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23.1.15

Tusk


Tusk (USA/Canada, 2014)
di Kevin Smith
con Justin Long, Michael Parks, Haley Joel Osment, Johnny Depp, Genesis Rodriguez

Circa sette anni fa, ormai quasi otto, Kevin Smith e il suo amico per la pelle Scott Mosier scoprono di potersi divertire un sacco nel fantastico mondo dei podcast e iniziano a registrare ogni settimana un'ora di chiacchiere più o meno sceme sul tema "Boh, quel che ci interessa questa settimana". Una volta elargito a un mondo che non aspettava altro, il risultato di quelle chiacchierate, che si chiama SModcast perché i nomi dei podcast tendono a venir fuori così, riscuote un successone tale da diventare la base per un discreto business. Se da un lato infatti è noto che anche se ti chiami Kevin Smith e il tuo podcast lo scarica chiunque, i soldi non ce li fai lo stesso, dall'altro puoi trasformare il tutto in uno strumento tramite cui creare (o, se ti chiami Kevin Smith, consolidare) una fanbase che poi ti compra il libro, ti paga il biglietto per l'evento live e ti spinge a dirigere un film cretino che, pur incassando pochissimo, finisce per fare da trampolino per il rilancio della tua carriera da regista. E insomma, alla fine giusto così, no? Boh.

Comunque, Tusk nasce per l'appunto da SModcast, per la precisione dal duecentocinquantanovesimo episodio, nel quale Smith e Mosier si trovano a chiacchierare di un'inserzione pubblicitaria (poi rivelatasi finta) apparsa su Gumtree, in cui un tizio offre alloggio gratuito a chiunque sia disposto a travestirsi da tricheco. Dopo aver trascorso un'ora sparando cretinate col suo amichetto su un'ipotetica storia ispirata a quell'inserzione, Smith chiede a Twitter di fargli sapere se sia il caso di mettere in produzione un film del genere. #WalrusYes o #WalrusNo? Domanda retorica. Circa un anno dopo, Tusk arriva nei cinema e incassa meno di due milioni di dollari, ma - spiega Smith a chi gli sventola in faccia il flop - facendo la tara fra quei due spiccioli, il budget ridottissimo e i soldi arrivati con gli accordi di distribuzione, chiude in attivo e convince la gente che conta a finanziare non uno, non due, ma addirittura tre nuovi progetti del Kevinone. Nei prossimi anni, quindi, a meno di imprevisti, arriveranno Clerks 3 e altri due film ispirati al fantastico mondo dei podcast, che comporranno con Tusk la True North Trilogy. Tutto è bene quel che finisce bene.

"Stacce."

Ma Tusk com'è? Beh, è un film che ha per protagonista un podcaster (wink wink) insopportabilmente borioso (Justin Long), amico di un podcaster un po' meno insopportabile ma insomma (Haley Joel Osment). Il borioso, per una serie di incredibili coincidenze nate dallo star cercando argomenti di discussione per il podcast, si ritrova nelle mani di un signore di una certa età (Michael Parks) che, per una serie di eventi che non andremo ad approfondire, non si accontenta di un costume da tricheco. L'inserzione che Justin Long e i suoi baffi scovano è più generica rispetto a quella "reale", offre alloggio gratuito e tante storie interessanti da raccontare, ma il nostro amico Parks è in realtà un pazzo furioso che ha la fissa di trasformare uomini in trichechi. Letteralmente. Justin si ritrova quindi velocemente drogato, senza baffi e vittima di disgustose operazioni che lo trasformano in uno scherzo della natura, una specie di tricheco umano che sbava, ringhia e mangia pesce.

Se sembra una situazione completamente cretina è perché si tratta esattamente di quello. E del resto Tusk nasce da una chiacchierata scema ed è realizzato a solo uso e consumo di chi voleva il film cretino nato da quella chiacchierata scema. A tutti capita di trascorrere una serata inventandosi idiozie assieme agli amici, buon per Kevin Smith che può permettersi di trasformare quelle idiozie in un film. L'aspetto paradossale della faccenda, per altro, sta nel fatto che Tusk funziona quando si prende sul serio e crolla miseramente quando la butta in farsa. La parte iniziale, che propone dei protagonisti a metà fra il fesso e il deprecabile e inizia pian piano a costruire il classico viaggio implacabile verso l'incubo, fa il suo dovere. Michael Parks che fa il matto, come già in Red State, è una meraviglia. Genesis Rodriguez è gnocca. I momenti più puramente horror e di disagio, seppur ovviamente cosparsi da un bel po' di humor nero, funzionano quasi tutti. Insomma, come horror grottesco e completamente sopra le righe, Tusk non sarebbe neanche male e ti farebbe quasi venir voglia di pensare che abbia cose interessanti da dire sull'attuale era dell'entertainment e della comunicazione online. Quasi, eh.

Il problema è che Smith non sembra interessato a crederci minimamente e butta nel mucchio una deriva demenziale impresentabile, più o meno tutta concentrata nella partecipazione di Johnny Depp truccato da Johnny Depp che fa il cretino canadese con l'accento francese di Johnny Depp e un po' di trucco raffazzonato da Johnny Depp sulla faccia di Johnny Depp. Un personaggio talmente cretino da risultare cretino anche nel contesto di un film cretino come Tusk, e che - immagino - dovrebbe farci molto ridere perché si capisce benissimo che c'è Johnny Depp sotto quel trucco talmente raffinato da rendere irriconoscibile Johnny Depp. Non ho riso. Sta di fatto, però, che ne viene fuori un film costantemente indeciso fra serietà e farsa, incapace di trovare un equilibrio fra le due direzioni, diretto da una persona a cui, probabilmente, fotte sega. Ciliegina sulla torta, i titoli di coda sono accompagnati dalle porzioni della chiacchierata originale fra Smith e Mosier in cui i due ridono come matti proprio delle parti di storia che il film prova a prendere sul serio. E, insomma, sarà un problema mio, ma faccio proprio fatica a non vederci un'enorme coda di paglia.

L'ho visto al cinema, in lingua originale, qualche tempo fa. Era il film di chiusura del PIFFF 2014. Non so, onestamente, se sia prevista una distribuzione italiana, però è passato al Festival di Roma dell'anno scorso. Fun fact: gli altri due episodi della True North Trilogy saranno Yoga Hosers, di cui si sono già concluse le riprese e che è incentrato - glom - sul personaggio di Johnny Depp, e Moose Jaws, descritto come "Lo squalo, ma con un'alce". E vabbuò, che gli vuoi dire?

22.1.15

Predestination


Predestination (Australia, 2014)
di Michael e Peter Spierig
con Ethan Hawke, Sarah Snook, Noah Taylor

Ogni tanto mi ritrovo a scrivere di un film in preda all'ansia del non volerne rovinare la visione e finisco per dire subito "È bello, smettete di leggere e guardatevelo". O anche "È brutto, quindi potete pure continuare a leggere, tanto chi se ne frega". In questo caso diciamo "È bello, se vi piacciono i film sui viaggi nel tempo smettete di leggere e guardatevelo". Fra l'altro, di fondo, già dire una cosa del genere finisce per cambiare almeno un po' l'esperienza di chi ti legge, perché poi si presenterà davanti allo schermo non completamente vergine, aspettandosi già il film in cui c'è qualcosa da scoprire, un colpo di scena, whatever. Ma d'altra parte, ehi, do per scontato che se sei uno a cui piace presentarsi vergine in sala (come fra l'altro è più o meno capitato a me per questo film), beh, non mi leggi prima di aver visto il film. Ad ogni modo, se vi piacciono i film sui viaggi nel tempo, smettete di leggermi, date una chance a Predestination e magari poi tornate a leggermi. Se vi interessa invece leggere un mio giudizio di merito sul film, scritto comunque stando attento a non svelare quasi nulla del racconto, potete passare al prossimo paragrafo.

Predestination è il terzo film dei fratelli Spierig, il secondo con protagonista Ethan Hawke, ed è ispirato alla storia breve —All You Zombies— di Robert A. Heinlein. Al centro del racconto si trova un'organizzazione governativa formata negli anni Cinquanta e dedita all'utilizzo dei viaggi nel tempo per sistemare cose che devono essere sistemate. Fra i pregi maggiori del film c'è un aspetto che mi dicono essere anche la migliore (e forse unica) qualità del precedente Daybreakers: la capacità di creare un mondo alternativo affascinante, carico di personalità e credibile basandosi solo su due o tre pennellate piazzate nel modo giusto. In questo caso, le pennellate sono fondamentalmente riassumibili in una gentile estetica da fantascienza anni Sessanta, che dona al tutto una personalità deliziosa e già da sola vale il prezzo del biglietto. Ma ci sono altri aspetti di gran merito: una sceneggiatura che tratta i viaggi nel tempo in maniera sì contorta, ma molto precisa e comprensibile; una gestione delle rivelazioni che non si preoccupa tanto di nasconderle (se insisti in quel modo sul "non mostrare" un volto, mi stai evidentemente suggerendo qualcosa), quanto di creare una rete di intrecci che, anche se hai già intuito tutto, rimanga coinvolgente grazie al lato umano della vicenda; due attori, il nostro amico Ethan Hawke e quella specie di incrocio fra Emma Stone e Leonardo di Caprio che è Sarah Snook, bravissimi a venderti il tutto. E son pregi non da poco, specie se consideriamo che l'azione sta dalle parti dello zero spaccato e il film ruota fondamentalmente quasi solo attorno al dialogo e alla gestione dell'incastro temporale. Se a questo punto siete definitivamente convinti, smettete di leggere e guardatevelo. Se volete leggere che altro ho da dire, proseguite pure: prometto di non svelare molto.

L'altro aspetto intrigante del film, o quantomeno intrigante per me, è che mentre spesso il paradosso temporale, per quanto possa essere importante nell'economia della storia, è soprattutto uno strumento utilizzato per raccontare delle vicende che gli ruotano attorno, in questo caso il paradosso temporale è la vicenda. Intendiamoci, Predestination appartiene comunque a quella fantascienza che sfrutta le sue assurdità per parlare del mondo reale, di umanità e di temi più o meno alti, ma è anche, in sostanza, il racconto di come nasca e si sviluppi un paradosso temporale. Praticamente tutta la vicenda è composta quasi esclusivamente dai pezzi del grosso puzzle che ne descrive la struttura e che pian piano vanno a unirsi fino a fornire un quadro completo e abbastanza coerente. Poi, certo, alcuni aspetti sono forse un po' traballanti e certi dubbi possono probabilmente essere risolti unicamente tramite una chiacchierata coi due Spierig (che per altro magari risponderebbero in pieno stile Rian Johnson: "Mboh, ci sembrava fico fare così"), ma la linea temporale che viene tracciata è solida e piuttosto affascinante. E questo è l'ultimo pregio che mi premeva sottolineare. Basta, ho finito, andate a guardarvelo, che merita.

