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29.8.08

Wanted

Wanted (USA, 2008)
di Timur Bekmambetov
con James McAvoy, Angelina Jolie, Morgan Freeman, Terence Stamp, Thomas Kretschmann


Dopo aver diretto tre robe che, a giudicare dai voti di IMDB, sarebbe forse il caso di chiamare robette, Timur Bekmambetov è salito alla ribalta girando l'adattamento cinematografico del libro I guardiani della notte, primo di una serie del quale è già in preproduzione il terzo episodio. Si dice che Bekmambetov abbia rilanciato alla grande il cinema popolare russo, mostrando che da quelle parti non arrivano solo barbosi film da festival, ma anche megaproduzioni di genere lussuose e curate.

Io annuisco e mi fido, ma di tutto questo non ho visto niente. Una volta ho registrato I guardiani della notte su Sky, ma poi mi sono accorto di aver registrato un film in russo senza sottotitoli e, insomma, la roba in ostrogoto senza sottotitoli andava bene per un adolescente che voleva vedersi i film di Miyazaki che nessuno ancora doppiava, non per un trentenne che vuole guardare i vampiri che si menano. Comunque ho comprato il libro, magari prima o poi lo leggo.

In ogni caso, dopo aver rilanciato alla grande 'sto cinema popolare russo, Bekmambetov ha fatto quello che tutti i registi di film di genere in lingue strane prima o poi fanno: è andato a lavorare a Hollywood. Ora, cosa succede se prendi un regista tamarro russo e gli metti in mano tanti dollari, una sceneggiatura ispirata a un minchiatone di Mark Millar e la versione anoressica pre-gravidanza di Angelina Jolie? Succede che viene fuori un film estremamente tamarro.

Wanted, il fumetto, è una robetta interessante, il classico fumetto-film d'azione à la Mark Millar, in cui la maggior parte del gusto sta nell'idea iniziale, nel ritmo indiavolato e nella valanga di volgarità, insulti e trovate "politicamente scorrette". Wanted, il film, rispetto alla fonte nega un po' di cose, a partire dall'idea del mondo in cui i supereroi sono stati spazzati via per arrivare a praticamente tutto il coacervo di volgarità e schifezze che tempestava la miniserie di Millar.

Al che uno potrebbe anche chiedersi cosa rimanga, se a Wanted gli togli lo spunto di partenza (che generava gag fantastiche come quella sugli "attori") e la provocativa volgarità. La risposta è che rimane un filmaccio d'azione di quelli ignoranti e tumultuosi, dal gran ritmo e con qualche bella trovata, che mostra come tutto sommato, sotto le tamarrate, del talento ci sia.

Insomma, dei momenti che rimangono appiccicati alla retina ci sono, via, dalla scritta tasti & denti alla strepitosa sequenza in treno, e in generale c'è un bel ritmo, una regia delle scene d'azione non banale e tutto sommato una certa voglia di stupire con qualche morte non necessariamente telefonata e un finale abbastanza amaro.

E poi il protagonista è chiaramente Ken il guerriero, solo con le pistole. Voglio dire, guardate il momento in cui parte all'assalto del forte. Quando va dritto muovendo le braccia e sparando da tutte le parti, con i branchi di persone che gli muoiono ai lati. Quella scena è identica a quei momenti in cui Ken il guerriero andava dritto muovendo le braccia a caso e la gente esplodeva ai lati. È lui.

28.8.08

Dr. Horrible's Sing-Along Blog

Dr. Horrible's Sing-Along Blog (USA, 2008)
di Joss Whedon
con Neil Patrick Harris, Nathan Fillion, Felicia Day


Dr. Horrible's Sing-Along Blog è una deliziosa miniserie creata per il web da quel manico di Joss Whedon, che a quanto pare, non sapendo bene che cazzo fare durante lo sciopero degli sceneggiatori, si è divertito a partorire questo piccolo gioiello. Tre episodi da quindici minuti circa l'uno, che raccontano le peripezie del Dr. Horrible, un supercriminale un po' sfigato interpretato meravigliosamente dall'adorabile Neal Patrick Harris.

