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29.11.13

Upstream Color

Upstream Color (USA, 2013)
di Shane Carruth
con Amy Seimetz, Shane Carruth

Shane Carruth è un laureato in matematica che ha iniziato la sua carriera lavorativa impegnato nella creazione di simulatori di volo e poi ha deciso di darsi al cinema, facendolo senza compromessi, nel ruolo di sceneggiatore, regista, attore, produttore e financo autore della colonna sonora di film stra-personali, realizzati di testa sua, in maniera totalmente libera e indipendente, senza tollerare alcun tipo d'ingerenza da parte di produttori o chicchessia. Nel 2004 è uscito Primer, suo film d'esordio, che ha vinto numerosi premi ed è generalmente noto come "Quel film sui viaggi nel tempo in cui non si capisce niente e forse, se ti concentri molto, alla terza o quarta visione capisci metà di quel che racconta". Dopodiché, probabilmente anche un po' per quella storia bizzarra del "Faccio come dico io e non rompetemi le palle", per vedere il suo secondo film si è dovuto aspettare il 2013. Nove anni di attesa, durante i quali il suo nome è spuntato praticamente solo in relazione a Looper, per il quale ha contribuito alla sceneggiatura con qualche annotazione. E com'è, Upstream Color? Beh, è "Quel film in cui non si capisce niente e forse, se ti concentri molto, alla terza o quarta visione, capisci perlomeno di che cosa parla."

Considerando che io di visione ne ho alle spalle una sola, oltretutto risalente ormai a quasi due mesi fa, potrebbe risultarmi un po' complesso riassumere in poche parole il soggetto alla base del film. Ma, intendiamoci, mi sarebbe risultato altrettanto complesso farlo subito dopo averlo visto. Anzi, ricordo distintamente più di una chiacchierata con altre persone in cui (non) raccontavo quel che avevo visto. Provo quindi a segnalare alcuni punti fermi. Al centro del film c'è una storia d'amore, o qualcosa del genere. All'inizio del film c'è un personaggio che alleva dei vermi, o qualcosa del genere, che gli permettono di controllare volontà, movimento e comportamento delle persone a cui li inocula (o qualcosa del genere). Dopo l'avvio del film, questo personaggio scompare del tutto e la storia si concentra sul rapporto complicato fra due reduci - un lui e una lei - del trattamento di cui sopra, dal quale difficilmente si esce bene. Ah, c'è anche un tizio che alleva dei maiali.

E dunque? Dunque, Upstream Color è innanzitutto un film tremendamente affascinante per le sue atmosfere, la sua messa in scena surreale, la sua stordente cura per l'immagine e il gusto tutto particolare con cui riesce a piazzarti in fila una lunga serie di visioni e scene molto evocative. Preso scena per scena, fra l'altro, ti dà anche l'impressione di stare capendo quel che accade: è quando provi a trovare un filo logico che unisca tutto quanto, che emergono i problemi. Non perché il filo logico manchi, anzi, è evidente e neanche troppo sottile, ma perché se si cerca di trovare un senso lineare nel racconto si finisce per impantanarsi nel whaddafuck. E allora godersi Upstream Color diventa in fretta molto facile: assimilato lo stato delle cose, butti fuori dalla finestra il disperato tentativo di star dietro alla storia e ti limiti a immergerti nel mondo stralunato di Shane Carruth, godendoti il suo tripudio d'immagini assurde, la forza romantico-depressa del rapporto fra i due protagonisti e la riflessione sul libero arbitrio e sul senso d'identità che nonostante tutto, pur nel delirio sconclusionato della narrazione, emerge di prepotenza. Per il resto ci sono la seconda, la terza e la quarta visione. E le successive.

Ho visto Upstream Color a settembre, al cinema, durante il Fantasy Filmfest a Monaco di Baviera. Il film è uscito nei cinema americani a distribuzione limitata e pure in quelli britannici. Esiste inoltre in formato DVD e Blu-ray, ma al momento solo in America. Non tratterrei il fiato in attesa di una distribuzione italiana.

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