene più divertenti le hai già viste nel trailer. E quando le rivedi al cinema ti fanno ridere molto meno. Eccolo, il trailer:



Ora, già la roba che si vede qua sopra non è che sia da strapparsi i capelli, ha giusto un paio di trovate davvero belle, ma insomma, uno ci spera. Il film, però, ci aggiunge appena un paio di cose azzeccate (raro esempio di film i cui protagonisti hanno visto dei film di zombi e sanno come comportarsi, per dire) e ci mette attorno un sacco di scene barbose, una comicità piuttosto piatta, una regia di un moscio che non ci si crede, Michelle Ryan che fa la dura e praticamente nient'altro. Poi, certo, bisogna mettere in conto che magari io, da italiano, non riesco a cogliere almeno un po' della comicità legata al giocare con gli stereotipi dell'essere cockney oggi, e per onestà devo aggiungere che le scene dedicate ai personaggi anziani sono tutte gradevolissime. Ma non c'è altro.

E rimane il fatto che guardando Cockneys vs Zombies si ride davvero poco, spesso di quel ridacchiare non convinto in cui ci si sta tirando di gomito a vicenda perché sai che è una scena in cui bisogna ridere. In più, non ci si emoziona mai e non si gode nemmeno di un po' d'azione fatta come si deve. Shaun of the Dead non tiriamolo proprio in mezzo, insomma, che è veramente tutto un altro campionato, rispetto a questa robetta in cui si passa la maggior parte del tempo con addosso quell'espressione un po' delusa del cagnolino a cui han sventolato davanti un osso e poi han deciso di non darglielo per dispetto. Mestizia.

Il film è stato diretto da un tedesco, che prima della proiezione è salito sul palco e ha detto delle cose in tedesco. Ma io il tedesco non lo capisco, quindi sarcatz.

Eden


Eden (USA, 2012)
di Megan Griffiths
con Jamie Chung, Matt O'Leary, Beau Bridges

E quest'anno il premio "non c'entra nulla con il Fantasy Filmfest ma è ganzo, potevamo infilarcelo e quindi perché no" va a Eden di Megan Griffiths. E meno male, aggiungerei, perché Eden è un film bellissimo, duro, che riesce a colpire nello stomaco e mettere sinceramente a disagio pur senza scivolare mai nell'esplicito, men che meno nel gratuito. Uno di quei film per i quali l'avviso "basato su fatti realmente avvenuti" ti lascia addosso una sensazione di sporcizia veramente difficile da schivare, perché gli avvenimenti saranno anche romanzati ma la sostanza rimane, ed è una sostanza sporca, brutta, di quelle che poi ti vergogni un po' di stare al mondo, anche se tu certe cose non le faresti mai.

La storia si ispira a quella di Chong Kim e, cambiando i nomi delle varie persone, racconta di un'organizzazione per la tratta di schiave sessuali nel bel mezzo degli USA, a due passi dalle vite normali di chi ignora o sceglie di ignorare. Adolescenti che vengono rapite e costrette a vivere in un magazzino in mezzo al deserto, tenute in ottime condizioni igieniche e di salute, date in affitto come prostitute, attrici di film porno e altre sciccherie. Tutto è perfettamente organizzato, con tanto di braccialetto per la localizzazione atto ad evitare fughe, perfetta rete di contatti coi clienti e copertura ai limiti dell'impenetrabile garantita dalla presenza di un marshall (Beau Bridges) a coordinare l'attività. Insomma, una vera e propria agghiacciante azienda, pensata nei minimi dettagli e per ogni evenienza.