Il Dr. Horrible trascorre le sue giornate cercando di diventare un cazzutissimo cattivo da fumetto, finendo regolarmente legnato da quel buzzurro spocchioso di Capitan Hammer (Nathan Fillion, my love), lanciando malinconici sguardi carichi d'amore alla bella Penny, la ragazza che vede tutti i giorni alla lavanderia a gettoni. E parlando via web a coloro che seguono il suo blog.

Questo, fondamentalmente, il canovaccio su cui si basano tre strepitosi episodi, vere e proprie bombe che mostrano quanto di folle, delizioso, completamente fuori dagli schemi possa venire fuori quando una mente con due palle così viene lasciata libera di lavorare senza alcun freno. Autoprodotto con passione e amore, Dr. Horrible's Sing-Along Blog è un gioiellino, divertentissimo, appassionante, tenero e perfino commovente.

Stupisce per le sue continue trovate, lascia a bocca aperta per il modo intelligente e ricercato in cui sfrutta le tecniche del musical nel raccontare la sua storia, fa letteralmente spanciare dalle risate e regala perfino un colossale pugno nello stomaco a chi s'aspetta di guardare semplicemente una sciocchezzuola stupidina. Insomma, è Joss Whedon puro, poco altro da dire: chi sa, sa.

P.S.
Inizialmente visibili gratuitamente in streaming, i tre episodi sono stati poi messi in vendita su iTunes e sono quindi tornati nuovamente visibili via web. Adesso è possibile accedervi per entrambe le vie... se si vive negli Stati Uniti. Da noi, a quanto pare, ci son problemi di diritti e ci si attacca al cazzo. O si aspetta che il già annunciato DVD arrivi su play.com (axelmusic.com, amazon.uk, sarcazzo.asd), o magari si manifesti in groppa a un mulo (o ci si attacca a un proxy americano, mi suggeriscono).

27.8.08

La proposta

The Proposition (USA, 2005)
di John Hillcoat
con Guy Pearce, Ray Winstone, Danny Huston, Emily Watson, John Hurt


La proposta racconta di uomini di legge che varcano il limite, fuorilegge che si barcamenano al di là e al di quà dello stesso, pazzi psicopatici che vivono in base alle loro, di leggi. Parla di onore, amore, rispetto, rabbia, follia, violenza. E, pur con tutti i limiti derivanti da una sceneggiatura un po' troppo alla ricerca del personaggio a effetto e della trovata lirica da musicante, è un western intenso e vivo, coi suoi bei motivi d'interesse.

Per esempio La proposta affascina col suo illustrare la lurida vita nell'Outback australiano sul finire del diciannovesimo secolo, mostrando scenari che sembrano la versione brutta, sporca e disperata di quanto solitamente racconta il western americano. E a questa lercia atmosfera si adegua il film, che mette in scena corpi laceri e sfatti, persone distrutte da una terra crudele, uomini-bestie disposti a tutto per ottenere quello che vogliono.

Il film di John Hillcoat non si ferma ai falsi pudori e racconta i suoi personaggi immergendosi a piene mani nello sporco, nella merda, nel sangue che insozza la polvere australiana, mostrando cose che si fa fatica a osservare, ma dalle quali è difficile distogliere lo sguardo. Una storia intensa e dura, fatta di tragici errori e di implacabili conseguenze.

Bravissimi gli attori, bravo il regista, una pacca sulla spalla pure a Nick Cave che scrive sceneggiatura e (ovviamente) musiche. Ci son bei personaggi, dialoghi intensi e sentimenti forti, anche se si tende ogni tanto a uscire un po' troppo dal seminato alla ricerca del poetismo e del personaggio dannato e fuori dagli schemi. Un po' troppo per quelle che sono le mie corde, quantomeno. E poi John Hurt che fa il pazzerello sta diventando un po' come Susan Sarandon che fa il monologo: basta.