L'ho visto al cinema, in lingua originale, durante l'ultima giornata di PIFFF. Fra l'altro, col senno di poi, sono abbastanza orgoglione del fatto di essere riuscito a seguirne la storia senza problemi dopo essermi sparato la maratona notturna sulle invasioni aliene e avendo dormito, boh, cinque ore al massimo. Ma forse il fatto è che un film del genere va visto così, quando sei sull'orlo del collasso isterico e hai i litri di caffè che ti scorrono nelle vene. Ad ogni modo, a casa sua (in Australia) il film è uscito l'estate scorsa, in questi giorni sta arrivando di qua e di là e secondo me non è totalmente da escludere una distribuzione dalle nostre parti.

20.1.15

Killer Klowns from Outer Space


Killer Klowns from Outer Space (USA, 1988)
di Stephen Chiodo
con Grant Cramer, Suzanne Snyder, John Allen Nelson, John Vernon

Stephen, Charles ed Edward Chiodo sono tre amorevoli fratelli che il Bronx ha deciso di regalare al mondo tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana. I tre hanno dedicato la loro vita adulta al lavoro nel mondo degli effetti speciali, con particolare attenzione su pupazzi, stop-motion e tutto ciò che stimola la nostalgia nella capoccia di chi è cresciuto negli anni Ottanta. La loro carriera vanta partecipazioni alle robe più disparate, daa Critters a Team America, passando per A cena con un cretino e svariati episodi de I Simpson. Fra i motivi per cui molti appassionati vogliono loro bene, però, c'è soprattutto Killer Klowns from Outer Space, un progetto assurdo e personalissimo, l'unico film da loro scritto e diretto, almeno fino a quando uscirà il più volte chiacchierato The Return of the Killer Klowns from Outer Space in 3D, che IMDB sostiene essere in arrivo nel 2016, con Grant Cramer pronto a tornare nel suo ruolo originale.

Ma che cos'è, Killer Klowns from Outer Space? È esattamente quel che il titolo può lasciar immaginare, niente di più e niente di meno: un film in cui arrivano dallo spazio dei pagliacci assassini. Facile, no? A distinguerlo da cinquantamila altri film di quegli anni basati su singole trovate fuori di testa c'è il fatto che in questo caso gli autori non si sono limitati all'idea di base e hanno invece spremuto fuori un film che è un frullato di invenzioni geniali una dietro l'altra, messe in fila senza freno alcuno. Tolti l'assegnino per convincere John Vernon a portare un (bel) po' di carisma attoriale e quello per commissionare ai Dickies la meravigliosa theme song, tutto il resto del budget è finito nello sviluppo di pupazzi, creature, aggeggi e assurdità varie, dando vita a un tripudio di follia incredibile, in cui non si smette mai di divertirsi ed essere sorpresi.

Killer Klowns from Outer Space è un film assurdo e fenomenale, un carico di stupidità camp sopra le righe in cui a vincere sono la fantasia e il divertimento, espressi comunque in un contesto a modo suo brutale e violento: fatico a considerarlo un film spaventoso, ma tutto sommato non mi stupisco se chi non si trova molto a suo agio coi pagliacci lo vive male. In testa, però, rimane soprattutto il modo in cui l'immaginario legato al circo, e più nello specifico ai clown, viene rielaborato per dar vita a una sorta di incubo stralunato. Dall'astronave a forma di tendone ai bozzoli di zucchero filato, passando per l'uso che viene fatto dei palloncini e delle ombre cinesi, la stupida e crudele giocosità dei pagliacci, il pop corn mutante, la fila di clown che escono dall'auto, il gelato, le vittime trasformate in marionette... cinque minuti a caso di questo film valgono tutti gli Sharknado di questo mondo per quantità di idee, senso dell'assurdo, deformazione della realtà e palpabile entusiasmo da parte di chi si trova dietro alla macchina da presa. Poi, certo, è un film scemotto, con personaggi e attori di terz'ordine e una storia che alla fin fine fa solo da pretesto per mettere in fila una lunga serie di sketch. Ma è uno spacco vero, adorabile e sincero. Avercene.

Era il film conclusivo della maratona notturna dedicata agli alieni del PIFFF 2014. Non l'avevo mai visto prima e spararmelo sul grande schermo, alle quattro del mattino, con alle spalle una notte passata davanti alle invasioni aliene, beh, è stato meraviglioso.

16.1.15

Blob - Il fluido che uccide


The Blob (USA, 1988)
di Chuck Russell
con Shawnee Smith, Kevin Dillon, Donovan Leitch Jr.

Quattro anni dopo quel capolavoro di La cosa, due anni dopo quell'altro capolavoro di La mosca, nel 1988 se ne salta fuori un ulteriore horror che aggiorna, attualizza e incupisce un successo di qualche decennio prima. Del resto, sono gli anni d'oro dei remake, è il periodo in cui degli autori dotati di un cervello funzionante ci regalavano reinterpretazioni di spessore, ben lontane dai rifacimenti al microonde cui siamo abituati oggi. In questo contesto, c'è poco da fare, Blob fa la figura del fratello scemo, ma la verità è che si tratta di un film divertente, dal gran ritmo, sorprendentemente cattivo (ci lascia le penne pure un bambino!) e che riesce appieno nel suo intento di riportare in sala quello spirito da drive-in che caratterizzava l'epoca da cui trae spunto.

Paparini del progetto sono dei giovani Chuck Russell e Frank Darabont, che scrivono assieme la sceneggiatura ma riescono a recuperare i finanziamenti per realizzare il film solo dopo essersi occupati di Nightmare 3: I guerrieri del sogno, da cui tirano per altro fuori uno fra i film più amati e di maggior successo della saga di Freddy Krueger. Dopo aver contato i soldi, quindi, spazio al loro remake, che recupera l'idea di base originale ma trasforma la massa informe assassina da creatura aliena a esperimento di laboratorio. Il classico tema dell'ansia da invasione comunista dei bei tempi si trasforma quindi, così timidamente che non è chiaro se Russell e Darabont siano davvero interessati alla cosa, in un metaforone sul terrore dell'A.I.D.S. che scuote il mondo in quegli anni. Ma d'altra parte l'idea, è piuttosto palese, sta soprattutto nel divertire e divertirsi.

Dove Russell e Darabont recuperano lo spirito dei bei tempi è infatti nel taglio assolutamente camp, seppur maggiormente cupo, ben supportato dalla truppa di caratteristi piazzati davanti alla macchina da presa. In questo senso, mi preme ricordare soprattutto gli occhi allucinati di Jeffrey DeMunn (attore feticcio di Darabont, ottimo Dale in The Walking Dead) e il classico anti-eroe motociclista con giacca di pelle, in pieno stile fifties, interpretato da Kevin Dillon (il Dave Franco degli anni Ottanta). È anche grazie a loro se Blob è fondamentalmente una divertente baracconata, che funziona alla grande ancora oggi grazie alla cattiveria, ai lievi accenni di satira e al puro senso di divertimento che sa esprimere. Anzi, forse funziona ancora meglio oggi, a quasi trent'anni di distanza, per quella sorta di affetto che si tende a provare nei confronti di un cinema ruspante, fisico, sincero e artigianale che oggi appare confinato alle piccole produzioni indipendenti, ma nel 1988 poteva permettersi un budget di tutto spessore. C'è ritmo da vendere, la fantasia nell'utilizzare l'assurdo mostro per ammazzamenti ingegnosi non manca e ci si diverte dall'inizio alla fine. Altro che Carrie.

L'ho visto al cinema, in lingua originale, come terzo film della maratona notturna sulle invasioni aliene al PIFFF 2014. Il terzo film è quello del giro di boa, dopo le tre di notte mi passa il sonno e da lì è tutto in discesa.

12.1.15

Essi vivono


They Live (USA, 1988)
di John Carpenter
con Roddy Piper, Keith David, Meg Foster

Nella seconda metà degli anni Ottanta, John Carpenter ottiene grazie a Starman uno fra i suoi più grandi successi commerciali e di critica. Sarà anche, più o meno, il suo ultimo vero successo al botteghino. Cose che capitano. Del resto, per sicurezza, a quel botto dà seguito infilando tre flop uno dietro l'altro ma, soprattutto, uno più bello dell'altro: Grosso guaio a Chinatown, forse il disastro commerciale più grande, perlomeno alla luce del budget investito, Il signore del male ed Essi vivono. E oggi chiacchieriamo proprio di quest'ultimo, che per molti versi è il film più incazzato, politico e brutale di un regista la cui filmografia, comunque, non è che le abbia mai particolarmente mandate a dire. Essi vivono prende ispirazione da un racconto di fantascienza di Ray Nelson, Eight O'Clock in the Morning, pubblicato negli anni Sessanta e chiaramente inserito nella tradizione delle invasioni silenziose in stile Ultracorpi. Ma se lo spunto fantascientifico del film è quello, il vero spirito nel racconto sta nel fastidio a quel punto ormai estremo che Carpenter prova nei confronti della politica americana degli anni Ottanta, del mondo in cui ogni aspetto della società a stelle e strisce è stato commercializzato.

Essi vivono, parola di Carpenter, racconta di "ricchi republicani reaganiani giunti dallo spazio profondo". Pone al centro dell'azione un uomo qualunque, con un cognome (Nada) che spiega tutto. È un americano medio, un operaio che si vuole guadagnare da vivere in maniera onesta, che sta cercando di rifarsi una vita nel bel mezzo di un tracollo economico devastante e che nonostante tutto crede ancora fortemente nel sogno americano, nella possibilità di costruirsi una vita sfruttando la libertà e gli strumenti che the greatest country in the world ti offre. Trova lavoro in un'impresa di costruzione a Los Angeles e si stabilisce in una specie di grosso accampamento assieme ad altri poveracci come lui. Vuole crederci, vuole essere una brava persona, ma conosce i propri limiti e cerca di non mettersi nei guai e tenere la bocca chiusa anche quando vede che attorno a lui succedono cose strane e la gente viene presa a calci in culo. Quest'uomo sconfitto dalla vita ma intenzionato a rialzarsi ha però una particolarità: oltre ad essere semplice e diretto, è interpretato da "Rowdy" Roddy Piper, uno che, se gli si chiude la vena sul collo, può diventare piuttosto pericoloso.