Megan Griffiths racconta i fatti seguendo il viaggio personale della sua protagonista, interpretata da una bravissima Jamie Chung (ma fantastici anche Matt O'Leary e Beau Bridges), raccontando tre mostruosi anni della sua vita e il modo in cui è riuscita ad adattarsi e a compiere gesti insopportabili aggrappandosi a una speranza di libertà. Tutto è messo in scena con una grazia fenomenale, senza indugiare mai sulle umiliazioni e il degrado subito dalle donne protagoniste. E forse anche per questo, per la parvenza di normalità che pian piano assumono le vicende e per il modo credibile e assolutamente non esasperato in cui vengono tratteggiati i personaggi, risulta ancora più forte e capace di colpire allo stomaco. Insomma, bellissimo.

Per il momento Eden sta facendo il giro dei festival internazionali, ma pare che all'inizio del prossimo anno comincerà ad essere distribuito.

1.9.12

Eva


Eva (Spagna, 2011)
di Kike Maillo
con Daniel Bruhl, Claudia Vega, Marta Etura

Eva è il classico film spagnolo che ci fa rosicare perché in Italia una roba così non la fanno neanche per sbaglio e siamo rimasti fermi a Nirvana. È un tentativo di fare fantascienza adulta, credibile, approfondita e interessante, ed è un film realizzato con cura, che ha magari il solo difetto di limitare la propria ambizione all'ambito produttivo, mentre alla fin fine la storia se ne rimane bella adagiata sui binari del reinterpretare la solita faccenda di Pinocchio. Cosa che comunque fa con grande sensibilità, trasmettendo un calore e una passione fortissimi, che sciolgono le nevi dell'ambientazione alpina.

Insomma, Kike Maillo si limita a raccontare una storia semplice, dalle tematiche tutto sommato molto simili a quelle di I.A., ambientata in una cittadina montana che sembrerebbe attuale, non fosse per la presenza di automobili dalla propulsione strana, computer fascinosi e, certo, robot. Robot di tutti i tipi, dai bidoncini in stile Guerre Stellari a quelli un po' più camuffati, che simulano il comportamento degli animali domestici e delle persone, il cui livello emotivo può essere regolato in una scala da 1 a 10 e che comunque tradiscono sempre la loro natura artificiale.

In questo contesto, il protagonista è un genio della robotica a cui viene commissionato il lavoro sulla creazione di un bambino robot, con tutte le difficoltà del caso nel ricreare l'emotività instabile di un infante e i problemi derivanti dal fatto che sta tornando nel luogo in cui è cresciuto e dove suo fratello ha sposato la sua vecchia fiamma. E insomma, quel che segue è abbastanza prevedibile: drammi familiari, amori repressi, invidie assortite e, ovviamente, tutta la faccenda dell'intelligenza artificiale. Però il film è raccontato bene e appassiona, nonostante le classiche trovate visive per rendere cinematograficamente ganza l'arte della programmazione risultino francamente un po' ridicole e fuori contesto. Comunque, una bella visione.

Il protagonista è lo stesso Daniel Brühl di Goodbye, Lenin! e Bastardi senza gloria. Ma quante lingue parla? Comunque, Eva, che è passato dal Festival di Venezia l'anno scorso, è uscito in Italia ieri, proprio il giorno in cui l'ho visto qua al Fantasy Filmfest. 

A Chinese Ghost Story (2011)


Sien nui yau wan (Cina, 2011)
di Wilson Yip
con Louis Koo, Yifei Liu, Shaoqun Liu, Kara Hui, Elvis Tsui, Siu-Wong Fan

Me l'hanno venduto come A Chinese Ghost Story, scopro ora che sul manifesto cinese si intitola A Chinese Fairy Tale, ma insomma, cambia poco, la sostanza rimane quella: un remake modernizzato, giovanilizzato e francamente anche un po' cheap, con elementi di trama rimescolati e qualche idea inedita, del film più o meno omonimo  del 1987. E com'è venuto fuori? Mboh? Nell'internet lo trattano piuttosto male, ma io ammetto di avere ricordi vaghissimi dell'originale e, quindi, mi riesce difficile fare un confronto sensato. Di sicuro è un film dai toni esageratissimi, con un senso della commedia e del dramma da filmetto di genere orientale, che quando sfonda i confini del melodramma è un po' stucchevole, ma alla fin fine ha sempre quel tono lieve da filmetto bizzarro che ti guardi in videocassetta stupendoti per le sue assurdità. Di sicuro, insomma, non ha i toni eleganti, occidentalizzati e amichevoli di Hero o La tigre e il dragone.