26.8.08

Superbad

Superbad (USA, 2007)
di Greg Mottola
con Jonah Hill, Michael Cera, Christopher Mintz-Plasse


Inizialmente volevano sottotitolarlo "Maiali dietro ai banchi". Poi, forse perché non era abbastanza geniale, si è deciso di optare per "Tre menti sopra il pelo". Gioia e tripudio. Cazzo, io quelli che fanno questo lavoro, di inventare titoli orrendi, volgari, fastidiosi, da appiccicare ai film, un po' li invidio. Che bello dev'essere ritrovarsi tutti assieme a sparar cazzate, a divertirsi a botte di "oh, ascolta, perché non lo chiamiamo così?". Per non parlare poi di quando si decide che sei film scollegati fra di loro in Italia debbano chiamarsi tutti La casa (e il sesto si chiama La casa 7, perché il 6 porta sfiga). O trasformare in una femmina l'ape Magà, inventare parentele fra Mila e Mimì... no, davvero, è una figata. Da grande voglio fare quello che si inventa cazzate per far tirare di più la roba.

Superbad, comunque, è un altro film della premiata ditta Apatow & co., che in realtà da Apatow è solo prodotto, ma tanto ormai tutto quel che tocca diventa oro, quindi va bene così. Va bene anche magari sopravvalutare un po' quel che esce dal suo circoletto di amici, perché in fondo si finisce bene o male per sopravvalutare cose comunque ottime, quindi non ci si può lamentare troppo e anzi, avercene.

Perché Superbad non è magari quel film geniale per cui alcuni provano a spacciarlo, ma è una commedia davvero azzeccata, che applica la formula di Molto incinta al film porcello-adolescenziale. Volendo si potrebbe dire che abbiamo trovato un erede per Animal House, Porky's e (sigh) American Pie, che probabilmente riesce tanto bene quanto quei tre film a rispecchiare i giovani stronzi del decennio di cui parla (non che io conosca bene la vita sessuale degli adolescenti degli anni settanta e ottanta, ma mi piaceva l'idea di scrivere 'sta cosa).

Più o meno autobiografico, scritto a quattro mani da Seth Rogen ed Evan Goldberg con due protagonisti che si chiamano - toh! - Evan e Seth, Superbad è una classica storiella di fine adolescenza. Si ride, tanto, di fronte a situazioni assurde e demenziali, ma tutto sommato (abbastanza) credibili e (quasi) realistiche. Ma si trovano anche personaggi solidi, credibili, ragazzi in difficoltà nell'affrontare la fine di un periodo importante della loro vita e alla ricerca di una direzione da seguire. E pure dei begli interpreti, con l'adorabile Michael Cera che svetta su tutti.

C'è una bella amarezza di fondo che percorre tutto il film, anche nei suoi momenti più assurdi, e lascia sempre in bocca un retrogusto amarognolo. C'è una scrittura solida e intelligente, che sfugge alle volgarità più ovvie e banali e riesce invece a divertire giocando col basso senza dare mai l'impressione di sfruttarlo in maniera truce o scorretta.

C'è insomma un bel film, che riesce ad essere delicato e a modo suo toccante pur parlando di adolescenti ingrifati che pensano solo a far sesso almeno una volta prima dell'università. E ovviamente c'è da parte mia il timore per una versione italiana che chissà mai quali disastri contiene. Ma in fondo chissenefrega, anche: io ve lo dico, guardatelo in lingua originale.

