Come scrivevo qui, giovedì 1 marzo ero a San Francisco, sveglio dalle sei e pronto a distruggermi piedi e gambe per vagare come un disperato in una delle città più belle che abbiano mai avuto il discutibile onore di ospitarmi. La giornata inizia, come sempre quando mi trovo negli Stati Uniti per solo qualche giorno, molto presto: alle sei del mattino ho già gli occhi spalancati, sto cazzeggiando in camera e mi preparo a uscire. Decido quindi di farlo e vado a gironzolare sulla vicina baia settentrionale. Passeggio un po' senza una meta precisa e mi dirigo verso il Bay Bridge, ma improvvisamente comincia a piovigginare e - dopo aver fatto un salto a fotografare questo (famoso) palazzo senza senso - torno in albergo ad attendere l'ora dell'appuntamento con gli altri.
Nel frattempo le condizioni metereologiche migliorano e la successiva passeggiata (con intervallo in una specie di panetteria dove mi gusto dell'ottima cioccolata calda e un bel dolcetto danese) ci conduce lungo Market Street, all'insegna dello scazzato gironzolare fra negozi abbastanza privi d'interesse. Passeggiando, noto con lo sguardo posti visitati nel press tour di fine 2003, dall'albergo, al negozietto stupido, al ristorante. Si prosegue con un giretto a Union Square, passando per un deludente Disney Store e scendendo giù lungo la via in cui si trovano Electronic Boutique e Rasputin (un bel negozio di musica e DVD con caterve di roba usata). Ci infiliamo quindi nel Metreon, una specie di (orrendo) mega palazzo Sony che contiene negozi e cinema, dove vado a spendere qualche soldo in una fumetteria. Qui, fra l'altro, compro il biglietto per la Wonder Con del giorno dopo. Dopodiché ci si dirige a pasteggiare presso un ristorante messicano molto amato da Scamu e Soletta e che di fianco all'ingresso espone questa inquietante segnalazione.
Dopo aver mangiato una quantità sconveniente di carne, ci dirigiamo verso est, fino alla baia, e risaliamo lungo la costa, diretti all'albergo. Così facendo passiamo davanti all'AT&T Park, cui dedicai apposito pellegrinaggio anche a suo tempo, e sotto all'imponente Bay Bridge. Da qui si prosegue incrociando cose strane e, risalendo lungo Market Street, arriviamo fino all'albergo, pronti a un pomeriggio e una serata di duro lavoro (che non descrivo perché l'ho fatto fino a sfinimento su PSM).
La seconda giornata piena trascorsa a San Francisco segna l'inizio del massacro, dove per "massacro" s'intende la totale, volontaria e completa devastazione dei miei poveri piedi. Si comincia imboccando Market Street, cercando punti di riferimento legati alla mia sempre affidabile memoria visiva e raggiungendo così il Denny's in cui Marco Accordi mi aveva portato nel 2003, facendomi assaggiare la prima colazione a base di pancake della mia vita. L'obiettivo, ovviamente, sono appunto i pancake. La voglia viene fin troppo ampiamente soddisfatta.
Dopodiché mi rimetto in marcia e, preso da raptus di follia, decido di percorrere l'intera Market Street, su fino a Twin Peaks. Lungo la strada, faccio una breve deviazione per dare un'occhiata al Civic Center, ma sostanzialmente mi limito ad andare dritto come un cretino lungo Market Street, attraversando zone anche abbastanza inquietanti e arrivando finalmente ai piedi di Twin Peaks, questa coppia di colline "residenziali" dalla cui cima si gode di una bella vista sulla città. La salita, specie dopo aver percorso il considerevole tratto rappresentato da Market Street, è decisamente impegnativa, ma tutto sommato devo dire che ne vale la pena.
Dopo essermi goduto per un po' il placido silenzio che domina la zona, decido di scendere lungo il lato nord della collina su cui mi trovo, dirigendomi verso il Golden Gate Park. Qui gironzolo un po' senza meta, osservando campi da football, bei vialetti da passeggio, e, ovviamente, un sacco di alberi. Mentre cazzeggio, però, mi rendo conto che si avvicina l'ora di pranzo, quando peraltro ho appuntamento con Daniele Cucchiarelli per dirigerci verso la sede della Wonder Con (vale a dire il Moscone Center dove, nella settimana successiva, si svolgerà la Game Developers Conference). Decido quindi di incamminarmi per il ritorno, prendendomela comunque comoda, gustandomi la passeggiata e fotografando lungo il percorso chiese, campi da calcio universitari, murales e strani oggetti che decorano Japan Town (pseudoquartiere di cui parlerò più avanti).