La storia è semplice semplice, ambientata tanto tempo fa, in una Cina lontana lontana dove i demoni sfrecciano liberi per la campagna e c'è una quantità di cacciatori (di demoni) esorbitante che li insegue. I demoni, però, assumono la forma di manze indicibili e seducono gli umani. Ne consegue che un cacciatore di demoni si innamora di una demonessa particolarmente cicci, ma finisce per decidere di cancellarle la memoria perché il loro è un'amore impossibile e proprio non si può (da notare che, a causa di questo ragionare col pisello, diversi colleghi finiscono ammazzati e il suo amico Karl Urban cinese perde un braccio). Parecchi anni dopo, un ragazzetto sfigato incontra la stessa demonessa e se ne innamora, altre demonesse si incazzano e vogliono fare un macello, il cacciatore di demoni di cui sopra interviene a far casino e poi arriva pure il Karl Urban cinese ad aggiungere colpi di spada e superpoteri. Insomma, tutto un Romeo e Giulietta pieno di piroette e una storiellina che potrebbe tranquillamente stare in un manga di Rumiko Takahashi (che è giapponese, ma fa lo stesso).

Il Karl Urban cinese.

E tutto questo si traduce in un filmetto che ha tutti gli ingredienti prevedibili: c'è il melodrammone amoroso insistito fra umano e demone, c'è la comicità surreale dai toni esagerati, ci sono le soluzioni visive affascinanti che fanno riferimento alla mitologia cinese, risultano tanto tanto esotiche per il gusto occidentale e danno l'impressione di stare guardando un manga d'azione fantasticheggiante interpretato da attori. E alla fine, se si leva il nome che porta sulle spalle e si entra nell'ordine di idee di stare guardando una sciocchezzuola dimenticabile, il divertimento sta tutto lì. Perché poi, non ci posso fare niente, quando questi cominciano a saltare in giro, roteare spadoni fiammeggianti, combattere demonesse dai capelli che s'allungano e frustano, sparare raggi gamma da tutte le parti, pronunciare formulette magiche, applicare sigilli, nuotare su mari di foglie, io ancora un po' e mi metto a piangere. Sarà che non ci sono abituato.

Visto in lingua originale con doppia riga di sottotitoli, la prima in qualche lingua cinese, la seconda in inglese ma palesemente realizzata dai cinesi stessi, o comunque da qualcuno che non si rendeva conto delle assurde frasi che qua e là stava scrivendo. E in fondo pure questo aggiunge al fascino da visione cheap in videocassetta un pomeriggio di quindici anni fa.

I bambini di Cold Rock



The Tall Man (USA, 2012)
di Pascal Laugier
con Jessica Biel, Jodelle Ferland, Stephen McHattie

Allora, parliamoci chiaro: se uno guarda il poster e il trailer qua sopra, scorre i credits su IMDB e ci somma "il regista di Martyrs" e "Jessica Biel", è tendenzialmente portato a pensare che The Tall Man (annunciato per l'italia come I bambini di Cold Rock) sarà un film horror tutto crudele, cattivo e spaventevole con una qualche forma di Babau o di serial killer che rapisce i bambini, con Jessica Biel più o meno nuda che viene riempita di schiaffi e con l'uomo che fuma di X-Files. E invece, The Tall Man, nonostante per un po' ti faccia anche credere di essere questa cosa qui, non è assolutamente un film horror, al massimo è un poliziesco con un po' d'azione, ha sempre in scena Jessica Biel struccata con addosso un maglione smunto e nemmanco inquadrata di terga (però un po' di schiaffi li prende) e, sì, ha l'uomo che fuma di X-Files in un ruolo di contorno. Tutto ciò non è necessariamente un problema, anzi, però, a volte, tarare le aspettative aiuta, perché se vai al cinema a guardare 'sta roba aspettandoti il sangue poi finisce che ci rimani male.