E cosa gli succede? Succede che a un certo punto indossa un paio di occhiali che, per qualche motivo, permettono di vedere cosa si cela dietro l'illusione, l'impalcatura di messaggi subliminali e manovre politiche tramite cui gli alieni repubblicani dal volto corrotto ci hanno ormai irrimediabilmente invasi. Tramite quegli occhiali, Carpenter ci mostra il cupo mondo in bianco e nero servito da chi comanda, un mondo in cui le forze aliene hanno invaso il pianeta Terra comprandolo, un mondo in cui anche la persona apparentemente più semplice e pura di cuore non si fa problemi a passare dalla parte dei "cattivi", se il prezzo è quello giusto, un mondo in cui qualsiasi cosa ci passi fra le mani o davanti agli occhi comunica lo stesso tipo di messaggio: compra, spendi, consuma, il denario è il tuo dio, lavora, sposati, riproduciti. Un mondo in cui alla fin fine siamo ben contenti di farci calpestare perché ci basta godere della quantità di ciarpame da cui siamo sepolti. È un mondo agghiacciante ma visivamente splendido, dipinto in un bianco e nero meraviglioso, che Carpenter mette in scena con il suo solito gusto fuori misura e che fa improvvisamente sbroccare il nostro amico Nada.


La sua reazione è quella di un uomo semplice e brutale, quella di una persona che fino a un attimo prima ancora ci credeva e improvvisamente vede tutto rosso, altro che in bianco e nero, perché si è reso conto che il mondo glie l'ha piantata in quel posto e lui se l'è presa di gusto, senza nemmeno accorgersene. È incredulo, scoppia a ridere, insulta i mostri che si trova davanti e poi decide di reagire, di farlo senza misure: imbraccia il fucile e si mette a sparare a tutti gli alieni che trova, infilandosi in una situazione da cui difficilmente potrà uscire sui suoi piedi, ma in cui forse la classe operaia salverà il mondo. Insomma, Essi vivono è un metaforone lungo novanta minuti, ed è un metaforone non esattamente sottile. Carpenter lavora di vanga e con la vena chiusa sul collo, ma del resto il messaggio è figlio della rabbia e, pur nella sua indubbia semplicità, arriva diretto come un treno merci, perfettamente attuale quasi trent'anni dopo, forse anche più attuale, al di là degli ovvi anacronismi tecnologici. E poi, sì, attorno a tutto questo c'è anche un film di genere, che Carpenter struttura con un lento accumulo d'atmosfera e giri di basso per poi scatenare una seconda metà tutta azione, battutacce, sparatorie e finale amarognolo. Nel mezzo, una meravigliosa scazzottata da sei minuti fra Roddy Piper e Keith David, i penetranti occhi azzurri di Meg Foster e tante risate a denti stretti. Poi, certo, gli eventi si sviluppano in maniera un po' tirata per i capelli, Roddy Piper, pur perfetto nel ruolo, esprime a tratti una rara carica di legnosità e l'azione stessa non è esattamente quella di Grosso guaio a Chinatown, ma del resto il punto è anche un po' quello. A Carpenter interessava tirarci in faccia il metaforone a colpi di vanga, l'ha fatto alla grande e fa male ancora oggi.

L'ho visto per la centododicimillesima volta, ma per la prima volta al cinema, come secondo pezzetto della maratona notturna a tema invasioni aliene del PIFF 2014. Ricevere metaforoni a colpi di vanga in faccia alle due di notte ha sempre il suo perché.

9.1.15

Terrore dallo spazio profondo


Invasion of the Body Snatchers (USA, 1978)
di Philip Kaufman
con Donald Sutherland, Brooke Adams, Jeff Goldblum, Veronica Cartwright, Leonard Nimoy

Terrore dallo spazio profondo, titolo italiano che sembra quasi voler negare la natura di remake del classico anni Cinquanta di Don Siegel, è il secondo film ispirato al romanzo L'invasione degli ultracorpi, di Jack Finney, in cui si racconta dell'arrivo sul pianeta Terra di forme di vita aliene capaci di sostituirsi agli esseri umani, mentre dormono, tramite delle copie sviluppate all'interno di baccelli. Si tratta di un'idea potente per mille motivi, un'invasione aliena dai metodi superficialmente quasi pacifici, sicuramente "tranquilli", che ci colpisce nel sonno, quando siamo più indifesi e teoricamente al sicuro, e che fa leva sul dubbio, il sospetto, la paranoia, l'assenza di sicurezza, la completa perdita di fiducia nei confronti di chi si trova al nostro fianco. Di fondo, affronta tematiche e suggestioni non poi così lontane da quelle di La cosa, ed è probabilmente proprio per la potenza dell'idea di base che queste due diverse versioni dell'invasione aliena subdola e mascherata tornano periodicamente a manifestarsi al cinema.

Il romanzo di Jack Finney è stato infatti adattato in quattro film diversi, con oltretutto solo uno, il bruttarello Invasion del 2007, davvero deludente. E d'altra parte, il bello dell'idea di partenza è che si presta benissimo a interpretare le paure, le suggestioni, i temi dominanti in epoche diverse. È difficile, del resto, non leggere nell'allucinata paranoia che serpeggia fra le immagini dello splendido L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel, uscito nel lontano 1956, dei riferimenti al maccartismo, ai timori dell'America postbellica, allo spauracchio del comunismo. Vent'anni dopo, Philip Kaufman sfrutta invece lo stesso racconto per parlare dei magici iuessei in cui sta vivendo, del decennio identificato da Tom Wolfe come "Me decade". C'è l'ossessione per l'individualismo, ma anche i timori nei confronti della sanità, dell'approccio all'alimentazione, oltre che un timido accenno al modo in cui la vita di coppia finisce per cambiare le persone e trasformarle - letteralmente, in questo caso - in creature completamente diverse. E proprio tramite la difficoltà nel distinguere gli esseri umani dalle copie si finisce chiaramente a parlare di conformismo e di come in fondo, forse, l'umanità vittima dell'invasione non sia poi così diversa da quella "finta" che vuole sostituirla.

Il sottotesto culturale e sociologico fa però da sfondo a una vicenda sci-fi e horror che getta la maschera fin dal primo istante. Kaufman non si gioca, questa volta, la carta del mistero e apre il suo remake dicendolo chiaro fin dai titoli di testa: delle creature aliene stanno arrivando, vogliono fregarci e vogliono farlo in quella maniera tremenda. Nonostante questo, o forse proprio per questo, il senso di paranoia è comunque devastante e il modo in cui la vita di Matthew Bennell si sgretola davanti ai suoi occhi rapisce ancora oggi in maniera incredibile, vuoi per il lavoro pazzesco e innovativo fatto sul suono, vuoi per le belle musiche, vuoi per la sceneggiatura perfettamente calibrata, vuoi perché il viso di Donald Sutherland pare progettato in laboratorio per un ruolo del genere. Al suo fianco, un adorabile e giovanissimo Jeff Goldblum, al massimo del suo splendore da ansia di prestazione, intento a gesticolare e dar spettacolo dal primo all'ultimo secondo, e una serie di attori perfettamente in parte.

Kaufman conduce il tutto mettendo in fila una serie di immagini suggestive, infilando un pezzo di bravura dietro l'altro (qua e là anche a costo di creare una certa mancanza di connessione fra le diverse scene) e dando vita a uno fra i film più sanamente inquietanti e tutto sommato meglio invecchiati di quegli anni. Terrore dallo spazio profondo riesce oltretutto nell'impresa di risultare piuttosto esplicito nel suo orrore, certo più del film originale, soprattutto quando mostra corpi parzialmente formati che escono da baccelli "vaginali", senza per questo forzare la mano e anzi finendo per mettere addosso disagio, ansia, angoscia soprattutto grazie a quel che non mostra, al dubbio, all'ignoto. Ti ammalia e assorbe fin dal primo minuto, trascinandoti nel suo abisso e chiudendosi su un finale che è una vangata in mezzo ai denti. È un remake come se ne facevano una volta: non un'inutile riproposizione moderna senza nerbo, ma una reinvenzione di forte personalità che vive di vita propria. È un filmone, insomma.

Me lo sono visto per la prima volta al cinema un paio di mesi fa, durante il PIFFF 2014, era il primo film della maratona notturna dedicata alle invasioni aliene (quattro film, dalla tarda serata all'alba, nello splendore della sala grossa, con la struttura del multisala tutta dedicata alla manifestazione: bar aperto, banchetto con panini e provviste assortite, varie ed eventuali). E, caspita, certe immagini funzionano a meraviglia, sul grande schermo.

24.12.14

Spring


Spring (USA, 2014)
di Justin Benson, Aaron Moorhead
con Lou Taylor Pucci, Nadia Hilker

Spring è il secondo film degli autori di Resolution, che non ho visto ma che una persona di cui mi fido abbastanza ha consigliato in una maniera della quale mi fido abbastanza. È ambientato in un paesello dell'Italia del sud che ho trovato ritratto in maniera abbastanza credibile, semplicemente normale, non troppo distante da ciò a cui sono abituato quando vado a gironzolare nell'Italia del sud, nonostante, per carità, abbia un paio di elementi curiosi che fanno folklore e sono a due passi dalla macchietta. Anzi, paradossalmente, l'unico vero sprazzo di cliché totale del turismo è un personaggio americano che si manifesta a un certo punto, comportandosi da turista cretino, maleducato e casinista americano. Dopo la proiezione al PIFFF 2014 ho pure preso il coraggio (e il microfono) stretto in mano, ho fatto presente alla platea che sono italiano e in francese non ce la posso fare e ho chiesto in inglese al duo se si erano posti il problema, se ci tenevano a realizzare un film in cui l'Italia non sembrasse uscita da un episodio de I Griffin. E mi hanno risposto di sì, che li ha aiutati il supporto della troupe e che le numerose vacanze zaino in spalla che il Benson s'è fatto dalle nostre parti hanno dato una mano. Insomma, bravi.