Dopo aver attraversato un paio di quartieri (superata Japan Town, sfioro anche Chinatown), arrivo moribondo in albergo, salgo un attimo a rinfrescarmi e sono pronto a ripartire. In tutto questo, nell'arco dell'intera mattinata, ho macinato una decina di miglia abbondanti, una fettina delle quali affrontando l'affosante salita di Twin Peaks. Considerando la vita sedentaria che conduco, specie negli ultimi tempi, non è difficile immaginare le conseguenze di tale impresa. O, meglio, non è difficile immaginarle col senno di poi. L'incoscienza del momento, invece, mi fa procedere tranquillo verso la morte.
In compagnia di Daniele, quindi, imbocco per l'ennesima volta Market Street. La risaliamo più o meno fino all'altezza giusta (senza trascurare una tappa-viveri da McDonald's) e ci avviamo verso il Moscone Center. Sventolando il mio bel bigliettino entro, partecipo all'estrazione di un biglietto per l'anteprima di 300 (fallendo miseramente) e varco la soglia della mia prima convention fumettistica sul suolo americano. Una roba sulla quale ho spesso fantasticato, leggendone in giro e osservandone immagini, e che rappresenta quindi un'emozione non da poco.
L'impatto è notevole: spazi ampi, situazione totalmente rilassata (probabilmente grazie al fatto che ci siamo presentati in un giorno feriale), una marea di roba da osservare e da comprare. Trascorro almeno un'ora vagando senza meta, guardandomi attorno con gli occhi lucidi, boccheggiando, assolutamente non in grado d'intendere e di volere. C'è letteralmente di tutto, fra fumetti, gadget, action figure e puttanate assortite. Da enormi (ma enormi sul serio) stand che vendono solo magliette a immensi carichi di pupazzi, fumetti e qualsiasi altra cosa. Sconti come se piovessero, ospiti vari (Sergio Aragones mi autografa un Groo e mi stringe la mano), perfino uno stand Namco che vende una serie di oggetti meravigliosi legati a Pac-Man.
E poi la meravigliosa sezione dei tavoli, dove una marea di gente più o meno famosa (da, ovviamente, fumettisti a meteore del mondo dello spettacolo), compreso il Virgil che vedete in foto, sulla destra. Sì, lui, il manager di Ted Di Biase. Il bello della zona dei tavoli è che seduti ci sono una caterva di disegnatori più o meno famosi, gente il cui nome ho letto per decenni sulle pagine dei fumetti Marvel e DC e che se ne sta lì, placida, a mostrar tavole, chiacchierare con i passanti, firmare autografi e realizzare disegni al volo (dietro lauto compenso, Ron Lim chiedeva cinquanta dollari). Oh, io nel vedere Gene Colan, tutto vecchietto e avvizzito, seduto lì, a farsi i cazzi suoi, un po' mi sono emozionato. E se il tavolo di Arthur Adams non fosse stato sempre e costantemente vuoto, beh, mi sa che un disegno glie l'avrei pure chiesto. E pagato. Qualsiasi cifra.
Comunque, mi faccio trascinare dal vortice del consumismo e spendo letteralmente una barca di soldi (tanto da essere costretto a un prelievo d'emergenza presso il bancomat che si trova all'interno del Moscone Center). Vado a memoria, ma se non dimentico nulla gli acquisti sono:
- maglietta ufficiale della convention
- maglietta di Domo-Kun per Elena
- pupazzo del funghetto di Super Mario
- volumi sette e otti di Y - The Last Man
- volumi sei, sette e otto di Fables
- volumi tre e quattro di Ex Machina
- Pride of Baghdad
- Watchmen Absolute Edition
- Blankets
A proposito di Blankets, il tizio da cui l'acquisto è davvero simpatico e mi tiene a chiacchierare una mezz'oretta, durante la quale si chiacchiera di quanto sia bello il fumetto di Craig Thompson, dell'edizione "rimasterizzata" vista in Italia e in generale delle fiere di fumetti europee. Il pomeriggio trascorre così placido fino al completo sfinimento che, previa fuga dalla fiera per non rischiare di finire tutti i soldi, si conclude sorseggiando un frappuccino in stato comatoso su un divanetto di Starbucks. Dopo aver rischiato lo svenimento, riusciamo a recuperare le forze e ci dirigiamo in albergo, dove, previa inevitabile e meritato riposo, incontro gli altri (compresi Paolo e il Scamu, che nel pomeriggio si son gustati la gitarella ad Alkatraz) e mi preparo a una cena allucinante.