25.8.08

40 anni vergine

The 40 Year Old Virgin (USA, 2005)
di Judd Apatow
con Steve Carell, Catherine Keener, Paul Rudd, Romany Malco, Seth Rogen


Due anni prima di Molto incinta, Judd Apatow si faceva conoscere con questo 40 anni vergine, che all'epoca era decisamente più "il film di Steve Carell" - e del resto si basava su uno sketch già mostrato in tv dal comico statunitense - ma col senno di poi mostra chiaramente tutto quello che renderà Apatow quella specie di Re Mida della commedia americana che è poi diventato.

Così come il successivo film di Apatow, anche 40 anni vergine lavora all'interno di meccanismi consolidati per rileggerli alla sua maniera. Se in Molto incinta si parla di classica commedia romantica, qua siamo più dalle parti della commedia demenziale e "politicamente scorretta" in stile Farrelly. Ma se il genere è indubbiamente quello, lo stile e le modalità sono ben lontane.

La chiave del film sta ovviamente nel protagonista, uno Steve Carell strepitoso che riesce ad essere contemporaneamente un personaggio assurdo e improbabile ma anche una persona realistica e tremendamente ben caratterizzata. E del resto si rispecchia anche in chi gli gravita attorno la natura di personaggi-stereotipo, macchiette monodimensionali ma in qualche modo realistiche e credibili, ben tratteggiate nei dettagli di un dialogo, un sentimento, un tratto caratteristico.

E poi c'è quella insostenibile amarezza di fondo, quel continuo mettere in scena momenti in cui non riesci a capire se devi ridere o provare tristezza per il protagonista, quell'anima graffiante e satirica che ti entra sottopelle e ti convince di non stare guardando la minchiata colossale che t'aspettavi. I Farrelly ti fanno ridere sboccatamente delle sfighe altrui, 40 anni vergine ti fa sentire in colpa perché ne stai ridendo. E la differenza non è poca.

E poi Apatow ha una dote rara, quella sua deliziosa capacità di rendere in maniera naturale e a modo suo elegante argomenti, situazioni e modi di parlare che chiunque altro ridurrebbe a triste volgarità. Con 40 anni vergine non ci si ammazza forse dal ridere - se non in un finale pazzesco, che da solo vale la visione - ma sembra sempre di essere davanti a qualcosa di ben più intelligente rispetto a quanto voglia far credere. E anche se preferisco l'umorismo più terra-terra e credibile di Molto incinta, apprezzo e approvo.

P.S.
Ho visto il film in lingua originale, non mi assumo responsabilità sul doppiaggio italiano, che immagino mestamente virato al volgare e al basso come troppo spesso accade negli adattamenti delle commedie. Del resto già lo strillo di copertina è una garanzia: "Più tempo aspetti e più sarà duro"

22.8.08

Voio



La canzoncina, mamma mia.

La promessa dell'assassino

Eastern Promises (USA, 2007)
di David Cronenberg
con Viggo Mortensen, Naomi Watts, Vincent Cassell, Armin Mueller-Stahl


Ecco, questo è il Cronenberg che piace a me. Questo, non quello. Il Cronenberg che oltre alla sua glaciale cura per l'immagine, oltre alla rozza semplicità e linearità di intreccio e personaggi, oltre alla sua lancinante e fredda eleganza, dentro al film ci sbatte il melodramma, estremo e forzato, romantico e straziante.

Eastern Promises racconta dell'infermiera Naomi Watts e dell'odissea in cui s'imbarca per salvare la figlia orfana di una vittima delle crudeltà mafiose. Parla delle motivazioni che spingono l'intraprendente "matricola" russa Viggo Mortensen ad interessarsi della bella infermierina e approfondisce il suo rapporto d'amicizia col figlio in carriera Vincent Cassell. Parla del destino di un anziano boss che preferisce fidarsi del nuovo arrivato piuttosto che del suo sciagurato figliolo. Racconta le più classiche storie da film di mafia, che per ampi tratti ricordano mille altri film, a cominciare, banalmente, da Il padrino.

