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17.1.13

End of Watch


End of Watch (USA, 2012)
di David Ayer
con Jake Gyllenhaal, Michael Peña

David Ayer è arrivato a dirigere End of Watch dopo essersi costruito una carriera da sceneggiatore che oscilla in qualche modo fra il competente e l'eccellente. U-571, Fast And Furious, Training Day, Dark Blue e S.W.A.T. non sono certo tutti capolavori ma non rappresentano un brutto ruolino di marcia, anzi. In più, Ayer ha già fatto anche il regista, con il notevole Harsh Times, che del resto si era scritto lui, e il più che valido La notte non aspetta, con nientemeno che James Ellroy alla macchina da scrivere. Ora, tolta la sceneggiatura d'esordio, si vede un filo conduttore abbastanza evidente: la polizia. E a volerla dire tutta, c'è un altro filo conduttore mica da ridere: la polizia sporca e brutta, quella che si fa traviare dal crimine, che cade vittima della tentazione, si alcolizza, pesta, gira intorno al confine fra bene e male, sostanzialmente fa brutto. Quella di Rampart, volendo. Ebbene, pare un po' bizzarro, ma con la sua terza prova dietro alla macchina da presa, Ayer sceglie di puntare su uno stile estetico e registico all'insegna dell'assoluto realismo, dello schiantare la faccia dello spettatore sul cemento, per raccontare però la storia di due agenti eroici.

Tutto sommato, si può tranquillamente dire che l'intreccio di End of Watch è quello di un classicissimo buddy cop movie, con un paio di protagonisti che sono bravi, buoni, belli e simpatici, dei dialoghi davvero divertenti e dei cattivi che sono violenti, brutali e stronzi. Non ci sono vie di mezzo, non c'è nessuna zona grigia, non c'è quella ricerca della dubbia moralità che sembra essere obbligatoria nel poliziesco del nuovo millennio. Magari quella di Ayer è stata una crisi di rigetto, un voler raccontare, una volta tanto, che esistono anche poliziotti semplici, onesti, magari non perfetti, ma normali, sinceramente desiderosi di aiutare le persone, nel loro piccolo eroici, e talvolta costretti ad avere a che fare con cose più grandi di loro e con criminali che son sinceramente, brutalmente, onestamente brutte persone (anche se, forse, la loro caratterizzazione sopra le righe rappresenta l'aspetto meno credibile del film... o magari no, in fondo non è che io sia un esperto di criminalità ispanica a Los Angeles).

Tutto questo viene raccontato con uno stile documentaristico e una regia da found footage, anche se found footage non è. Lo spunto d'avvio, dopo dei titoli di testa che sembrano usciti da Una pallottola spuntata, vede il personaggio di Jake Gyllenhaal riprendere le sue giornate di lavoro con un paio di videocamere, ma in realtà poi Ayer segue quel modello solo a tratti e mescola la cosa con una regia invece più tradizionale, anche se sempre "traballante". Questa scelta, unita a una scrittura dei personaggi assolutamente terra terra e alla pazzesca, pazzesca, pazzesca bravura dei due protagonisti e di chi sta loro attorno, va a comporre un film che è un'esperienza straniante. Perché nonostante sia chiaro che sono tutti attori ed è tutto sceneggiato, sembra davvero di stare guardando uno di quei reality show in cui si seguono le gesta della polizia, solo confezionato e recitato mille volte meglio, quindi allo stesso tempo più finto, ma anche più vero. Che in effetti non vuol dire nulla, ma non importa. Fatto sta che quando i due si trovano ad avere a che fare con agghiaccianti esempi di bassa umanità ti si gela il sangue, quando le cose vanno bene sei contento per loro, quando arriva il dramma colpisce duro. E non è quel che dovrebbe accadere con un bel film?

L'ho visto l'altro giorno, in lingua originale, che merita sempre quando gli attori son così bravi, qua a Monaco. Dove è uscito dopo che in Italia. Ogni tanto capita.

1 commenti:

Il film è piaciuto anche a me, non solo per la brutalità della messa in scena, ma forse soprattutto per i dialoghi, per l'empatia che si crea con i personaggi grazie ai loro discorsi sulle donne, la vita e la quotidianità, interpretati in modo da rendere credibili e sentite anche le argomentazioni un po' spicciole.

Penso che il merito di Ayer sia quello di aver provato a calarsi nell'ottica di un poliziotto normale, senza mettere in bocca a chi ha a che fare tutti i giorni con la merda vera del mondo discorsi da intellettuale solo per dimostrare di essere bravo a scrivere.

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