Un'altra cosa che ho fatto dopo la proiezione è stata prendere il mio bel bigliettino e dare il voto più alto fra tutti quelli che ho assegnato nel corso del festival, in cui il vincitore del concorso principale viene deciso dal pubblico. E alla fine, guarda un po', Spring ha vinto, portandosi a casa il premio e gli applausi della folla. A me fa piacere. Benson e Moorhead son simpatici, due bravi regaz. Dopo la proiezione hanno pure invitato tutti ad andare a farsi una birretta con loro nel pub di fronte, ma io dovevo rimanere in sala come un disadattato per spararmi la maratona notturna sui film di alieni. Però si apprezza il gesto, no? E magari chi mi legge apprezzerebbe che parlassi pure un po' del film. Parliamone. Spring è una romantica storia d'amore fra quello che nel remake di La casa leggeva incautamente il libro e una tizia dalle origini nebulose con nascosto nel cuore un tremendo segreto.

Materiale abbastanza tradizionale, insomma, ma scritto, diretto e interpretato da gente di talento. Spring non si vergogna di raccontare l'ennesima storia d'amore dannato, facendolo però in maniera sincera e per nulla stucchevole, inventandosi una mitologia di fondo intrigante e a modo suo originale, non tirandosi indietro in quel paio di momenti in cui bisogna mettere sul piatto la mostruosità e viaggiando su binari a metà fra l'horror, la commedia romantica e il film indipendente tutto silenzi e protagonisti mogi. E quando si arriva al dunque, incredibile ma vero, i protagonisti non si lasciano andare alla cretinaggine e decidono invece di affrontare la questione di petto, viaggiando verso un finale che funziona proprio per questo, oltre che per la notevole intesa fra i due attori. Insomma, non è che Spring sia il nuovo capolavoro dell'horror indipendente, anzi, però è una bella storia semplice, gradevole e - bonus - messa in scena tirando fuori il sangue dalle rape, con effetti speciali a basso budget che funzionano e un discreto manico dietro alla macchina da presa.

S'è fatto il giro di svariati festival mondiali e, se interpreto bene quanto dicono nella pagina ufficiale su Facebbok, alla fine ha trovato un accordo di distribuzione. IMDB lo dà in uscita in Gran Bretagna ad aprile.

23.12.14

Starry Eyes


Starry Eyes (USA, 2014)
di Kevin Kolsch, Dennis Widmyer
con Alex Essoe

Cinico, brutale, pessimista, senza speranza alcuna e testardamente intenzionato a mandare in vacca qualunque punta di buonismo, anche a costo di risultar ridicolo, Starry Eyes non è esattamente un film di Natale, ma destino vuole che finisca a scriverne proprio sotto Natale. Cose che capitano. È il secondo lungometraggio di Kevin Kolsch e Dennis Widmyer, coppia di registi che da una decina d'anni naviga nel sottobosco hollywoodiano e, forse, racconta qui anche un po' la propria esperienza nella città degli angeli e dei sogni infranti (o una versione estremizzata della stessa, si spera). Protagonista è la bella, ambiziosa, scoglionata e piuttosto brava Sarah, interpretata da una bella, volenterosa e [che ne so, non la conosco] Alex Essoe, che si dedica anima e core al ruolo passando attraverso una distruzione fisica, estetica e morale devastante.

La storiellina è semplice e prevedibile, potenzialmente quella di chiunque amerebbe mettere in pratica il proprio talento per un lavoro creativo ma si ritrova a sbattere contro il muro della mancanza di opportunità. Racconta di una donna che vuole sfondare nel mondo del cinema e vive non lontano da una certa qual scritta sulla collina, assieme a un gruppo di persone dai desideri simili ma un po' più rassegnate. La differenza fra lei e loro, scopriremo pian piano, sta soprattutto in quel che si è disposti a fare pur di ottenere il successo, nei livelli a cui si è pronti a spingersi e in quel che si ritiene accettabile, se non addirittura necessario. Circondata da mediocri, con davanti agli occhi il miraggio del successo, Sarah si lascia sedurre da un produttore che le offre il mondo e si ritrova immersa in un delirio di folle autodistruzione. Ed è tutta colpa sua.

A fronte di sviluppi tutto sommato prevedibili e di un metaforone buttato lì un po' coi guanti da forno, la forza di Starry Eyes sta soprattutto nella mancanza di pietà con cui tratta la sua protagonista, trasformandola da eroina con cui identificarsi a mostro disgustoso. Giunta alla rivelazione su quel che realmente vuole, Sarah incomincia a passeggiare sulle vite di persone magari mediocri, normali, senza ambizioni, ma che quantomeno non ti piglierebbero a coltellate pur di recitare in un filmetto di quart'ordine. E la sua trasformazione in creatura di successo, l'ingresso nell'elite che tando desidera, si manifesta anche e soprattutto sotto forma di espressione fisica, attraverso una mutazione del corpo ipnotica, disgustosa, brutale, che sembra un po' una versione patinatella del Cronenberg dei tempi belli. Ma di fondo, quel che resta dentro, come nei migliori horror che non si vergonano d'esserlo, è il senso di disagio figlio, certo, della trasformazione subita da Sarah, ma anche e soprattutto della bravura con cui Kolsch e Widmyer spostano mano a mano l'empatia verso il cast di contorno, banda di sfigati che in altri film vorresti solo veder scomparire e qui ti lasciano di sasso mentre vengono travolti dalla furia della protagonista.

L'ho visto al Paris International Fantastic Film Festival 2014 di fine ottobre. Nel frattempo è uscito negli USA, al cinema e in VOD, quindi immagino sia reperibile senza troppa fatica. Fun fact: il film è nato con una campagna di raccolta fondi su Kickstarter.

15.12.14

R100


R100 (Giappone, 2013)
di Hiroshi Matsumoto
con Nao Ōmori e un po' di pazzi furiosi

Quarta regia di quel pazzo scriteriato di Hiroshi Matsumoto, R100 si intitola così in riferimento al sistema di rating nipponico, in una sorta di meta-tripudio. La storia del protagonista Nao Omori, padre di mezz'età, la cui moglie sopravvive attaccata alle macchine in un letto d'ospedale, che per ritrovare la gioia di vivere si concede al masochismo, è raccontata sotto forma di film nel film, con degli stacchi durante i quali si esce dal racconto e si osservano le discussioni degli addetti all'applicazione del visto censura, sconvolti da quel che stanno osservando, da quanto in là il film si spinga e dall'insensatezza della trama. Nel mentre, in sala, il regista, centenario, se la ride della grossa, convinto che solo persone della sua età siano in grado di comprendere il film. E il whaddafack si sparge a macchia d'olio.

R100, sulle prime, sembra un film quasi normale. Almeno, nei limiti di quanto possa esserlo la storia di un uomo che accetta di subire pestaggi e umiliazioni, così, quando meno se l'aspetta, durante la vita di tutti i giorni, davanti alle reazioni sbalordite della gente, secondo le regole del club a cui si è iscritto. E che trova gioia, espressa attraverso un effetto speciale che gli modifica gli zigomi e gli fa emettere pulsazioni, solo quando viene raggiunto l'apice dei maltrattamenti. Ecco, in questo contesto qua, R100 è un film quasi normale, malinconico e divertente, sparato a schermo con un affascinante uso dei colori, talmente spenti da sfiorare il monocromatico, e raccontato con quella capacità tutta orientale di saltare senza vergogna dal delicato dramma di una moglie in coma al delirio demenziale più spinto offerto dalle dominatrici assurde che attaccano il protagonista.

Verso metà film, dopo la meravigliosa esibizione di Saliva Queen, roba che quasi ci resto secco dal ridere, R100 scollina e svacca definitivamente verso il delirio, trasformandosi in una specie di sconclusionato film d'azione in cui il protagonista e la sua famiglia, a causa di un incidente in cui ci scappa il morto, vengono presi di mira dalle "regine" più pericolose del gruppo. E il bello è che il conseguente tripudio di assurdità non si dimentica di portare avanti i suoi meta-discorsi, per esempio coi continui accenni a un fantomatico terremoto infilati solo perché, a quanto pare, nel cinema giapponese è obbligatorio parlare di questioni d'attualità. E insomma, R100 è sostanzialmente un gran casino, un film assurdo, pieno di invenzioni folli, con un protagonista incredibilmente bravo nel riuscire a veicolare comunque drammatica intensità all'interno di quel delirio. Ha forse un po' il limite di tirar troppo per le lunghe la parte finale, quando ormai le gag hanno un po' esaurito la benzina. O forse no. O forse quel concerto d'estasi su cui si chiude tutto è bellissimo. Non ne ho idea.

È uscito in Giappone a ottobre dello scorso anno e si è girato un po' tutti i festival internazionali, compreso il Paris International Fantastic Film Festival 2014, che è dove l'ho visto io. È uscito in qualche forma negli USA ed esiste un'edizione in DVD cinese, con sottotitoli anche in inglese. Non vorrei comunque dare l'impressione di stare consigliandolo. O sconsigliandolo. Non lo so. Voglio la mamma.

12.12.14

Musarañas


Musarañas (Spagna, 2014)
di Juanfer Andrés, Esteban Roel
con Macarena Gómez, Nadia de Santiago, Hugo Silva

Il film di cui chiacchiero oggi, in giro per l'internet, potreste trovarlo intitolato Shrew's Nest, ma a me piace il titolo originale. Voglio dire, provate a leggerlo ad alta voce, Musarañas, non ha un suono fantastico? Specie poi se - come me - non avete il benché minimo rapporto con la lingua spagnola e, quindi, lo leggete probabilmente in maniera sbagliata. Musarañas, musarañas, musarañas, musaragnagnagnagnagnas! È fantastico! Comunque, si tratta del film d'esordio di Juanfer Andrés ed Esteban Roel, due autori spagnoli con a curriculum un paio di cortometraggi ciascuno e un decennio di carriera da attore televisivo per il secondo. La loro natura di esordienti è ben esemplificata dalla presenza di un "Alex de la Iglesia presenta" sul manifesto del film, messo bene in alto, con l'evidente impressione che a un certo punto abbiano pensato fosse il caso di scriverlo ancora più grosso del titolo. E del resto, il film nasce come nascono tanti horror di questi tempi: un regista affermato ti nota, decide che gli piaci tanto e ti produce, permettendoti di mettere il nome in locandina e prestandoti anche quella bella gnocca di sua moglie per un ruolo minore. Alla grande.