Ma nel far questo mette in scena con crudele e tragico realismo l'agghiacciante realtà della mafia russa, le dinamiche di violenza e onore tramite cui si sviluppano i rapporti, il disastro a cui porta lo scontro culturale fra chi ne fa parte e gli "esterni". Eastern Promises è soprattutto questo, lo splendido e impietoso ritratto di un mondo sanguinario e spietato, l'intensa ricerca sulle motivazioni di personaggi tragici e intensi, lo spiazzante sfiorare passioni estreme e strabordanti nascoste sotto un velo di fredda indifferenza, tragicamente necessaria per sopravvivere.

E c'è poi anche altro, c'è un colpo di scena poco telefonato e molto convincente, ma trattato con una tranquillità e un "understatement" talmente placidi da evitare che si trasformi nella trovata a effetto. È solo un altro snodo narrativo, naturale e giusto. C'è una regia pazzesca, che regala almeno un paio di scene - l'iniziazione e la famigerata rissa nella sauna - bellissime e da ricordare. C'è un bel divertirsi con le lingue mescolando accenti, idiomi, espressioni (film indoppiabile, mi sa). C'è la capacità di sfiorare l'improbabile senza crollare nel ridicolo, dote un po' assente in History of Violence. C'è insomma un gran film.

21.8.08

Resistance: Fall of Man

Resistance: Fall of Man (SCE, 2006)
sviluppato da Insomniac Games


Come si fa a parlare di Resistance due anni dopo senza scadere nel banale e nel detto e ridetto? Sinceramente non ne ho idea, quindi parto subito col dirlo, il detto e il ridetto. Tipo il fatto che le armi sono uno spettacolo. Perché le armi dei giochi Insomniac sono sempre uno spettacolo: tante, varie, divertenti da usare, versatili, piene di cosette sfiziose che aggiungono profondità tattica.

Ecco, sì, ci siam tolti il dente. Adesso leviamocene un altro: da giocare, Resistance è un piacere. Non solo per le armi, che son fighe, ma per il modo in cui sono costruiti i livelli, per la tenacia dei nemici, per la necessità di affrontare le battaglie con un minimo di criterio. Insomma, è un gioco impegnativo e appassionante, perlomeno se affrontato a un livello di difficoltà degno. E in cooperativa, pure, guadagna non poco.

Il problema - terzo dente, detto e ridetto - è che sotto certi punti di vista è anche un po' troppo derivativo e un po' poco ispirato. Voglio dire, gli alieni, via, son veramente bruttarelli, legnosi, han proprio quel design "occidentale medio" privo di nerbo che nel dopo Gears of War fa davvero venire il latte alle ginocchia.

Si arriva poi - quarto dente - all'intrigante idea di raccontare la storia tramite le parole di una seducente e femminea voce brit, che in avvio ingrifa col suo modo di svelare segreti, ma sulla distanza finisce per "staccare" assai e far vivere gli eventi in maniera un po' troppo passiva. Non che ci sia poi molto da raccontare, ma sinceramente quel che accade poteva essere esposto con un filo di pathos in più.

Anche vero - quinto dente - che momenti ricchi di emozione ce ne sono, anche se son dovuti soprattutto al buon impatto del motore grafico (davvero affascinanti certe scelte nell'uso delle luci e dei colori). Penso alla battaglia nella cattedrale di Westminster, all'avanzata fra le trincee di Manchester, all'esplorazione dei tunnel sotterranei, a quegli enormi "prosciuttoni" alieni penzolanti fra i crepacci della base.

Insomma, il fatto è che Resistance è un gioco un po' medio, ma che ha alcuni elementi di gran valore, capaci di farlo rendere come ben più che medio (ci sarebbe pure un multiplayer tutt'altro che da buttare, anzi). Considerando che si è manifestato al lancio di PS3, c'è davvero poco da dire. Insomma, dall'altra parte al lancio c'era, santoddio, Perfect Dark Zero.