E di che parla, The Tall Man? Limitiamoci a dire che parla di quel che dice il trailer e di molto altro, perché poi, un po' come in Brake, tutto il film è basato su una lunga e continua serie di colpi di scena e ribaltoni che sarebbe un peccato svelare. E che, tanto quanto in Brake, funzionano in misura direttamente proporzionale alla voglia di chi guarda. Un po' perché, al centododicesimo colpo di scena, è difficile biasimare chi perde interesse nella storia o comunque smette di crederci, un po' perché comunque è proprio il tipo di storia in sé, costruita in questa maniera, che tende a farti "uscire" dal racconto ed entrare nell'ordine di idee del "OK, vediamo se sgamo in anticipo il prossimo ribaltone".

Al di là di questo, e del fatto che tutto sommato, se ci si lascia andare, alla fine rimane sempre divertente farsi prendere per il culo dal gioco dei cento twist in cinque minuti, bisogna anche dire che The Tall Man ha ambizioni che vanno pure oltre il solo giocherellare coi colpi di scena. Prova infatti a fare discorsi sui massimi sistemi e si concede il lusso di non tirare conclusioni nette e lasciare qualche dubbio su dove stia la ragione, su quali siano le scelte giuste. Certo, se poi tutto questo me lo confezioni a botte di spiegoni interminabili, la morale dubbia me la consegni recitandola per filo e per segno e sottolineandomi violentemente il punto di domanda, e oltretutto ti appoggi su sottili e originalissime soluzioni narrative come la bambina dark che non parla e si esprime disegnando sul quaderno, beh, poi non ti puoi nemmeno stupire se in sala partono le risatine e qualche pernacchia. Però si apprezza il tentativo, dai.

Incredibile ma vero, ho una data da segnalare per l'uscita italiana di un film visto al Fantasy Filmfest! I bambini di Cold Rock dovrebbe infatti manifestarsi al cinema in Italia il 21 settembre. 

31.8.12

Brake


Brake (USA, 2012)
di Gabe Torres
con Stephen Dorff

Brake parte da una premessa molto simile a quella di Buried, anche se poi va a parare da tutt'altra parte, ed è una tutt'altra parte che chiaramente non posso approfondire, perché si finisce un po' per rovinare la visione. Il punto, comunque, è quello: c'è Stephen Dorff che si sveglia prigioniero dentro una specie di bara di vetro. Non sa perché e percome, sa solo che è circondato dal vetro, si trova al buio e davanti ai suoi occhi c'è un grosso timer con un conto alla rovescia che scorre implacabile. E chiudiamo qui con le spiegazioni, visto che poi alla fin fine Brake si basa per intero proprio su un continuo svelamento di sorprese e, ovvio, sull'ottima interpretazione di Stephen Dorff, che per il 90% del tempo è l'unico personaggio in scena, anche se in un modo o nell'altro trova sempre una via per comunicare con altr... occhei basta non dico nulla.

E alla fine è proprio nella faccenda delle sorprese che sta la principale differenza col film di Rodrigo Cortes. Mentre lì, sì, ci sono chiaramente dei misteri da svelare, ma il punto è soprattutto creare una situazione di totale e opprimente angoscia, qua ci si gioca invece tutto su un ritmo e un tipo di atmosfera diversi. Nonostante anche in questo caso il regista se ne stia sostanzialmente tutto il tempo inscatolato assieme al suo attore (anzi, subito fuori dalla scatola, visto che tanto è di vetro), Brake è quasi un film d'azione, ha un incedere ben più "veloce" e getta sul piatto colpi di scena, rivelazioni e ribaltamenti di fronte a ritmo continuo.