Il risultato è un film bizzarro, con quell'atmosfera da horror spagnolo tutto strano che ci piace tanto, forse non riuscito fino in fondo, ma che si merita di essere recuperato in qualche maniera, magari sperando che il nome di Alex de la Iglesia scritto bello grosso sul manifesto finisca per farlo arrivare anche in Italia. Racconta di Montse, una donna brutalmente affetta da agorafobia, al punto che il solo tentativo di metter piede fuori dal suo appartamento le fa patire violenti attacchi di panico, vomito, varie ed eventuali. La poveretta, tormentata dai ricordi di un padre non proprio modello, vive con sua sorella minore, a posto con la testa ma frustrata dal pugno di ferro esercitato da Montse. L'atmosfera già non idilliaca che si respira in casa parte per la tangente quando quest'ultima si ritrova alla porta un uomo ferito, lo accoglie controvoglia per curarlo e si riscopre poi novella Kathy Bates, decidendo di bloccarlo a letto, drogarlo, aggravarne l'infortunio e, insomma, tenerselo in casa tutto per sé.

Il bello è che tutto questo viene raccontato con una serie di cambi di registro che levati, con tanto di suggestioni sovrannaturali (ma saranno realmente tali o è tutto nella testa di Montse?) e con un buon lavoro sul rendere la protagonista un personaggio sì folle e sopra le righe, ma allo stesso tempo umano, spinto da cause che te la rendono anche quasi simpatica, perlomeno fino a che non scoppia il delirio della seconda metà di film. Non manca il classico humor nero che ci si aspetta con quel nome là sulla locandina, anche se il tono generale tende a spingere soprattutto sul pedale del dramma e delle esplosioni brutali di violenza che prendono il controllo della situazione nella parte finale. Insomma, Musarañas è un film che sembra partire un po' confuso e invece, pian piano, unisce con cura tutta la roba sparsa in giro, fa salire la tensione a mille e si scatena quindi alla grande. Ben scritto, diretto con una gran cura per l'immagine e soprattutto interpretato da una Macarena Gómez totalmente fuori di testa, è sostanzialmente uno spacco.

Per il momento si è fatto solo il giro dei vari festival del fantastico mondiali. In Spagna esce a Natale. Del resto, è il classico film di Natale, no? Comunque, secondo me prima o poi in Italia ci arriva. Crediamoci fortissimo. Dai. Mano nella mano.

10.12.14

Avalon


Avalon (Giappone/Polonia, 2001)
di Mamoru Oshii
con Malgorzata Foremniak, Wladyslaw Kowalski, Jerzy Gudejko

A fine anni Novanta, Mamoru Oshii, reduce da quel Ghost in the Shell che rimane forse ancora oggi l'opera simbolo della sua carriera, si prese un quinquennio di pausa dall'attività registica, per dedicarsi ad altri progetti. Quando decise di tornare - letteralmente - dietro alla macchina da presa, fu per realizzare Avalon, suo quarto esperimento nel mondo del live action e sua prima produzione realizzata all'estero, perché "girarlo in Giappone sarebbe stato impossibile". Alla ricerca di posti adatti a mettere in scena la propria visione, Oshii puntò quindi sul vecchio continente, con in testa il Regno Unito, ma finì per deviare sulla Polonia, i cui luoghi si adattavano parecchio a come si immaginava il mondo virtuale che avrebbe dovuto ospitare le vicende. Senza contare che le forze di polizia locali garantivano accesso gratuito agli equipaggiamenti e alle armi da fuoco, e buttalo. Ed ecco quindi che ne saltò fuori una creatura incredibilmente bizzarra, un film di fantascienza ambientato in mondi virtuali da MMO, realizzato e recitato in polacco, diretto da un regista giapponese noto per il suo lavoro sul cinema d'animazione all'insegna dei pipponi mentali.

Oltre dieci anni dopo, ho visto per la prima volta Avalon al cinema, durante il Paris International Fantastic Film Festival 2014, a dimostrazione del fatto che se sai aspettare vieni premiato. C'ho messo un po', ma sono riuscito a spararmi le sue immagini deliranti sul grande schermo, invece che tramite un DVD recuperato per vie traverse. Ottimo, no? Ottimo, sì, perché Avalon ancora oggi è un film tremendamente affascinante e carico di suggestioni innanzitutto visive, per il modo tutto allucinato in cui Oshii ha deciso di dipingere i diversi piani virtuali e/o reali fra cui si sviluppa la sua storia. Se da un lato, ovviamente, l'utilizzo del computer per gli effetti speciali - a basso budget già in partenza - mostra un po' gli anni che si porta sulle spalle, dall'altro le notevoli intuizioni estetiche, a cominciare dalle scelte (mono)cromatiche, che regalano al film un'atmosfera e una personalità senza tempo. E infatti, nonostante qualche elemento fuori posto, Avalon è uno spettacolo per gli occhi ancora oggi e i minuti iniziali, che gettano immediatamente nel bel mezzo di una battaglia fra avatar a colpi di attacchi speciali ed esplosioni bidimensionali, sono e rimangono una discreta bomba.

 Va che roba.

Il film racconta le vicende di Ash, cintura nera di un gioco di ruolo d'azione illegale a base di realtà virtuale, popolarissimo ma anche piuttosto pericoloso, dato che provoca assuefazione e ci vuole pochino perché una partita finisca male e ti lasci in stato catatonico. Dopo un avvio che, come detto, mostra una spettacolare battaglia in un mondo che mescola suggestioni medievali, elementi contemporanei e macchinari ipertecnologici, Avalon passa a raccontare una realtà distrutta dall'assuefazione al virtuale, in cui gli unici stimoli di vita paiono giungere dal piacere del gioco e chiunque non sia incollato a uno schermo per seguire le partite giace abbandonato in giro come una statua di sale. Sembra quasi di ritrovarsi nel mondo virtuale del primo Tron, solo con applicate sopra le texture di una città polacca. E in realtà sono i primi segnali del fatto che fra i temi del film c'è un continuo giocare con viaggi fra diverse realtà fittizie, piani del virtuale tra i quali ci si sposta senza che sia mai chiaro dove e se ci sia effettivamente un mondo reale a cui tornare.

Quel che ne viene fuori è un film affascinante, che strega con le sue ambientazioni e il suo utilizzo ricercato di mille suggestioni diverse, riesce a risultare tutto sommato ancora fresco dopo averne visti altri cinquantamila incentrati sul viaggio fra svariati piani di realtà e sfrutta il tema videoludico in maniera ricca, curata, piena di dettagli che possono sfuggire a chi non è videogiocatore ma che contribuiscono comunque a regalare la sensazione di un mondo concreto e sviluppato in maniera solida. Si racconta con i classici ritmi letargici di Oshii, sfruttandoli però per mostrare la vita alienata di una donna che trova unica realizzazione nelle sparatorie virtuali del mondo di gioco e riuscendo comunque a schivare i giga-monologhi che, lo ammetto, non ho mai amato molto nei film d'animazione del regista giapponese. Di certo, è un film che rimane dentro, vuoi per il registro stilistico e narrativo assolutamente originale, vuoi perché comunque racconta parecchio senza servire il piatto pronto e ti lascia addosso dubbi, suggestioni, riflessioni. E poi, insomma, fa comunque parte del mucchio ancora piuttosto piccolo di film che parlano di videogiochi in maniera sensata. Buttalo.

Avalon esiste in varie edizioni reperibili in giro per il mondo, sia in polacco sottotitolato, sia doppiato. Non credo sia mai uscito in edizione italiana, ma potrei sbagliarmi. Secondo me, comunque, va visto in polacco sottotitolato. Alla fine fa parte del suo fascino assurdo.

9.12.14

Why Horror?


Why Horror? (Canada, 2014)
di Tal Zimmermban, Nicolas Kleiman e Rob Lindsay

Peché l'horror? Se lo chiedete a me, ho le risposte pronte. Perché ritengo che per certi versi sia il genere cinematografico (e non solo) più puro, per la maniera essenziale in cui sfrutta ogni sfumatura tecnica del cinema al fine di raggiungere i suoi obiettivi. Perché è un genere che funziona incredibilmente bene quando prova a raccontare l'umanità, il mondo, la società, e a fare i metaforoni che ci spiegano quanto siamo sporchi dentro. E perché c'è una forma di divertimento puro, catartico, brutale, ma anche sicuro, innocente e protetto, nello spaventarsi davanti a uno schermo. O, insomma, queste sono le ragioni che mi sentirei di dare io.

Ovviamente, qualunque appassionato può dare risposte diverse e probabilmente sono tutte giuste, tanto quelle assolutamente personali, quanto quelle che trascendono l'esperienza del singolo e vanno a indagare sull'horror come fenomeno di massa. Nel suo documentario, Tal Zimerman prova a fare entrambe le cose, esplorando le ragioni della sua passione smisurata, i motivi che l'hanno portato ad amare il brivido fin dalla tenera età e trasformarlo addirittura in uno sbocco professionale. Indaga quindi su se stesso, andando a chiacchierare con la propria famiglia, ricordando gli anni dell'adolescenza e arrivando perfino a sottoporre sua madre a un esame medico per cogliere le reazioni fisiche generate dalla visione di vari film horror. Ma prova anche ad esplorare aspetti più generali, vagando per il mondo alla ricerca di risposte.

Se l'aspetto più personale è curioso e intrigante, è soprattutto il secondo approccio a rendere Why Horror? un documentario degno di nota. Da un lato ci sono gli interventi di svariati registi più o meno veterani del settore, non tutti con cose davvero illuminanti da dire, ma in ogni caso sempre adorabili da osservare mentre chiacchierano di ciò che amano. Dall'altro ci sono i viaggi in giro per il mondo, alla scoperta di approcci lontanissimi per argomenti simili, fra il giorno dei morti messicano, l'approccio nipponico all'orrore e le origini europee letterarie e artistiche del genere, tramite i lavori d Hieronymus Bosch, William Hogarth, Francisco Goya e Mary Shelley. Si va perfino a sfiorare il mondo dei videogiochi! Carico di spunti interessanti e gradevole per tutta la sua durata, Why Horror? non offre risposte definitive (come potrebbe?) e finisce forse per risultare un po' inconcludente, ma apre una finestra gradevole tanto sulla capoccia di un appassionato (e, di riflesso, su quella di tanti altri), quanto su tante diverse sfaccettature del rapporto che abbiamo con la morte, il morboso, l'inquietudine.