Epperò, se lo decontestualizziamo un attimo, vien difficile considerarlo come qualcosa di diverso da uno sparatutto francamente abbastanza ordinario. Che vanta pure i suoi bei guizzi e le sue belle finestre che si sfondano a ragnatela, per carità. Ma ordinario rimane. E le battaglie sui veicoli sono un po' una rottura di palle.

20.8.08

L'incredibile Hulk

The Incredible Hulk (USA, 2008)
di Louis Leterrier
con Edward Norton, Liv Tyler, Tim Roth, William Hurt, Tim Blake Nelson


L'incredibile Hulk, bisogna dirlo, parte bene, o quantomeno in maniera interessante. Non perché sconfessa fin da subito l'intero film di Ang Lee, negandone le origini del personaggio (assieme al conflitto padre-figlio su cui s'incentrava la pellicola) e mostrando in volata tutti i nuovi protagonisti, ma per il modo simpatico con cui i titoli di testa omaggiano il vecchio telefilm e per quella splendida ripresa volante su Rio.

Poi, però, si viene sepolti da un paio d'ore circa di noia insostenibile, durante la quale si riflette sulla mediocre prova di praticamente tutti gli attori, ci si ringalluzzisce nell'accorgersi che "ah, sì, quello è Leonard Samson" e nel cogliere tutte le strizzatine d'occhio ai fan dei fumetti, si salta un attimo sulla sedia nel riconoscere l'accennato tema musicale del telefilm e ci si chiede quanto cazzo manchi a 'sta spettacolare rissa finale, che oltretutto spettacolare si rivelerà esserlo molto poco.

L'incredibile Hulk è un film micidialmente povero, che spazza via qualsiasi tentativo di raccontare una storia intensa e drammatica, di approfondire la psicologia dei personaggi, di fare insomma quello che le migliori storie a fumetti del gigante verde hanno fatto negli anni. Ci si ritrova invece con una storiellina esile e piatta, tenuta assieme da personaggi mosci come pochi, in cui si passa stancamente da una scena d'azione all'altra.

Sono poi belle le scene d'azione? Abbastanza, anche se un po' troppo franco-tamarre per i miei gusti. C'è un Tim Roth disgustoso e divertente nella spocchia con cui affronta Hulk? Senza dubbio. Ma è sufficiente? No, perché non è questo l'Hulk davvero affascinante, perché si barcolla un po' troppo sul filo del ridicolo senza volerlo abbracciare con la gioia e la consapevolezza di altri film, ma giocandosi anzi in maniera impacciata la carta dell'intenso melodramma, con la speranza che bastino un paio di sguardi intensi e una scopiazzatura malriuscita del corteggiamento di King Kong per dare un minimo di spessore a questa sottiletta.

Il problema è che L'incredibile Hulk è un filmetto d'azione da quattro soldi, che si compiace della sua aderenza "citazionista" al fumetto, ma non riesce a coglierne davvero i tratti essenziali. Prova ad abbracciare il filone Frankenstein, ma non riesce a convincere nei suoi aspetti melodrammatici. Prova a buttarla sul caciarone, ma non ha le palle di farlo con la giusta dose di consapevolezza, nonostante l'unica vera punta di autoironia del film sia (putacaso) forse anche la battuta più riuscita. È un pasticciaccio adolescenzialoide da quattro soldi, con davvero pochi, isolati, momenti degni di nota.

Per molti l'Hulk di Ang Lee è stato un fallimento, e di sicuro lo è stato dal punto di vista commerciale. Ma mille volte meglio un fallimento che prova a dire qualcosa, rispetto a queste due ore di squallido nulla, nelle quali puoi giusto compiacerti per degli effetti speciali ben realizzati, ridere per una o due battute, gongolare di fronte a Robert Downey Jr. e pensare che già Liv Tyler ti piace tanto meno di Jennifer Connelly, ma se poi passa due ore a piangere come una cretina, beh, ti vien proprio voglia di ucciderla. Sembra paradossale, ma Edward Norton sarebbe stato davvero tanto meglio nel primo Hulk che ha rifiutato, invece che in questo che ha voluto co-sceneggiare vedendosi poi - pare - stagliuzzate quasi tutte le sue aggiunte. Contrappasso?