Vagando a caso per i dintorni dell'albergo, infatti, finiamo per infilarci in un posto assurdo, una specie di trattoria/pub bavarese, dove una banda intrattiene suonando il liscio, mentre un tizio in kilt balla con una Heidi di due metri abbondanti. Ceno mangiando una roba che ricorda una cotoletta alla milanese, solo in edizione tremendamente più pesante e circondata da ogni possibile tipo di condimento. Affascinante l'arredamento completamente folle (purtroppo non documentato con fotografie, mi spiace), molto meno seducente lo smodato conto che ci sarà poi presentato (senza contare il fatto che il cameriere proverà pure a fottersi il resto).
Dopo una notte di coma totale, ovviamente anche sabato 3 marzo mi sveglio mostruosamente presto. Ma poco male, perché mi aspetta un'altra giornata di interminabili marce. Una volta uscito dall'albergo, mi infilo per l'ennesima volta in Market Street e la percorro fino alla fermata della Cable Car (non prima di aver fatto tappa a un simpatico baretto gestito da cinesi, in cui assaporo una cioccolata calda e un paio di donut). Lungo il tragitto su questo tipischen tram di Frisco, scatto qualche foto e giro pure un filmato. Una volta giunto alla baia "occidentale", mi faccio un giretto sul molo e decido d'intraprendere la lunga e interminabile passeggiata verso il Golden Gate.
La giornata è piacevolissima, fa caldo e c'è un sole devastante, quindi la passeggiata, rilassata e affrontata con tutta calma, è una meraviglia. Dopo aver scollinato, mi infilo in questa specie di parchetto e procedo poi dirigendomi verso la mia destinazione, passando accanto a queste bancarelle, zompettando sulla pista ciclabile e fermandomi a cazzeggiare un po' sugli scogli. Poco dopo il tratto di spiaggia, entro in questa specie di pseudo area protetta, che racchiude un laghetto popolato da uccellazzi. Qui mi faccio la foto che ho messo nel profilo, subito prima di riprendere il cammino e avviarmi verso questo simpatico ponticello.
La passeggiata prosegue placida e, piano piano, comincio a rendermi conto di aver camminato un bel po'. Poco prima di arrivare sotto al ponte, affronto questa scalinata verdeggiante e questo sottopassaggio, superato il quale mi rendo conto di essere praticamente giunto a destinazione. Destinazione che, in realtà, rappresenta solo un altro inizio: del resto, sei arrivato fino a qui, che fai, non vuoi attraversartelo tutto a piedi? La passeggiata sul ponte, con vista sull'intera baia (e quindi pure su Alkatraz) è splendida. Anche un po' inquietante, se vogliamo, per le dimensioni imponenti, per l'altezza, per i cartelli di consigli ai suicidi e per il modo in cui, se stai fermo, senti tutto che si muove sotto di te. Ovviamente, realizzo un reportage fotografico.
Sull'altro "versante" si trova un'area verdeggiante - invasa da turisti, famiglie, sportivi e curiosi - in cui ci si può fermare a godersi il panorama. Ovviamente mi fermo e mi rilasso, seduto su un muretto con le gambe a penzoloni, intento a prendere il sole fino a ustionarmi, godermi il panorama e sbirciare la marea di gente con la coda dell'occhio. Dopo una mezz'oretta mi alzo e riprendo a camminare, attraversando un passaggio sotterraneo che conduce all'altro lato del ponte, dove però non mi è possibile tornare indietro, dato che la passatoia occidentale è riservata ai ciclisti. Per un attimo vaglio l'ipotesi di arrampicarmi fino in cima a questo punto d'osservazione, poi rinsavisco e decido che è ora di tornare indietro.