Per il momento siamo ancora fermi al giro dei festival mondiali, ma immagino che prima o poi Why Horror? uscirà da qualche parte. Non starei comunque a sperare in una distribuzione nei cinema italiani, ecco.

8.12.14

The Duke of Burgundy


The Duke of Burgundy (GB, 2014)
di Peter Strickland
con Sidse Babett Knudsen, Chiara D'Anna

Dopo l'esordio, datato 2009, con Katalin Varga, Peter Strickland s'è conquistato le luci della ribalta con Berberian Sound Studio, una sorta di grosso omaggio al giallo italiano degli anni Settanta che non ho mai visto ma che mi dicono essere il trionfo dell'atmosfera, dell'ottima messa in scena, di Toby Jones bravo come sempre e del non andare però a parare da nessuna parte, se non nel reame delle martellate sui testicoli di chi guarda. Io, ripeto, non l'ho visto, quindi prendo con le pinze, però diciamo che il suo nuovo film, The duke of Burgundy, sembra effettivamente la nuova opera di un regista che in precedenza ha diretto una roba del genere. Questa volta, però, l'oggetto dell'omaggio (e del desiderio) di Strickland è il cinema erotico, sempre di quegli anni là.

La storia, ambientata in una serie di spettacolari ville ungheresi che rappresentano un luogo senza tempo piazzato da qualche parte nel bel mezzo dell'Europa, racconta della relazione fra Cynthia, ricca signora di mezz'età che si atteggia da gran padrona mai soddisfatta, ed Evelyn, giovane cameriera ansiosa di soddisfare la sua dominatrice. Ogni distrazione o piccolo (anche presunto) errore di Evelyn diventa una scusa per la messa in atto di punizioni umilianti, che tipicamente prevedono la segregazione in luoghi angusti o lo svuotamento della vescica di Cynthia. In realtà scatta poi lo shamalayan twist e scopriamo che la vera figura forte del rapporto è Evelyn, al punto che praticamente tutto quel che accade fra le due, ogni dialogo, ogni errore e relativa punizione, ogni scambio di tenerezza, è frutto di sua accurata pianificazione e si attiene perfino a precise sceneggiature da lei firmate.

The Duke of Burgundy non contestualizza più di tanto gli avvenimenti, sia in senso ampio (l'epoca, il luogo), sia per quanto riguarda il "momento" della relazione fra le due, si limita a mostrare questo luogo surreale, in cui vive una comunità di donne benestanti (non si vede un singolo uomo per tutto il film), appassionate di entomologia e le cui abitudini sessuali sono bene o male condivise da tutte. Ancora una volta Strickland non si immerge apertamente nel genere che sta omaggiando, limitandosi in un certo senso a guardarlo dall'esterno, seppur sfruttandone i cliché estetici, narrativi e musicali. E infatti sfugge completamente dall'esplicito: le punizioni avvengono quasi sempre fuori dall'inquadratura, raccontate solo dal notevole uso degli effetti sonori, e il massimo della tensione erotica si concretizza in un delicato massaggio. E pur giocando tantissimo sull'attesa, sull'accumulo di tensione sessuale, senza mai dargli sfogo diretto, il film alla fin fine si concentra sul raccontare l'evoluzione di una storia d'amore in un momento di crisi e il disperato tentativo di ricucire il rapporto. Ne viene fuori un'opera bizzarra, messa in scena con gran talento, senza dubbio di grande personalità, forse un po' pallosetta e inconcludente, ma anche parecchio affascinante. Consigliato? Non ne ho idea.

Se IMDB non mente, il film non è ancora stato distribuito da nessuna parte e non ha date di uscita previste, ma si sta girando i festival di un po' tutto il mondo, compreso quello di Torino a novembre, e infatti io me lo sono visto al PIFFF qua a Parigi. I due precedenti di Strickland non sono usciti in Italia, quindi non starei a sperare più di tanto in una distribuzione dalle nostre parti.

3.12.14

Wake In Fright


Wake in Fright (Australia, 1971)
di Ted Kotcheff
con Gary Bond, Donald Pleasence, Chips Rafferty, Jack Thompson

Sul finire degli anni Sessanta, Ted Kotcheff, regista canadese di origini macedoni/bulgare che si era costruito una signora carriera in Gran Bretagna fra televisione e teatro, aveva già diretto un paio di produzioni cinematografiche e si apprestava a lavorare in Australia su quello che, quarant'anni dopo, sarebbe stato ricordato come il suo capolavoro proibito e disperso nelle nebbie del tempo. Tant'è che, diciamocelo, se oggi scorri la sua scheda su IMDB, i primi titoli che saltano all'occhio, giustamente o meno, sono Rambo e Weekend con il morto, probabilmente non la valanga di lavori per cui viene considerato una fra le figure principali nella storia della televisione inglese, difficilmente la pur solida serie di film diretti negli USA durante gli anni Ottanta, men che meno il suo decennio successivo impegnato su produzioni televisive americane di poco conto. Ma, appunto, nascosto fra le pieghe della sua filmografia c'è un filmone mai arrivato in Italia (e in parecchi altri luoghi, per altro).

Presentato all'insegna del tripudio al festival di Cannes del 1971, Wake in Fright venne successivamente distribuito in Francia, Gran Bretagna, Australia (ci mancherebbe) e Stati Uniti, ma scatenò una selva di polemiche a causa del suo approccio molto crudo, di scene particolarmente forti come quella sulla caccia ai canguri e, in generale, di un ritratto del popolo australiano che - pare - non venne esattamente accolto benissimo in patria. Quali che siano i motivi, il film finì per svanire un po' nel nulla e le condizioni discutibili dell'unica copia la cui esistenza era nota, conservata a Dublino, impedirono poi l'uscita di una versione per l'home video. La leggenda narra però che nel 1994 il montatore Anthony Buckley abbia detto basta e si sia messo alla ricerca di una copia dignitosa del film. Dieci anni dopo, in una scatola etichettata come "Da distruggere" e conservata in quel di Pittsburgh, saltano fuori i negativi e scatta il processo di restauro.

E così nel 2009 si è arrivati alla messa in vendita del film in DVD e Blu-ray, ma anche a varie proiezioni in giro per festival, che proseguono ancora oggi (tant'è che io l'ho visto al Paris Fantastic Film Festival di quest'anno) e che hanno addirittura portato a una nuova distribuzione nelle sale americane, britanniche, giapponesi (wut?), francesi e chissà che altro ancora. Il cielo come limite, insomma, per un film riscoperto e apprezzato da critica e pubblico, finalmente godibile in una versione decente. Una favola a lieto fine. Ne valeva la pena? C'è davvero bisogno di chiederlo?


Bitch please.

Protagonista del film è un giovane insegnante spedito dal governo a lavorare in una scuola dispersa nel profondo Outback. Dove per "profondo Outback" si intende un posto nel bel mezzo del deserto che le primissime immagini ci illustrano, con un bel movimento di macchina, mostrando una piccola scuola, un hotel pulcioso e dei binari a separarli. Fine. All'orizzonte non si vede altro, se non polvere in ogni direzione e la misera banchina che fa da stazione dei treni. Siamo al termine dell'anno scolastico e John, l'insegnante, si appresta a tornare a Sydney per trascorrere le ferie con la sua compagna. Prende il treno, scende nella cittadina in cui deve prendere l'aereo e... si fa trascinare in una serata brutalmente alcolica, durante la quale perde al gioco d'azzardo praticamente tutto quello che ha in tasca e finisce per rimanere intrappolato sul posto. Da lì ha inizio un viaggio nel torbido della profonda Australia, durante il quale John si fa trascinare in un tripudio alcolico che sfocia in situazioni sempre più discutibili e colpisce duro a più riprese.

Fatta la necessaria tara a certe convenzioni estetiche e di linguaggio da film con quarant'anni sulle spalle, Wake in Fright è un pugno nello stomaco ancora oggi, per il modo in cui alza continuamente la posta e per singole scene fortissime, tra le quali spicca quella già citata in cui viene mostrata una brutale caccia al canguro, ripresa seguendo dei veri cacciatori scatenati nella notte. C'è anche, va detto, una vena satirica che scorre lungo tutto il film e strappa più di una risata, ma che non riesce mai a levare di dosso una profonda sensazione di disagio. Non c'è da stupirsi se il popolo ritratto dal film si è preso male, ma la verità è che, purtroppo, nulla di quel che viene mostrato, al di là di alcuni atteggiamenti esasperati per amor d'effetto inquietante, m'è parso poi così improbabile. Diretto e interpretato benissimo, incredibilmente evocativo nell'utilizzo che fa dei suoi paesaggi, Wake in Fright mi ha un po' ricordato The Wicker Man, per il modo in cui racconta il viaggio all'inferno di un uomo assorbito dalle assurdità della profonda provincia. La differenza sta nel fatto che nel film di Ted Kotcheff non ci sono strane cospirazioni e culti pagani, c'è solo la brutale normalità dell'essere umano abbandonato a se stesso. E forse per questo fa molta più paura.

Come detto, il film è disponibile ormai da qualche anno in un'edizione Blu-ray della quale leggo in giro buone cose. Però, mi raccomando, se per qualche motivo dovesse capitarvi una chance di guardarvelo sul grande schermo, non perdetevela. Se lo merita.

1.12.14

Bag Boy Lover Boy


Bag Boy Lover Boy (USA, 2014)
di Andres Torres
con Jon Wachter, Theodore Bouloukos, Kathy Biehl

Al Paris International Fantastic Film Festival, i film in concorso vengono introdotti dai rispettivi autori. Talvolta il regista è presente in sala, accoglie la folla e dopo la proiezione si presta anche a una sessione di domande e risposte. Nella maggior parte dei casi, però, specie per i film in arrivo da altri continenti, si limita a mandare un messaggio registrato in video. E così è successo per Bag Boy Lover Boy, con un breve filmato in cui l'esordiente Andres Torres s'è presentato a torso nudo, forte delle sue maniglie dell'amore, e ha affermato, mentre si toccava con fare sensuale, che non sopporta i film pretenziosi e nei suoi lavori quel che conta è la quantità, non la qualità. Cominciamo bene. Ma d'altra parte, nel parlare di Bag Boy Lover Boy, si potrebbe dire che il film lavora di accumulo (quantità) e che tutto sommato, pur affacciandosi a più riprese dall'uscio che offre vista sul reame del pretenzioso (qualità), non compie mai il passo successivo e rimane lì, in bilico, tenendo a bada le pretese artistiche con una sana dose di angoscia e fastidio.