È chiaro che, procedendo in questo modo, e volendo continuare a sorprendere fino alla fine, si debba costantemente alzare il tiro e si finisca piuttosto in fretta per sfondare il muro della cazzata, anche nell'ottica del voler sorprendere chi si sente tanto furbo ed è convinto di aver capito tutto (eccomi!). E infatti l'efficacia di Brake, oltre che dalla bravura di Stephen Dorff, dipende tutta dal tasso di sopportazione dello spettatore e da quanto questi sia disposto a stiracchiare il patto di credibilità stretto col film. Fermo restando che, se si accetta l'avvio con Stephen Dorff inscatolato nel vetro col timer davanti, beh, poi non ci si può lamentare troppo delle assurdità, stando al gioco ci si diverte. Eventualmente anche ridendone, del gioco.

Non ho notizie sulla distribuzione italiana, ma segnalo che il film ha iniziato a uscire un po' in giro per il mondo direttamente nell'home video. Ah, SPOILER: Fra i colpi di scena della parte finale c'è la circonferenza raggiunta dal corpo di Tom Berenger.

30.8.12

After


After (USA, 2012)
di Ryan Smith
con Steven Strait, Karolina Wydra

La premessa di After non è magari delle più originali, ma è sempre affascinante: lui e lei sono da soli su un autobus, lei è manza, lui è un po' sfigato, lui prova ad attaccare bottone, lei lo respinge un po'... e poi l'autobus si schianta e loro due si risvegliano in una specie di non luogo che sembra la loro cittadina ma c'ha palesemente qualcosa di strano (nel senso che è deserta, ogni tanto ci sono strane apparizioni dal passato e la zona è circondata da una roba che sembra il nulla de La storia infinita o, in alternativa, il bordello attorno al cinema di La notte del drive-in). Allo spettatore è subito chiaro che questi sono morti, o al limite in coma, e si trovano in un qualche luogo dell'aldilà, di transito, di purgatorio o cose del genere. I due protagonisti, chiaramente, non se ne rendono conto, impiegano un po' del film a capirlo e poi cercano di venirne fuori in qualche modo. Magari non originalissimo, ma non male, no?

Il problema è che After viaggia in quel limbo fatto di elementi, situazioni, idee che è facile far funzionare in un fumetto, un cartone animato, un videogioco, ma un gran casino non rendere ridicoli in un film "live action". Ci vuole una sensibilità forte, ci vuole grande personalità, ci vuole magari un budget di spessore e, possibilmente, ci vuole Guillermo Del Toro. Qui, invece, abbiamo un regista esordiente che si impegna ma fa un po' fatica a trovare il giusto equilibrio (non aiutato da una colonna sonora che esagera i toni epici e drammatici di un film a cui avrebbe invece fatto bene un po' di understatement), degli effetti speciali abbastanza poveri, anche se tutto sommato spesso usati in maniera intelligente, un protagonista quasi simpatico ma che sembra il fratello meno talentuoso di James e David Franco, una protagonista manza e, beh, e nient'altro che manza.

Il risultato è un film che non sfocia forse mai nel ridicolo, ma ci va spesso pericolosamente vicino, col suo raccontare di grandi drammi esistenziali, colpe represse, mostri cannibali incatenati e porte dell'inconscio da aprire trovando la chiave giusta. E alla fin fine, pur risultando abbastanza impacciato quando tenta in tutti i modi di farti commuovere, riesce ad essere simpatico e a modo suo interessante, soprattutto quando si limita ai toni lievi, ironici e avventurosi che gli riescono meglio.

Nonostante il poster lì sopra sentenzi "ONLY IN THEATERS", IMDB sostiene che non è ancora uscito da nessuna parte. Ma quanto è bello che ieri, nel programma del Fantasy Filmfest, ci fossero di fila The Day e After?