19.8.08

Hulk

The Hulk (USA, 2003)
di Ang Lee
con Eric Bana, Jennifer Connelly, Nick Nolte, Sam Elliott, Josh Lucas


Nel panorama sempre più sconfinato dei film ispirati a fumetti Marvel, l'Hulk di Ang Lee spicca, nel bene e nel male, in tutta la sua particolarità. A colpire, fin dall'inizio, è la ricerca visiva, che in un certo senso ripesca i colori iper saturi e l'aria cartoonesca utilizzati a suo tempo da Warren Beatty per Dick Tracy e col senno di poi pare quasi essere un primo passo verso la totale aderenza alla fonte di Sin City.

Ang Lee non osa tanto quanto la coppia Rodriguez/Miller, ma prova comunque a mettere su schermo una specie di tavola a fumetti in movimento, dividendo l'immagine in mille sezioni che comunicano fra di loro raccontandosi in maniera disordinata e affascinante. Non si limita a un banale utilizzo dello schermo diviso, ma va oltre, scombinando a tratti la scansione temporale del racconto, cercando soluzioni visive ricercate e affrontando il film-fumetto da un'angolazione particolare, unica.

Ma a distinguere il suo Hulk da tutto il resto c'è anche la scelta dei toni, di uno stile del racconto che non si discosta dalle abitudini del regista di origini cinesi, puntando tutto sul melò e sulle suggestioni drammatiche. Il Bruce Banner raccontato da Lee è quello più cerebrale e riflessivo, che richiama alla memoria i periodi introspettivi e "psicanalitici" della serie a fumetti Marvel.

Hulk non parla di supercriminali interessati alla conquista del mondo, ma si sofferma invece sulle personalità e le difficili storie personali dei due protagonisti Bruce e Betty, ben interpretati da quel frolloccone di Eric Bana e da quel bellissimo sorriso di Jennifer Connelly. Il difficile rapporto di entrambi coi rispettivi padri, la loro romantica e condannata storia d'amore, le difficoltà nello scendere a patti col passato che li tormenta, questi sono i temi del film e ciò su cui si sofferma un racconto fatto di silenzi e sguardi, più che di zompi e cazzottoni (che pure nella seconda parte non mancano).

Hulk, insomma, è un film che va ben oltre la semplicità di buona parte della Marvel cinematografica, sia sul piano della ricerca formale, sia su quello dei temi affrontati. Si interroga sulla reale natura dei personaggi che racconta e degli interessanti conflitti alla base del personaggio fumettistico. Non si limita a raccontare la storiella di un mostro in guerra col mondo, ma la sfrutta come pretesto per (provare a) parlar d'altro.

Disprezzato dai più, amato da pochi, Hulk vive il dramma di rivolgersi a un pubblico non interessato a ciò che racconta e deludere chi invece a lui si rivolge per trovare qualcos'altro. Le stesse scene d'azione che si vedono nella seconda parte, pure ben realizzate e coinvolgenti, sfuggono alla logica dello scontro epico e raggiungono l'apice in un combattimento finale talmente poco "combattuto" da lasciare quasi delusi (un po' come il sollevamento pesi di Superman Returns, altro film "barboso" e poco adatto al target adolescenziale che il genere ricerca). Ne viene così fuori un film interessante e e coraggioso, magari non perfettamente riuscito, ma che quantomeno si distingue dalla massa dei suoi simili. Peccato solo che si sia distinto tanto da spingere a un colossale dietrofront e al mediocre "non seguito" di Louis Leterrier.

 
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