La storia racconta di Albert, un ragazzo la cui intelligenza potremmo definire limitata, impiegato come venditore di hot dog da strada presso il baracchino di una signora orientale. Una sera, Albert riceve come cliente Ivan, un fotografo che coinvolge Albert nel suo lavoro per utilizzarlo come modello in una serie di scatti che potremmo definire pretenziosi. Albert s'appassiona alla cosa e decide di diventare lui stesso fotografo, più che altro per impressionare Lexi, cliente fissa del baracchino di hot dog e ragazza dei suoi sogni. Per una serie di coincidenze, Albert si ritrova ad avere accesso allo studio fotografico di un Ivan in trasferta per lavoro, vi conduce delle donne ignare e si fa poi un po' prendere la mano sul fronte delle idee "fuori dagli schemi" per le sue fotografie. Seguiranno sangue, equivoci, usi impropri di tritacarne, interventi della polizia e altre sciccherie.

La storia di Albert è fondamentalmente un pretesto tramite cui Torres s'impegna a fare esattamente ciò cui accenna nel filmato con cui ha introdotto il film: odiare la pretenziosità. Il suo protagonista è un ritardato che recupera una macchina fotografica, impara ad usarla e a quel punto inizia a comportarsi esattamente come il fotografo da cui ha preso ispirazione, sparando idiozie artistiche e pretenziose per giustificare il proprio comportamento sul set. E insomma, siamo alla criticaccia di grana grossa, quasi puerile, che però assume una dimensione un po' diversa per l'assurdo fascino ipnotico esercitato da Jon Wachter, altro esordiente che riesce a infondere nel suo Albert un inquietante mix d'incoscienza, dolcezza, semplicità, cattiveria, inquietudine, senza mai lasciar capire fino in fondo quanto ci sia e quanto ci faccia, quanto non si renda conto e quanto invece stia sfogando una vita di repressione e maltrattamenti. Lui merita, il film che gli sta attorno mi sembra davvero poca cosa.

Al momento il film si sta facendo il giro dei vari festival internazionali e non sembra essere ancora prevista una distribuzione. D'altra parte non sono sicuro che valga la pena di star qui ad aspettarlo in preda all'ansia. Quindi, insomma, whatever.

28.11.14

Lo sciacallo


Nightcrawler (USA, 2014)
di Dan Gilroy
con Jake Gyllenhaal, Rene Russo, Bill Paxton

Lo sciacallo, traduzione italiana parzialmente azzeccata ma che forse circoscrive un po' troppo i temi rispetto all'originale Nightcrawler, è il primo film da regista di Dan Gilroy, fratello di Tony (Michael Clayton, Bourne assortiti e vent'anni di altri film) e del montatore veterano John, tutti figli del premio Pulitzer Frank. Insomma, una bella famiglia in cui il talento scorre copioso, anche se non tutto quel che i simpatici fratelli producono è tempestato di diamanti. Dan ha alle spalle già oltre dieci anni di lavoro non necessariamente celebratissimo, ma qui ha tirato fuori uno fra i migliori film dell'anno, splendidamente scritto, diretto con una mano sorprendentemente solida e consapevole, magari anche perché aiutata dalla presenza di un grande come Robert Elswit alla fotografia. Non è forse un film perfetto, certi suoi attacchi al modo moderno di trattare le notizie sono un po' di grana grossa, ma Lo sciacallo è uno splendido mix di thriller e commedia, che ti trascina dall'inizio alla fine forte di un ritmo invidiabile, di una messa in scena eccellente, di un protagonista scritto e interpretato mostruosamente bene. E, bonus, c'è pure un inseguimento in macchina che ti vien voglia di affidare subito a Gilroy il prossimo Fast & Furious, nonostante sia uno sceneggiatore alla prima esperienza con la macchina da presa.

Lo sciacallo racconta di un uomo piccolo piccolo, la cui morale scavalca il pensiero comune ed è virata solo ed esclusivamente al successo personale, alla ricerca di uno scopo nella vita, di un modo per mettere in pratica gli insegnamenti appresi a botte di corsi motivazionali, lezioni su internet e sana autodidattica. È un uomo esile e apparentemente innocuo, che Jake Gyllenhaal interpreta lavorando sul corpo, sulla postura, su delle spalle spesso abbandonate a loro stesse, su degli occhi enormi e pronti ad assorbire ogni cosa e su un sorriso capace di trarre in inganno tanto gli altri personaggi quanto gli spettatori. E del resto, se Lo sciacallo funziona così bene è anche per la bravura con cui Gilroy trova la distanza giusta, facendoti ammaliare dal suo nightcrawler, spingendoti a tifare per la sua storia di uomo che si è fatto da solo e lasciandoti lì alle prese col disagio dell'aver preso in simpatia una persona che scavalca la morale e pasteggia sulle disgrazie altrui.

Louis Bloom non è una persona normale che compie scelte sbagliate, è un sociopatico a cui l'era moderna offre l'opportunità di conquistarsi il successo con le proprie mani, applicando la sua assenza di morale comunemente intesa alla scavalcata sociale e professionale. Qualsiasi cosa si frapponga fra lui e il proprio obiettivo va eliminata, rivoltata come un calzino o quantomeno manipolata perché da ostacolo si trasformi in strumento. La sua non è una figura realistica e vicina, in cui è facile ritrovarsi, è piuttosto un'estremizzazione che parla di mille cose assolutamente nostre. Certo, critica i mezzi d'informazione e il loro approccio al sangue e alle difficoltà altrui, ma allarga molto di più il discorso, chiacchierando di quel che si è disposti a fare per raggiungere qualsiasi forma di successo e arrivando in fondo a parlare anche di cinema, dell'arte di manipolare la realtà per raccontare quel che serve, della consapevolezza che allo spettatore non interessino immagini realistiche, solo credibili. Il bello di Louis Bloom, poi, è che è talmente bravo a palleggiarsi chi gli sta di fronte a colpi di dialettica e armi retoriche inattaccabili, che alla fine anche la sua vittima più disgraziata non sa più cosa rispondergli e finisce quasi per dargli ragione. È la vittoria del troll da internet, e d'altra parte proprio Google è fra le armi più affilate di questo Travis Bickle del nuovo millennio.

Faceva parte delle proiezioni fuori concorso del Paris International Fantastic Film Festival 2014 e infatti è lì che me lo sono visto, nello splendore di una lingua originale che davvero si meriterebbe di essere ascoltata per il gran uso della voce fatto da Giacomino Gillencoso. In Italia, comunque, è uscito da un paio di settimane: se non l'avete ancora visto, recuperatelo. Mi raccomando.

27.11.14

Nightmare - Dal profondo della notte


A Nightmare on Elm Street (USA, 1984)
di Wes Craven
con Heather Langenkamp, Robert Englund, Johnny Depp

All'inizio degli anni Ottanta, Wes Craven chiudeva il suo primo decennio di carriera, in cui aveva diretto tutto sommato pochi film (perlomeno rispetto ai ritmi con cui avrebbe lavorato negli anni successivi) ma che aveva segnato a fuoco con un esordio potente come quello di L'ultima casa a sinistra e chiuso con un cult come Le colline hanno gli occhi. La seconda fase della sua carriera, quella appunto segnata da una produttività modello Woody Allen, è un microcosmo ai limiti dell'inspiegabile, che vede il regista di Swamp Thing, Le colline hanno gli occhi 2 e Dovevi essere morta riuscire a infilare nel bel mezzo di quel cumulo di monnezza un gioiello incredibile come il primo Nightmare. E così, fra una puttanata e l'altra, come se niente fosse, con indifferenza, per il secondo decennio consecutivo (e non per l'ultima volta) Craven ti piazza lì il film che detta le regole dell'horror a venire per un bel po' di anni, oltre che una roba deliziosa ancora oggi, seppur fra le rughe di una vecchiaia che certo fa una gran fatica a nascondere.

L'idea di partenza Craven la pesca dai propri ricordi d'infanzia e dalle suggestioni derivate da alcuni articoli di giornale che raccontavano di rifugiati Khmer giunti in America in seguito ai bombardamenti statunitensi in Cambogia e perseguitati dagli incubi al punto di morire nel sonno. Gente che muore a letto, in maniera spiegabile fino a un certo punto, e i giornali che non sembrano collegare fra loro i vari casi verificatisi. Ottimo materiale su cui basare una storia dell'orrore, no? Ma bisogna trovare un protagonista, un babau che riesca ad avere un aspetto e una caratterizzazione un po' diversi da quelli dei vari killer mascherati che vanno per la maggiore. Ecco allora quindi l'idea dell'assassino dalla faccia bruciata, anch'esso proveniente dai ricordi di Craven (un mix fra un signore inquietante incrociato da bambino e un bullo che lo molestava a scuola), con una faccia in qualche modo coperta da una "maschera", ma ancora in grado di mostrare espressività, un'arma un po' diversa dal solito pugnale e che se ne va in giro con addosso un maglione ispirato al costume di Plastic Man, ma virato verso l'accoppiamento di colori più fastidioso che esista per l'occhio umano.

Freddy Krueger subito prima dell'incendio che gli costerà la faccia.

Ma insomma, basta con il frullato di nozioni spicciole da Wikipedia, parliamo un po' del film. Io, con Nightmare, ho sempre avuto un gran rapporto. Fra tutti i mostri "serializzati" che popolavano il mio immaginario da ragazzetto appassionato d'orrore cinematografico, Freddy Krueger è forse quello a cui più mi ero appassionato. In parte, ovvio, è una pura questione anagrafica: ho voluto tanto bene anche a Michael Myers, Leatherface e Jason Voorhees, ma erano tutti arrivati prima. E ho voluto bene anche ad altri, ma arrivarono dopo e non ebbero lo stesso impatto. Freddy, invece, spunta al momento giusto e si mangia tutto il resto con il suo esuberante carisma. Ma il buffone crudele costruito da un film all'altro, in realtà, nel primo Nightmare si intravedeva al massimo fra le righe. Che poi è il motivo per cui ancora oggi, nonostante certi aspetti siano invecchiati davvero tanto (le musiche, madonna santissima), si tratta di un film ancora capace di regalare della sana inquietudine.

