All is Lost (USA, 2013)
di J.C. Chandor
con Robert Redford
Nella vita e sul lavoro è sempre importante mostrare versatilità, prontezza di riflessi, capacità di adattarsi a contesti e situazioni diverse. Avrà avuto questo in mente, J.C. Chandor, quando ha deciso quale sarebbe stato il suo secondo film? Oppure c'aveva semplicemente voglia di starsene per qualche settimana a mollo nello stesso serbatoio d'acqua in cui quasi vent'anni prima James Cameron aveva girato Titanic? Vai a sapere. Fatto sta che è umano sentirsi almeno un pochino spiazzati, quando il regista e sceneggiatore del verbosissimo (e bellissimo, intendiamoci) Margin Call, tutto incentrato sulla recente crisi economica e costruito come dramma umano fatto di gente che si parla addosso chiusa in un palazzo, si mette a girare, come sua opera seconda, la storia di un uomo abbandonato a se stesso in mezzo all'oceano che se ne sta quasi completamente zitto per centosei minuti. Ma d'altra parte, il prossimo film scritto e diretto da Chandor sarà un poliziesco d'azione intitolato A Most Violent Year, quindi mettiamoci una pietra sopra e chiudiamola qui: J.C. è un pazzoide di quelli che ci piacciono tanto, oltre che uno fra i nuovi autori più dotati di Hollywood.
A volerla buttare sullo scherzo, si potrebbe dire che All is Lost è la versione pensionata di Gravity. Di sicuro, fa parte di quel fenomeno bizzarro in base al quale dagli USA arrivano spesso i film a coppie: l'epopea di Robert Redford e quella di Sandra Bullock affrontano, di fondo, argomenti molto simili, mettendo i rispettivi protagonisti nel bel mezzo di una solitaria lotta per la sopravvivenza contro le forze della natura. E in America sono usciti praticamente in contemporanea. Sono, però, due film molto diversi. Gravity è un grandioso tour de force di regia, un tripudio di virtuosismi accompagnato dalle solite riflessioni spirituali di Cuaron e dalla decisione di puntare tutto sul dinamismo, sulla comunicazione anche verbale, trovando continui pretesti per non far stare mai zitta Sandra Bullock, anche a costo di infilarci dentro un momento Nespresso. E, intendiamoci, è forse il mio film preferito dell'anno scorso, quindi non è che dicendo queste cose voglia criticarlo. All is Lost, però, spinge in altre direzioni.
J.C. Chandor apre il film su schermo nero, con il dialogo più lungo che sentiremo per centeppassa minuti, una lettera d'addio e di scuse indirizzata a chissà chi, che traccia il solco attraverso cui si muoverà il personaggio nella sua odissea. Dopodiché prende quel simpatico accumulo di botulino incartapecorito del Robert Redford e lo piazza da solo, in mezzo all'oceano, a farsi un giretto sulla sua barca e a finire, ma tu dimmi la sfiga, per schiantarsi contro un container abbandonato lì, a metà fra una corrente e l'altra dell'Oceano Indiano. Da quel momento in poi inizia il disastro, perché quello che inizialmente sembra un imprevisto "gestibile" è solo il primo anello in un'interminabile catena di sfighe che pare uscita da una stagione di 24. E se da uno spunto del genere altri registi tirerebbero fuori uno spettacolare film d'avventura, Chandor estrae invece dal cilindro un teso, appassionante, "normale" e tranquillo dramma umano, da cui è impossibile staccarsi nonostante non ci sia mezzo reale momento d'azione vera.
All is Lost funziona soprattutto per il suo approccio terra-terra (battutona: acqua-acqua) alle vicende, per il modo in cui ci mostra un uomo che reagisce in maniera naturale e credibile agli eventi e tenta in tutti i modi di aggrapparsi alla sopravvivenza sfruttando razionalità, capacità, conoscenze. C'è uno stile a tratti quasi documentaristico nella silenziosa e metodica semplicità con cui Redford approccia la riparazione di una falla, la preparazione di un pasto, lo studio di una mappa, la decisione fra la fretta di andarsene e la necessità di recuperare un utile pezzo d'equipaggiamento. Il protagonista non spiccica una parola dall'inizio alla fine, perché è questo che fanno le persone quando sono sole, stanno zitte, eppure è sempre tutto perfettamente chiaro, grazie a un lavoro di regia e di montaggio che ha dell'incredibile e che prende a schiaffi e calci nel popò l'insopportabile bisogno di verbosi e didascalici spiegoni che tormenta gran parte del cinema americano. Chandor spiega situazioni e meccanismi totalmente alieni a gran parte del pubblico con una semplicità disarmante, semplicemente azzeccando ogni inquadratura e giocando sulla gestualità del suo protagonista.
Ed è ovviamente anche grazie a Redford se il film funziona così bene, grazie a un'interpretazione come non ce ne regalava da [vuoto mentale] e che rischia forse di essere sottovalutata perché poco spettacolare, priva dei momenti estrosi che spesso caratterizzano l'attore abbandonato a se stesso. Il caro Rob si esibisce in un'interpretazione estremamente trattenuta e tranquilla, passa la maggior parte del tempo senza muovere un sopracciglio, perché del resto che dovrebbe fare, una persona da sola su una barca e alle prese con l'istinto di sopravvivenza? E proprio per questa sua stoica monoespressività, quando invece si lascia andare alle reazioni giuste, nei momenti giusti, l'impatto è fortissimo. È soprattutto grazie a lui, e al lavoro metodico, insistente, dettagliato e pacato di Chandor, se All is Lost funziona in ciò che più conta per un film del genere: trasmette un senso di credibilità pazzesco - poco importa se e quanto sia effettivamente realistico - e riesce a far vivere con incredibile forza il dramma di quei momenti, senza sentire il bisogno di "approfondire" il personaggio raccontandocene il passato, i drammi familiari, i dubbi e le incertezze: stanno tutti nel suo sguardo profondo e nelle rughe che ne solcano il volto, sono gli stessi che nascondiamo dentro di noi e non c'è bisogno di spiegarceli. Insomma, All is Lost è un film bellissimo, criticabile magari solo per la saltuaria ricerca dell'inquadratura "poetica" e per un finale forse poco incisivo. Ma son pochezze, dettagli ai margini di uno fra i migliori film dell'anno scorso o di quest'anno, a seconda di quando lo si voglia inquadrare fra i deliri della distribuzione.
L'ho visto a dicembre, in quel di un cinema parigino, standomene aggrappato alla poltrona tutto il tempo. Ne scrivo adesso perché questa settimana arriva finalmente nelle sale italiane e ve lo dico chiaro: andate a spararvelo al cinema, perché è un film da cui bisogno farsi sommergere (battutona!). Tanto più che Redford apre bocca quattro volte in tutto il film, quindi non è che ci sia molto da temere per quanto riguarda adattamento e doppiaggio.
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