Una volta riattraversato il ponte, vengo colto da un raro momento di lucidità e mi rendo conto del fatto che non ha senso rifarsi tutta la strada a piedi. Mi dirigo quindi verso la stazione degli autobus e mi imbarco su un torpedone che mi riporta più o meno al punto in cui ero sceso dalla Cable Car. Da qui mi avvio verso est, ripercorrendo un tragitto che avevo già assaporato nel press tour di tre anni prima.
Passeggio quindi lungo questa strada che costeggia la baia, carica di negozi e ristoranti. Decido di infilarmi a mangiare nello stesso Johnny Rockets presso cui avevamo pasteggiato nel 2003 e, dopo mangiato, procedo fino al Fishermans Wharf, molo turistico e paccottiglioso, su cui trova spazio uno spettacolare negozio dedicato al merchandise ufficiale delle varie leghe sportive americane. Sono molto orgoglioso di poter dire che questa volta (al contrario della precedente), ne esco senza spendere un soldo (nonché dopo essermi gustato la vista di due cheerleader degli Oakland Raiders, presenti in loco per un evento promozionale).
Proseguo imperterrito la mia passeggiata e raggiungo il molo 39, che ospita una simpatica banda di leoni marini, da me immortalati in un filmato e nelle tre foto che vedete qua sotto.
Sbrigata la pratica leoni di mare (tre anni fa non li avevo visti e la cosa mi infastidiva un po'), decido di incamminarmi verso l'albergo. Dopo aver un po' vengo colto da ulteriore follia e seguo una deviazione, che mi porta ad arrampicarmi su una collina, a vedere questa roba e a raggiungere la Coit Tower (mamma mia che nome infelice). Qui, dopo aver depositato l'inevitabile obolo, salgo fino in cima e godo dell'ennesima bella vista sulla città. Mentre osservo il panorama, però, i piedi, le gambe e un po' tutto il corpo cominciano a insultarmi in maniera anche abbastanza pesante, quindi decido che è il caso di tirare dritto verso l'albergo.
Nel farlo, attraverso Little Italy e una Chinatown in gran forma. Osservando immani assembramenti di cinesi e gente che prepara dragoni da parata, finalmente realizzo il motivo per cui da tre giorni in albergo ci regalano biscottini della fortuna: capodanno cinese incoming! Mi faccio strada fra la folla, fotografo questo palazzo verde, sopravvivo all'assembramento di cinesi, che son lì addirittura seduti sugli spalti, pronti ad osservare la parata, e arrivo nelle vicinanze dell'albergo. Prima di entrare, mi infilo nello Starbucks di fronte per recuperare un frappuccino. Quando esco per tornare in albergo, faccio appena in tempo a fotografare questa cosa che, mi spiace, rappresenta anche l'ultima foto, perché in serata e in tutta la giornata successiva non ne ho fatte.
Il resto del pomeriggio lo trascorro moribondo in camera, rinfrescandomi a tratti i piedi nel frigobar. In serata si esce, con l'aggiunta al gruppo di Solettone, privo di valigia (rimasta nello stramaledetto aereoporto di Parigi) e costretto ad andare in giro con la tuta del Bayern Monaco che ha addosso da prima di partire. E le pappe? Si torna dal messicano, dove mi sfondo con una specie di Taco All Stars il cui contenuto non sono veramente in grado di descrivere. Posso dire che buona parte del piatto non sarò in grado di mangiarla.
Passiamo quindi a domenica 4 marzo, il giorno della partenza (fissata nel pomeriggio). Il risveglio è di quelli da morte imminente: tutte (ma tutte) le ossa e tutti (ma tutti) i muscoli del corpo mi fanno male. In più ho chiaramente avuto problemi di digestione (e te credo, McDonald's, frappuccino e inferno del taco nel giro di nemmeno dieci ore) e la cacarella si fa sentire. La giornata promette bene.