Il Fred Kruger che viene introdotto in quei primi, micidiali, minuti non è solo un assassino di bambini e ragazzini (nelle intenzioni iniziali doveva essere pure molestatore, per sicurezza), è una creatura sovrannaturale che prende possesso dell'unico ambito della nostra vita in cui dovremmo sentirci al sicuro e lo violenta nella maniera più brutale possibile. I film successivi ne estremizzeranno le caratteristiche trasformandolo in una specie di buffone omicida, ma qui Englund, pur gigioneggiando, esprime una furia trattenuta, crudele, che si concede solo un paio di battutacce. C'è già lo spirito beffardo di chi si bea della propria onnipotenza, gioca con le vittime e ne ride tutto il tempo, ma è soprattutto la natura marcia, oppressiva e violenta del personaggio ad emergere. Ed è un cattivo fenomenale, seppur (o forse proprio perché) appena tratteggiato, che buca lo schermo dal punto di vista visivo e diventerà poi una fra le icone horror più forti e irripetibili di sempre.

Ma a rendere grande il primo Nightmare non c'è solo la figura di Freddy, c'è soprattutto l'idea fantastica di basare tutto sul mondo dei sogni e di giocarci apertamente. Quando i personaggi chiudono gli occhi scatta l'orrore e Craven si sbizzarrisce da un lato nell'applicare i cliché dell'horror a un contesto onirico, rendendoli improvvisamente molto meno cretini, dall'altro nel mettere in scena un po' tutti i classici luoghi comuni degli incubi. L'esempio più banale è quello del pavimento (la scala, per la precisione) che assume la consistenza della melassa, facendo sprofondare i piedi e rendendo faticosissima la fuga dal pericolo, ma le idee fioccano in ogni dove, fra telefoni linguacciuti, momenti di sogno nel sogno nel sogno in cui non si ha mai la certezza di cosa stia realmente accadendo e ovviamente gli omicidi, uno meglio dell'altro, con forse in testa quello, meraviglioso, di un Johnny Depp al suo primo ruolo in assoluto, forte della maglietta con ombelico in bella vista e di una faccia da cretino come poche.

Poi Freddy è veramente un tipo raffinato.

A rivederlo una decina d'anni dall'ultima volta, fra l'altro per la prima volta sul grande schermo, Nightmare m'è risultato ancora più forte e riuscito nei suoi aspetti migliori, seppur sempre più invecchiato in tanti altri. Accanirsi su una colonna sonora per forza di cose legata al periodo storico è magari fuori luogo, ma certi suoni trapananti, sparati a mille nel multisala di fiducia, non si possono davvero sentire. E, insomma, anche ai faccioni degli attori, praticamente tutti costantemente sopra le righe e dalle parti del canino, si fa un po' fatica ad abituarsi. Ma per il resto, lo splendore del film è ancora tutto lì, e se magari l'impatto visivo non è lo stesso di altri classici dell'horror (e del resto Craven, con tuttto l'affetto, non è mai stato Carpenter), certe grandi e piccole trovate, tipo Johnny Depp che spunta da dietro l'albero nel sogno "coordinato", sono ancora deliziose. E bisogna tenere pure conto del fatto che stiamo parlando di un film uscito trent'anni fa. Trenta, eh! Cristopher Nolan aveva quattordici anni, altro che i sogni nei sogni dei sogni e la trottola.

Nel riguardarlo oggi, poi, emerge anche un aspetto tematico affascinante. Da bravo autore horror indipendente, Craven ci teneva a infilare comunque un certo tipo di temi e di satira nei suoi film. Certo, la cosa non era esattamente sottile, però l'attacco anche un po' brutale all'america di provincia, tutta pulitina, sana e dai valori puri, si sente forte e chiaro. Ma soprattutto, Nightmare, a voler ben vedere, è un film young adult fatto e finito, solo che filtrato attraverso la visione ruvida e sanguinaria di un horror anni Ottanta. I protagonisti sono tutti adolescenti alle soglie del passaggio all'età adulta e sono costretti a prendere in mano la situazione perché i genitori si rivelano tutti cretini, irresponsabili, alcolizzati o anche solo disinteressati. Anzi, sono proprio madri e padri ad aver creato, nella loro stupidità, la minaccia di Fred Krueger. E la protagonista è una ragazza che trova la forza di reagire e risolvere la situazione, per mezzo del classico confronto catartico marchio di fabbrica di Wes Craven (che per altro avrebbe voluto un lieto fine completo e si vide imposta la svolta onirica conclusiva dalla produzione). Fra l'altro, vedi un po' il caso, a un certo punto si interessò al progetto la Walt Disney, che però voleva addolcirne i toni e debrutalizzarlo. Mamma mia cosa abbiamo rischiato.

 L'Hunger Games degli anni Ottanta.

E invece è andato tutto bene, con un film che per altro ha incassato l'equivalente del suo budget nel giro di una settimana, per andare poi a raccogliere oltre dieci volte quel che era costato, dando vita a una vera e propria saga. Ma soprattutto Wes Craven ha firmato quello che, forse, rimane il suo capolavoro (o che comunque se la gioca al massimo con altri due o tre dei suoi film) e ha dato vita all'icona horror per eccellenza degli anni Ottanta, capace di sconfinare pure un po' nel decennio successivo, generare svariati seguiti (e neanche tutti orrendi, via), riportare Craven sul luogo del delitto con quell'altra ottima cosa di Nightmare - Nuovo incubo e beccarsi pure il suo inevitabile remake, che vabbé, lasciamo stare. Tra l'altro, chiudiamo come abbiamo aperto, con un fun fact da Wikipedia: Jackie Earle Haley, amico di Johnny Depp, aveva partecipato senza successo alle audizioni per il film. Venticinque anni dopo, verrà ingaggiato per il ruolo di Freddy nel remake. Che, vabbé, lasciamo stare.

 
E buona notte a tutti.

Non so quante volte io abbia visto questo film, e oltretutto nei ricordi tende un po' a mescolarsi con gli altri episodi, quindi non mi metto certo a contarle. L'ultima volta, comunque, è stata la scorsa settimana, in lingua originale, al cinema, qua a Parigi, nel bel mezzo di quella cosa deliziosa che è il PIFFF. Gli attori sono quasi tutti dei cani maledetti, però si impegnano di brutto e alla fine rendono. E poi la risata di Robert Englund è una delizia.

26.11.14

Time Lapse


Time Lapse (USA, 2014)
di Bradley King
con Matt O'Leary, George Finn, Danielle Panabaker

Time Lapse segna sostanzialmente il doppio esordio di Bradley King e BP Cooper. Il primo arriva da quattro cortometraggi e qui ha scritto e diretto. Il secondo ha alle spalle un decennio da produttore nel cinema indipendente americano e ha qui co-firmato la sceneggiatura. Assieme, i due han tirato fuori il classico bel film tutto incentrato su uno spunto forte e messo assieme con un budget ridotto, probabilmente speso più che altro per piazzare a schermo facce non dico famose, ma quantomeno riconoscibili. E dalla loro hanno avuto anche il culo di poter infilare nei titoli di coda un grazie grosso come una casa a John Rhys-Davies, che ha partecipato sotto forma di fotografia. Tema del film? I paradossi temporali - ma non i viaggi nel tempo - e i modi in cui la capoccia delle persone parte per la tangente quando queste si ritrovano davanti soldi facili e opportunità incredibili.

Volendo, può ricordare un po' il senso di paranoia e di rovinosa caduta verso l'abisso che c'era in Piccoli omicidi fra amici, esordio di quell'altro regista là che sappiamo bene e con cui fra l'altro Time Lapse condivide la presenza di un cadavere misterioso come catalizzatore degli eventi. Il cadavere, in questo caso, è quello di un vicino di casa dei tre protagonisti (un giovane pittore in crisi creativa, la sua ragazza e il loro convivente perdigiorno col trip delle scommesse sulle corse di cani), che sbarcano il lunario facendo i custodi del complesso residenziale in cui vivono e scoprono in casa del cadavere uno strano macchinario. Salta fuori che si tratta di una macchina fotografica in grado di produrre immagini prelevate dal futuro, per la precisione da ventiquattro ore dopo, e che il suo creatore, per eseguire i test, l'aveva puntata sulla finestra di fronte, quella dei tre cuori in affitto. Ovviamente a questo si aggiungono ulteriori piccoli misteri, tipo l'esatto funzionamento della macchina fotografica o il motivo per cui dalla "collezione" dello scienziato sembrino mancare alcune foto, e il film si sviluppa attorno a questi dubbi e alle decisioni su come approfittare della scoperta.

È possibile cambiare il futuro? Influenzarlo? Se sappiamo cosa faremo fra un giorno esatto, possiamo permetterci di provare a cambiare gli eventi facendo altro? Il semplice fatto di saperlo finisce per influenzare le nostre azioni al riguardo e rendere tutto inevitabile? Ma soprattutto: se vinci troppe scommesse clandestine di fila, non è che poi qualcuno s'incazza? Time Lapse offre risposte a queste e altre domande, regalando qualche svolta efficace, seppur magari un po' forzata - ma non più che in altri film che giocano con le linee temporali - e giocando bene sul crescente senso di paranoia, oltre che sulla pura curiosità di sapere come andrà a finire. Gli attori fanno il loro dovere, lo script riesce più volte a presentare situazioni che paiono impossibili facendo invece poi tornare tutto e c'è pure uno di quei finali da pernacchia in faccia ai protagonisti che pare uscito da un episodio di Ai confini della realtà. E questo nonostante, tutto sommato, Time Lapse non lasci addosso la tipica sensazione da storiella breve tirata troppo per le lunghe che spesso i film basati su una singola trovata fantascientifica forte finiscono per dare. Va detto che non lascia neanche addosso la sensazione di aver scoperto chissà quale nuovo talento pazzesco nel cinema del fantastico, ma tutto sommato ci si può pure accontentare di gente che sa fare bene il proprio lavoro senza menarsela troppo.

Se IMDB non mente, il film non è ancora uscito da nessuna parte, ma si sta facendo il giro di un po' tutti i festival del pianeta, compreso il Fantafestival di Roma dello scorso luglio. Attendiamo fiduciosi.

 
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