The Day


The Day (USA, 2011)
di Douglas Aarniokoski
con Shawn Ashmore, Dominic Monaghan, Ashley Bell, Shannyn Sossamon, Cory Hardrict

The Day si apre con una specie di prologo tutto bello colorato e alternato ai titoli di testa, in cui si capisce che c'è stata una qualche apocalisse ma non si capisce bene a base di cosa. Magari sono zombi, magari sono mostri, magari c'è stata la guerra, non si sa. E ci viene mostrato l'Uomo Ghiaccio che lascia un attimo sua moglie in macchina per andare a rubacchiare provviste in una casa, poi torna e puf, la moglie non c'è più. Un genio, insomma. Sbrigata la pratica di spiegarci i sensi di colpa in base ai quali il protagonista del film si comporterà come un disperato cretino, si passa alla vicenda vera e propria, che sembra proporsi come una versione un po' più tamarra di The Road: cinque tizi sporchi, luridi, malati e disperati che vagano nel post-apocalittico alla ricerca di speranza e salvezza, il tutto in bianco e nero.

Ci sono però due problemi. Innanzitutto il fatto che fra i cinque tizi si cerchi di far passare il cretino di cui sopra come quello intenso coi monologhi riflessivi e l'hobbit scemo de Il signore degli anelli come il capo ruvido, con la voce rugosa e che fa le scelte difficili. Il resto del cast, fra l'altro, andrebbe anche bene: Cory Hardrict urla contro i cattivi, Ashley Bell è quasi credibile come picchiatrice cazzuta (soprattutto perché non è super umana e prende anzi un sacco di schiaffi da gente più grossa di lei) e Shannyn Sossamon fa quella che vorresti portarti a letto anche se è sporca ma vorresti riempire di schiaffi perché è stronza. Purtroppo ci sono appunto gli altri due, credibili più o meno come se quei ruoli li interpretassi io.  L'altro problema è rappresentato da Aarnioski, uno che, porello, ha come highlight in carriera il quarto Highlander (quello in cui si incontrano i MacLeod di film e telefilm) e, pur riuscendo bene o male a confezionare qualche immagine piuttosto suggestiva, non sa proprio decidersi fra il film d'introspezione e la tamarrata. Il risultato è una tamarrata che prova ad essere introspettiva con un paio di monologhi da coma etilico e finisce per essere ridicola.

Poi, per carità, qualche momento gradevole c'è, l'idea di non spiegare nulla crea una bella sensazione di spaesamento e, soprattutto, fino alla rivelazione di metà film, ti lascia bene in sospeso. La sceneggiatura, poi, prova a prendere di petto tutto il discorso su come certe situazioni finiscano per disumanizzare anche il più simpatico degli ometti, ma è veramente tutto trattato in maniera grossolana e fra l'altro non aiuta una colonna sonora fin troppo insistente, che stupra la scena con la delicatezza di un fullback sparato in una cristalleria. Volendo, si può anche apprezzare per simpatia umana il fatto che nella parte conclusiva il gruppetto di amici (l'Uomo Ghiaccio e l'hobbit hanno anche co-prodotto) getti platealmente la maschera: tutta la faccenda è un pretesto per mettere in scena un omaggio a La notte dei morti viventi. Il risultato, però, fa acqua da tutte le parti. E insomma, il meglio che gli possiamo dire è che è simpatico, s'impegna, ma proprio non c'ha le qualità ed è davvero trascurabile.

Poi, volendo, uno si potrebbe pure chiedere come mai uno nato, cresciuto e andato a scuola negli iuessei c'ha l'accento di Dominic Monaghan, ma magari è invece normale. Del resto che ne so, io, di come dovrebbe parlare un compagno di classe di Shawn Ashmore? Ah, ovviamente non so nulla di un'eventuale distribuzione italiana, ma francamente chissenefrega.

 
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