Trovo comunque la forza di uscire, perché ho le classiche commissioni dell'ultimo minuto da portare a compimento. Delle commissioni fa parte la ricerca di un salone di bellezza aperto per comprare non ricordo cosa per la Cloti (mamma della Rumi). Ho una mail con tanto di indirizzi e mappette da consultare, quindi mi appunto quel che mi serve e, dopo aver gestito il checkout e mollato le valige, parto. E scopro nuove forme di agonia. Mi trascino per le strade di San Francisco in maniera pietosa, zoppicando e arrancando, fermandomi ogni tanto per prendere fiato, agonizzando, per l'appunto. Il primo salone di bellezza provato, ovviamente, è chiuso.
Dietro front, via verso Union Square, che lungo il tragitto c'è un altro salone. C'è, c'è, sono sicuro, è lì avanti. Ecco, poco più avanti. Aspetta, mi devo fermare a prendere fiato... ... ... bene, ripartiamo. Ecco, dovrebbe essere qui. Qui dove non c'è. Sigh. Vabbé, andiamo avanti, saliamo su fino a Union Square. Oddio mi sento male. Avanti, avanti. Ecco, la libreria, il libro di Jerry Rice per Grùspola. Perfetto, ora andiamo da Rasputin, che volevo comprare il DVD del... COME?!? APRE ALLE UNDICI?!? Porca troia. Ok, basta, sto morendo, torniamo in albergo.
Lungo la strada incrocio Sole, ancora con la tuta del Bayern Monaco addosso, di ritorno da GAP, dove ha speso il centone di euro garantiti dalla compagnia aerea per comprarsi vestiti. Già, ha dovuto aspettare le undici di mattina del secondo giorno, perché aprisse il negozio. Con la tuta del Bayern Monaco. Col caffé rovesciato addosso. Coi barboni che lo salutano. Vabbé, albergo.
Arrivo in albergo, mi incontro con gli altri e, dopo un po' di chiacchiera durante la quale fatico a vivere, decidiamo di andare a mangiare. Ci facciamo raggiungere da Solettone e pigliamo un taxi per Japan Town, questa specie di lungo rettangolo costituito di soli ristoranti, più una piazzetta squallida e un paio di costruzioni "tipiche". Ci infiliamo in un ristorante giapponese a caso, tale Miyako, che si rivela più che discreto e provvisto di una simpatica cameriera a mandorla, che ci intratterrà raccontando del suo viaggio in bicicletta per l'Europa. Mi cibo di sushi, zuppa di miso e the caldo, una combinazione che, incredibilmente, sembra riassestarmi un po' lo stomaco. Il pasto, fra l'altro, calma il mal di testa che stava aggiungendosi alla gioia di vivere.
Dopo mangiato zompiamo su un altro taxi e ci dirigiamo a Union Square, dove ci impegniamo negli ultimi acquisti (io mi infilo nel finalmente aperto Rasputin e recupero i DVD di Ichi the Killer e Audition). Dopodiché salutiamo il Solettone e Cucchiarelli e - abbandonata per impraticabilità di campo l'idea di andare al cinema a vedere Zodiac - ci incamminiamo lungo Market Street. Imperterrito, una volta arrivato all'altezza dell'albergo, mi separo dagli altri e proseguo verso il salone di bellezza che avevo trovato chiuso in mattinata. Ovviamente è ancora chiuso.
Imbocco quindi la via dell'albergo, ma non mi fermo, tiro dritto per non so quanto, alla ricerca di un altro salone. Chiuso. "Mmm... direi che sono ufficialmente tutti chiusi la domenica." Mi trascino fino all'albergo, dove reincontro gli altri, mi sdraio su un divanetto e collasso letteralmente fino al momento della partenza. Il viaggio di ritorno sarà abbastanza tranquillo, soporifero, direi, e le mie condizioni miglioreranno di giorno in giorno, anche se lo stomaco ci metterà un po' a riprendersi. E il pensiero comincia a farsi sempre più concreto: sono troppo vecchio per queste stronzate.
Scriptnotes, Episode 665: What Can You Even Do?, Transcript
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The original post for this episode can be found here. John August: Hello
and welcome. My name is John August. Craig Mazin: Well. My name is Craig
Mazin. Jo...
5 ore fa
2 commenti:
Alla faccia della logorrea!
Foto molto belle però.
Considerando il catorcio di fotocamera che uso, le foto sono MERAVIGLIOSE.
:D
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